(S&V) Che cosè lo stato vegetativo persistente?

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Newsletter di Scienza & Vita n° 19 – 23-12-2008

Un punto, sintetico, sullo stato delle conoscenze mediche

STATI VEGETATIVI PERSISTENTI
SI’ ALLA RICERCA, NO AGLI ABBANDONI

di Massimo Gandolfini

La sindrome clinica che connota quello che oggi chiamiamo "Stato Vegetativo Persistente" (SVP) venne descritta dettagliatamente, per la prima volta, da Ernst Kretschmer nel 1940 (infatti, per lungo tempo, si parlò di Sindrome di Kretschmer), che le attribuì la denominazione "sindrome apallica", volendo sottolineare l’elemento caratteristico della grave compromissione della corteccia cerebrale ("pallium").
La dizione propria di Stato Vegetativo Persistente si deve al neurochirurgo scozzese Bryan Jennet ed al neurologo americano Fred Plum, nel 1972.
Lo stesso anno veniva pubblicata la prima edizione di "Diagnosis of Stupor and Coma", ad opera dello stesso Plum, coadiuvato dal neurologo Jerome Posner: si può considerare la prima opera completa, in età moderna, sul tema dei comi e degli stati post-comatosi.
Lo Stato Vegetativo (SV), che può essere l’evoluzione di un coma da insulto cerebrale traumatico e/o vascolare (va precisato che recenti acquisizioni ci dicono che anche un Alzheimer o un Parkinson avanzati possono esitare in uno SV) è una condizione patologica caratterizzata da perdita del contenuto di coscienza, mantenimento dello stato di vigilanza e del ritmo sonno/veglia (in grado variabile), conservazione della funzionalità del tronco cerebrale (ritmo cardiorespiratorio, temperatura corporea, reazioni vegetative, ecc…). Lo SV può essere temporaneo (il limite viene posto a 30 giorni) e dar luogo ad un "risveglio" con recupero neuro-cognitivo variabile. Quando, invece, si superi detto intervallo di 30 gg., configurandosi la sindrome clinica descritta, si entra nel cosiddetto SVP. Va precisato che nel 1996 il Royal College of Phyisicians propose una distinzione in tre forme: SV, SV Continuo, SV Permanente, ma la comunità scientifica mondiale preferì adottare una terminologia meno "rigida" in ordine alla irreversibilità clinica, coniando il termine "persistente". Ad oggi, i casi limitatissimi ma inequivocabilmente presenti, di "risveglio" anche dopo anni suffragano la scelta di tale denominazione.
Le più comuni basi anatomopatologiche dello SVP, ovviamente con estensione variabile, sono la necrosi talamica bilaterale, la necrosi laminare corticale e il danno assonale diffuso. Su tali basi, una parte della scuola francese propose il termine di "morte neocorticale". Oggi più che mai possiamo rigettare questa denominazione: gli studi con RMN-funzionale e tecniche di neurostimolazione dimostrano la presenza di aree corticali attive e funzionanti.
Lo SVP va distinto dal cosidetto Stato di Minima Coscienza (SMC), che l’ American Academy of Neurology nel 2002 ha definito con le seguenti caratteristiche cliniche (sempre con variabilità quantitative da caso a caso): limitata ma evidente consapevolezza di sè e dell’ambiente, risposta a comandi semplici, risposte verbali o posturali si/no, comportamenti volontari a stimoli ambientali. In realtà la diagnosi differenziale fra SVP e SMC non è così semplice come si potrebbe pensare, se uno studio del 2005 stima un errore diagnostico del 30-40%. Lo SMC può durare pochi giorni o pochi mesi, può anche avere un andamento intermittente, con lunghi periodi di regresso clinico, ed è statisticamente caratterizzato da una prognosi favorevole circa il recupero neurocognitivo. Comunque, qualora persista per più di 12 mesi, il recupero non va oltre il livello di "grave disabilità" codificato dalla GOS (Glosgow Outcome Scale).
Oggi più che mai viene dibattuto un punto nodale dello SVP, anche per le ricadute bioetiche che esso comporta: la reversibilità. Assunta la considerazione della non sempre facile diagnosi differenziale fra SVP e SMC, se uno SVP dura meno di un anno ci sono statisticamente 60% di probabilità di un qualche recupero dello stato di coscienza in età pediatrica, e 50% in età adulta. I dati "crollano", ma non si azzerano, quando lo SV persista oltre i due anni.
Le basi neuroanatomiche del possibile "risveglio" sono da ricercarsi nella cosidetta "neuroplasticità": sotto la spinta di "growth factors" (fattori di crescita) si possono riparare reti neuronali danneggiate, con scomparsa dell’anisotropia post-lesionale. I vari tentativi terapeutici (farmacologici, cognitivi, di neurostimolazione centrale e periferica) mirano ad attivare (o riparare) network neuronali talamo-corticali e reticolo-corticali che stanno alla base del recupero della coscienza.
Questo campo di ricerca è ancora bisognoso di grandi sforzi e di grandi studi. E’, pertanto, doveroso essere rigorosi, prudenti e critici nell’esprimere sia facili condanne di irreversibilità, sia inappropriate illusioni di recupero: a mio avviso, noi studiosi abbiamo la gravosa responsabilità di poter provocare quel "male sociale" fatto di sogni, poi traditi, o di disperazioni, poi smentite dai fatti, che non giova né alla società né alla scienza. Con altrettanta determinazione va detto che non possiamo imboccare facili scorciatoie che evocano immagini di "vite inutili e infraumane", che solo la pratica eutanasica può "risolvere". Al contrario, tutta la storia della medicina e della ricerca biomedica ci insegna che di fronte a compiti difficili (spesso ritenuti impossibili) si devono moltiplicare ingegno, intuito, passione, studio e… cuore! Se la ricerca sullo SVP non deve e non può essere abbandonata, a maggior ragione il paziente in SVP non può e non deve essere abbandonato.