(RnS) Card Biffi: Predicare anche a musulmani, ebrei e buddisti

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Rimini, convocazione dei gruppi del Rinnovamento nello Spirito Santo

26 aprile 2003

I

“Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni.” (At 4,13)

“Franchezza traduce il termine greco “parresia” che è frequentissimo nel
Nuovo Testamento e indica soprattutto lo stile dei discepoli di Gesù nel
rendere testimonianza al loro Maestro: vuol, dire “libertà di parola” e
capacità di esprimersi senza paure.

È un vocabolo che in questi decenni talvolta compare nei discorsi di qualche
settore acculturato e inquieto della cristianità; ma viene usato con un
significato ben diverso da quello neotestamentario. Mette conto allora di
mettere in luce qualche necessaria distinzione.

Secondo gli scritti apostolici “parresia” è il coraggio di annunciare il
Signore Gesù e il suo messaggio di luce, anche davanti a chi è ostile,
prevenuto, talvolta persino prepotente e oppressivo. Non è la temerarietà di
turbare i fratelli nella fede, proponendo opinioni mondane e facili
compromessi.

È sfidare i dominatori di questo secolo (i signori del potere, della
ricchezza, dell’informazione) affidandosi alla sola forza del Vangelo. Non è
contestare gli inermi pastori della Chiesa, magari proprio nei momenti e
nelle occasioni in cui con le loro dichiarazioni essi si sforzano di restare
fedeli al loro Signore e alla sua volontà.

È la meditata fermezza di far risuonare tra le molte e volubili insipienze
umane l’eterna sapienza di Dio. Non è la superficialità e l’improntitudine
di far circolare entro l’incolpevole popolo cristiano le proprie discutibili
idee, anche quando sono lontane dal comune sentire dei fedeli e dalla sana
tradizione ecclesiale.

Insomma, “parresia” non è l’audacia di diffondere entro la “nazione santa” e
il “popolo che Dio si è acquistato” (cfr. 1Pt 2,9) le aberrazioni della
cultura dominante; è invece l’animosa e indomabile volontà di portare Cristo
e il suo Vangelo a un’umanità che appare spesso disorientata e riottosa, ma
intimamente è sempre assetata di verità e di salvezza.

Questa franchezza apostolica è un dono prezioso dello Spirito Santo, il
quale sa infondere e alimentare nel cuore dei credenti la novità della vita
redenta, preserva da ogni avvilente timore umano, regala un autentico e
soprannaturale non-conformismo: “Dove c’è lo Spirito del Signore, lì c’è la
libertà” (2 Cor 3,17). Ed è un dono che dobbiamo quotidianamente implorare.

II

La seconda parola su cui cerchiamo di riflettere è “incredulità”. È
impressionante l’insistenza di questa finale del Vangelo di Marco nel
rilevare lo stato d’animo del Nazzareno in quella decisiva giornata di
Pasqua: “non vollero credere” (Mc 16,11), “neanche loro vollero credere” (Mc
16,13) “li rimproverò per la loro incredulità” (Mc 16,14).

Questa incredulità dei primi discepoli giova alla nostra fede e la rafforza.
L’ipotesi che il Crocefisso del Golgota potesse tornare in vita era del
tutto estranea ai loro pensieri: dopo aver visto la pietra rotolata sul
sepolcro che racchiudeva il corpo esangue del loro Maestro, essi erano tutti
delusi, avviliti, senza alcuna fiducia. Il Signore ha dovuto faticare non
poco a convincerli della sua risurrezione.

Dove si vede che l’evento pasquale non nasce da una pia illusione o dal
desiderio negli sconfitti di un’improbabile rivincita (come qualcuno ha
immaginato in contrasto con tutti i dati storici in nostro possesso). Il
convincimento della risurrezione nasce da ciò che contro ogni attesa e ogni
speranza è effettivamente avvenuto. L’avvenimento sorprendente e
assolutamente inaspettato ha costretto a credere; è l’avvenimento che ha
generato la fede, non è la fede che ha creato l’avvenimento.

