Joseph Ratzinger, Il Dio vicino. L’eucaristia, cuore della vita cristiana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, pp. 162
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Il volume, pubblicato nel 2001 in Germania col titolo Gott ist uns nah. Eucharistie: Mitte des Lebens (Sankt Ulrich Verlag GmbH, Augsburg), raccoglie testi di diverso genere – conferenze, omelie, lezioni – risalenti ad un periodo compreso tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta e costituisce pertanto una piccola summa del pensiero teologico di Joseph Ratzinger sul sacramento dell’eucaristia. Come di consueto rileviamo che pur non essendo ovviamente magistero, tuttavia si tratta di un testo molto utile per comprendere l’insegnamento di papa Benedetto XVI, tenendo conto anche della sua costante attenzione alla degna celebrazione dell’eucaristia. La vicinanza di Dio non è solo il filo conduttore che lega i vari capitoli del libro, ma il centro dell’intera rivelazione, poiché la fede cristiana non è una vaga opinione, ma un sì concreto ad un Dio che non si è limitato a rivelarsi, ma si è fatto Egli stesso uomo. Non a caso durante la recita del Credo ci si genufletteva alle parole: et incarnatus est… «Questo mostrarsi di Dio, in forza del quale egli non è un nostro pensiero, ma il nostro Signore, costituisce quindi il centro della professione di fede» (pp. 5-6), in cui non si può prescindere dal ruolo di Maria, già profetizzato da Isaia (Is 7,14). Il seno di Maria – su cui l’Altissimo stende la sua ombra (cfr. Lc 1, 35) proprio come la santa nube circondava l’arca dell’Alleanza – diventa la nuova dimora di Dio, che stringe così un legame non solo materiale, ma carnale, con le creature e l’intera creazione. San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) avverte l’immensa portata del “sì” – e quindi della libera scelta – di Maria: «l’angelo aspetta la tua risposta, poiché è tempo di ritornare presso Colui che lo ha inviato… O Signora, rispondi con la parola che la terra, che l’inferno, che il cielo attendono» (p. 13). Naturalmente Cristo non ha assunto un corpo senza uno scopo: «La parola non diventa semplicemente in qualche modo carne, per avere un nuovo status. Nell’incarnazione è implicita la dinamica del sacrificio» (p. 15). Il concepimento di Cristo è finalizzato alla nostra nuova nascita, affinché noi diventiamo figli di Dio (cfr. Gv 1, 12).
Questo spiega anche perché la morte di Gesù non è affatto il Suo fallimento, anzi, come dal costato di Adamo nacque Eva, così dal costato trafitto di Cristo – vero e definitivo agnello – ha luogo la nuova creazione; ciò è possibile solo perché questa morte – anticipata dalle parole dell’ultima cena – viene superata dalla risurrezione, dimostrando che quelle parole avevano l’autorità di Dio. L’eucaristia nasce da questa inseparabile triade di parola, morte e risurrezione, che la Chiesa chiama mysterium paschale, mistero della Pasqua. «Ma questo significa che l’eucaristia è molto più che una semplice cena; il suo prezzo è stato una morte e la maestà della morte è presente in essa. Quando ci accostiamo ad essa, deve riempirci il rispetto per questo mistero, il timore davanti al mistero della morte che si fa presente in mezzo a noi» (p. 41).
Nell’eucaristia noi offriamo a Dio ciò che Egli stesso ci dona – de tuis donis ac datis, dice il canone della messa romana – cioè il Suo stesso Figlio che si immola come vittima, poiché da soli saremmo incapaci di offrirGli qualcosa di nostro. Inoltre la morte e risurrezione di Cristo non è qualcosa di isolato, poiché «ogni celebrazione eucaristica ha la struttura dei communicantes, della comunione non solo con il Signore, ma anche con la creazione e con gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo» (p. 50): i nostri morti e i santi, coloro per i quali preghiamo e coloro cui rivolgiamo le nostre preghiere; le persone care e noi stessi; e infine il papa e il vescovo, poiché non si può scindere l’eucaristia dalla Chiesa, che è l’unica depositaria dell’ordine sacerdotale, l’unica che può conferire la potestà di parlare ed agire in persona Christi.
