Rito Romano tradizionale e Primato di Pietro

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Il Motu Proprio Summorum Pontificum, promulgato da Benedetto XVI il 7 luglio 2007, è un evento storico di cui solo il futuro potrà rivelare la reale portata. Il Rito Romano antico della Santa Messa, peraltro mai giuridicamente abrogato, ritrova la sua piena cittadinanza. Il Messale Romano, impropriamente detto di san Pio V, deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” formulata dal Nuovo Messale di Paolo VI del 1969 e «deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico» (art. 1 del M.P.).

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di Roberto De Mattei dalla Rivista Radici Cristiane

Il Motu Proprio Summorum Pontificum, promulgato da Benedetto XVI il 7 luglio 2007, è un evento storico di cui solo il futuro potrà rivelare la reale portata. Il Rito Romano antico della Santa Messa, peraltro mai giuridicamente abrogato, ritrova la sua piena cittadinanza. Il Messale Romano, impropriamente detto di san Pio V, deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” formulata dal Nuovo Messale di Paolo VI del 1969 e «deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico» (art. 1 del M.P.).

Ogni sacerdote potrà liberamente celebrare la Messa tradizionale (art. 2) e al Rito antico possono essere ammessi i fedeli che lo chiedano di loro spontanea volontà (art. 4). I parroci e i vescovi «accolgano volentieri» le richieste dei fedeli (art. 5). La Commissione “Ecclesia Dei”, i cui poteri sono stati rafforzati, vigilerà sull’osservanza e sull’applicazione delle disposizioni pontificie (art. 11- 12). Questo in sintesi quanto stabilisce il nuovo documento pontificio.

Ma vediamo in cosa consiste la sua importanza. Il Motu Proprio, secondo le stesse parole del Papa, è innanzitutto destinato a costituire un fattore di riconciliazione e di unità all’interno della Chiesa, dove ancora non si sono rimarginate le ferite provocate dalle sperimentazioni liturgiche postconciliari, spesso «al limite del sopportabile». «Parlo per esperienza – ha scritto Benedetto XVI, nella lettera di accompagnamento al documento – perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni.

E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa».

Il carattere pacificatore del Rito Romano antico deriva anche dalla universalità della lingua latina, connaturale alla religione cattolica, come ha osservato Romano Amerio, perché
capace, più di ogni altra lingua, per la stabilità lessicale e grammaticale che le è propria, a formulare e a conservare, attraverso le generazioni, l’integrità e l’immutabilità della nostra fede.

L’epoca della globalizzazione contiene in sé un’aspirazione all’universalità che la lingua latina e il rito tradizionale sono in grado di appagare, mentre la strada imboccata in nome della “creatività” liturgica, è stata spesso quella della frammentazione linguistica, e teologica, fino ad arrivare a forme di inaccettabile “inculturazione” sul piano nazionale, locale, e qualche volta tribale.

Il secondo importante carattere del Rito Romano è la capacità di tradurre le formule   dogmatiche della lex credendi in quelle di una in equivoca lex orandi. Nel libro che, prima dell’elezione al pontificato, dedicò alla Introduzione allo spirito della liturgia (San Paolo, Milano 2001), il cardinale Ratzinger, scriveva che oggi, nelle cerimonie liturgiche,
l’attenzione è rivolta sempre di meno a Dio e sempre di più all’Assemblea di cui il sacerdote – o il “presidente”, come si preferisce chiamarlo – diventa il vero e proprio punto di riferimento. «Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione».

Nella nuova liturgia, spesso il centro della Messa non è rappresentato dall’altare, dove il sacerdote opera in persona Christi, ma dall’assemblea dei fedeli. Espressione di questo fraintendimento della liturgia è la celebrazione versus populum,in modo che il sacerdote e
il popolo possano guardarsi a vicenda e costituire così nel loro insieme il cerchio di celebranti.
In realtà, fin dai primi tempi della Chiesa, la liturgia eucaristica si svolge presso l’altare, che i fedeli circondano, rivolti tutti con il celebrante, ad Dominum, verso Oriente.

Si dice che la liturgia tradizionale, per la sua incapacità di adattarsi alla mentalità contemporanea, allontanerebbe l’uomo da Dio. In realtà l’epoca della secolarizzazione contiene un’aspirazione al sacro e al trascendente che il Rito Romano soddisfa pienamente, come dimostra l’attrazione crescente che esso continua ad avere tra i giovani.

Lo stesso Benedetto XVI lo ha sottolineato nella sua lettera del 7 luglio: «è emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia».

L’importanza del Motu Proprio di Benedetto XVI va tuttavia al di là della questione liturgica. È a tutti noto che il Pontefice ha subito forti pressioni per non pubblicare il documento. Una volta appresa la sua decisione, gli intellettuali “progressisti”, italiani e stranieri, hanno accusato il Papa di aver voluto trasformare i ve scovi in “notai”, chiamati solo a  certificare la volontà del Pontefice (cfr. ad esempio Alberto Melloni, E il vescovo diventa notaio, sul “Corriere della Sera”, 5 luglio 2007). Se si desse retta a questi critici, sarebbe il Papa ad essere trasformato in “notaio”, chiamato so lo a certificare la volontà episcopale, che peraltro, su questo, come su altri punti, è tutt’altro che univoca e “collegiale”.

Il Papa ha ascoltato le obiezioni, lasciando passare qualche mese per far placare le acque, ma poi, come ha affermato nella sua lettera, «dopo aver ascoltato i Cardinali nel Concistoro
tenuto il 22 marzo 2006, dopo aver  riflettuto approfonditamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull’aiuto di Dio», ha assunto personalmente e definitivamente le sue decisioni.

Con questo atto Benedetto XVI ha riaffermato il primato e l’autorevolezza del Romano Pontefice, responsabile del suo potere solo dinanzi a Dio, a differenza di tutti gli altri vescovi, responsabili anche dinanzi al Papa. Il Pontefice romano, scrive un illustre giurista, commentando i canoni 331 e 333 del nuovo Codice di Diritto Canonico, «è l’autorità giuridica sovrana di tutta la Chiesa e, in virtù del suo primato di governo universale, ne resta il legislatore supremo. Si tratta di un dogma di fede e di una realtà giuridica» (JOEL-BENOIT D’ONORIO, Le Pape et le gouvernement de l’Eglise, Paris 1992, p. 100).

Nella situazione di confusione in cui versa oggi il mondo, bisogna essere profondamente grati a Benedetto XVI non solo per aver restituito alla Chiesa il tesoro liturgico del Rito antico, ma per aver riaffermato l’autorità del Papa, l’unico a cui Gesù Cristo abbia trasmesso il pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa universale (Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor Æternus).

(Roberto de Mattei)