* * *

Gesù pare segnalare la causa psicologica dell’incredulità, quando aggiunge
il concetto di “durezza di cuore” (‘sclerocardia’) dove il “cuore” indica l’
intero mondo interiore dell’uomo, ivi compreso (secondo la cultura semitica)
anche l’attività intellettuale.

Nel Nuovo Testamento la “sclerocardia” “denota l’ostinata insensibilità
umana agli annunci della volontà salvifica di Dio; volontà che domanda di
essere accolta dall’uomo appunto nel “cuore”, cioè nel centro della sua vita
personale” (Kittel V,216)

È una malattia spirituale che può ritrovarsi in forma leggera o in forma
grave persino in coloro che sono più o meno “credenti”. Perciò è opportuno
che ciascuno di noi s’interroghi e si esamini su questo punto.

Anche in coloro che pure hanno una fede sincera e autentica permangono di
solito delle “zone di incredulità”: residui pagani di mentalità, di
sensibilità, di affettività, che chiedono di essere seriamente messe in
sintonia col Vangelo. Ci sono nel nostro universo interiore delle regioni
sulle quali la croce non è stata ancora piantata. Lo Spirito Santo ci sproni
e ci sostenga in una nell’impresa difficile e necessaria di una continua
‘autoevangelizzazione”

Credo sia anzi lecito, e persino benefico, pensare addirittura che i confini
tra la fede e l’incredulità passino attraverso il cuore di ogni uomo.
Ciascuno di noi possiede dentro di sé, in groviglio e in tensione, le
gioiosa certezze che ci sono date da Dio e le più tormentose difficoltà
umane, le speranze e gli smarrimenti, la luce e l’oscurità.

Mi ha sempre colpito la preghiera del padre del ragazzo epilettico, riferita
nel vangelo di Marco: “Credo, Signore, ma tu aiuta la mia incredulità” (Mc
9,24)

Sembra una contraddizione: crede o non crede quest’uomo? Sembra una
contraddizione, ma forse, a un livello di conoscenza più profonda e più
concreta, questa implorazione coglie stupendamente il mistero insondabile
del nostro cuore.

III

“Predicate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15). È l’estremo comando che
ci ha lasciato il Risorto.

Dalla fede scaturisce l’annuncio. Chi crede sul serio non può non darsi da
fare perché anche gli altri credano. Chi è stato davvero evangelizzato
diviene per forza di cose evangelizzatore. Nessuno osi distoglierci dall’
attenere a questo nostro dovere primario. Sarebbe come impedirci di essere
quello che siamo; e costituirebbe un grave e intollerabile attentato alla
nostra identità di cristiani cattolici.

Gesù ci ha detto: “Andate in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo”. Non
ci ha detto: “Andate a dialogare.”

Spero di non essere frainteso. Non ce l’ha detto, non perché il dialogo sia
una cosa riprovevole o inutile, al contrario: non ce l’ha detto perché il
dialogo con tutti è una cosa tanto ovvia e inevitabile da poter essere
tranquillamente sottintesa.

Ma ho scelto positivamente di sottintenderla perché l’impegno dell’annuncio,
espresso in modo esplicito, risaltasse nella sua primarietà senza possibili
malintesi o confusioni.

Gesù ci ha detto: “Predicate il Vangelo a ogni creatura”. Non ci ha detto:
“Predicate il Vangelo a ogni creatura tranne gli ebrei, i musulmani e il
Dalai Lama”.

Nessun timore di esser accusati di proselitismo può raggelare il nostro
slancio apostolico. Il proselitismo consiste nel non rispettare la libera
autonomia delle persone, costringendole con la violenza o l’astuzia o le
pressioni psicologiche; e noi fermamente lo riproviamo.

Noi dobbiamo e vogliamo contare soltanto sul fascino naturale che la verità
di Cristo possiede quando è presentata con intelligenza e integralmente, ed
è testimoniata dalla carità. Ma soprattutto contiamo sulla grazia
illuminante dello Spirito Santo, che è capace di vincere ogni “sclerocardia”.

Giacomo
Cardinal Biffi