Partendo dagli ammonimenti di Paolo sulle divisioni tra i cristiani di Corinto (1 Cor 11,18-29), Ratzinger osserva che anche oggi la celebrazione eucaristica è oscurata da «due partiti che si contrappongono: uno, che possiamo chiamare dei progressisti, afferma che la Chiesa, con la sua celebrazione tradizionale della messa, si è molto allontanata dalla volontà originaria del Signore» (p. 56) il quale secondo loro avrebbe celebrato una semplice cena. Al contrario, l’altro partito rimproverava un’eccessiva semplificazione alla riforma liturgica post-conciliare, giungendo a dire «che la Messa era stata protestantizzata e che l’elemento propriamente cattolico era stato distrutto» (p. 57), finendo così – esattamente come i progressisti – nel cercare la “vera” messa al di fuori della Chiesa. Ai primi, Ratzinger obietta che Gesù non ha comandato “fate questo in memoria di me” riferendosi alla cena, da ripetere tale e quale come vuoto ricordo, bensì al dono di sé stesso, che Egli ha istituito durante quella cena e che viene esplicitato nella sua morte e risurrezione. La messa non può dunque ignorare il sacrificio, poiché la cena stessa rinvia e si compie in esso. Al sacrificio eucaristico – il sacrificio del vero agnello che aveva definitivamente sostituito gli agnelli del tempio – i cristiani continuavano ad affiancare la preghiera nella sinagoga, leggendo la Legge e i Profeti alla luce di Cristo, finchè fu possibile; quando la sinagoga si chiuse a questa interpretazione, allora per i cristiani «la liturgia della parola si unisce a quella eucaristica» (p. 63). Con ciò è pienamente definito l’essenziale del culto cristiano, su cui si innestano le ricchezze dei popoli che si sono susseguiti nel corso dei secoli. A questo punto i “tradizionalisti” obiettano che la riforma liturgica del 1970 ha distrutto proprio questo patrimonio secolare, cedendo all’errore progressista. Prescindendo dagli abusi che hanno costellato l’applicazione concreta del nuovo messale – gravi e dannosi, ma abusus non tollit usus – le critiche più serie riguardano il nuovo offertorio, la comunione sulla mano e l’abbandono totale del latino. Sul primo punto Ratzinger osserva che il carattere sacrificale della messa resta comunque intatto, poiché il sacrificio di Cristo si realizza nel canone, non nell’offertorio – che per molti secoli addirittura non fu accompagnato da alcuna preghiera. Per quanto riguarda la comunione sulla mano, diffusa fino al IX secolo con una riverenza attestata dai Padri della Chiesa, e la cui liceità di principio è indiscussa – «è impossibile che la Chiesa per novecento anni abbia celebrato in maniera indegna l’eucaristia» (p. 70) – segnaliamo però che passati trent’anni dalla stesura di questo testo, è in atto un ripensamento sull’opportunità pastorale di tale pratica nell’attuale contesto, ripensamento di cui dà prova lo stesso autore che nelle messe papali ormai da mesi amministra la santa comunione solo sulla lingua del comunicando inginocchiato. Infine circa la lingua liturgica, nelle equilibrate osservazioni di Ratzinger emerge il principio secondo cui «l’eucaristia ha a che fare anche con la ragionevolezza e la comprensibilità, ma nella sostanza, con molto più che la sola ragionevolezza e comprensibilità» (p. 71).
Con la presenza di Cristo nell’eucaristia si realizza al massimo grado la vicinanza di Dio con il suo popolo, che era un vanto per Israele. Se da questa presenza è scaturita persino una festa apposita, il Corpus Domini, per altri versi essa ha suscitato e suscita scandalo e incredulità nei credenti soprattutto ai nostri giorni. Ci si chiede innanzitutto se la Scrittura parli davvero di questa presenza reale, o non intenda piuttosto un simbolo. Tuttavia le parole di Gesù sono inequivocabili, anzi, di fronte al mormorio dei giudei (cfr. Gv 6, 48-59) Egli avrebbe potuto rassicurarli in tal senso. «Ma nel Vangelo non c’è nulla di tutto questo. Quando parla, Gesù rinuncia a simili addolcimenti, si limita ad affermare con forza sempre nuova che questo pane deve essere fisicamente, corporeamente mangiato» (p. 78). Ma come fa un corpo a comunicarsi contemporaneamente a molte persone? La nostra esperienza è infatti del corpo come limite, ma quello di Cristo non è una cosa, bensì un corpo risorto: «risurrezione significa, molto semplicemente, che il corpo cessa di esistere come limite e che ciò che in esso è comunione rimane» (p. 83). Cristo risorto diviene comunicabile a tutti e può incontrare personalmente ciascuno. Infine la transustanziazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo non contrasta con le conoscenze scientifiche, perché questa trasformazione – reale, oggettiva – trascende l’ambito puramente fisico: «la sostanza è trasformata, vale a dire che cambia il vero fondamento dell’essere. È di questo che si tratta e non di ciò che sta alla superficie, in cui rientra tutto quanto è misurabile e afferrabile» (p. 87). Grazie a questa trasformazione il Signore si rende continuamente presente in mezzo a noi, e allora non si può prescindere dall’adorarlo, anche al di fuori della messa. «Solo quando nelle chiese fu accesa la luce perpetua e accanto all’altare fu eretto il tabernacolo, poté fiorire il bocciolo del mistero e la pienezza del mistero eucaristico fu accolta dalla Chiesa» (p. 92).
Anche diverse omelie dell’autore ribadiscono la necessità dell’adorazione – appoggiandosi alle esortazioni di papa Giovanni Paolo II (1978-2005) – ingiustamente relegata nel dimenticatoio postconciliare; persino nello spazio fisico delle chiese «il luogo dell’adorazione si nasconde da qualche parte, ai margini, come un pezzo di passato» (p. 99), confondendo il giusto richiamo del Concilio alla centralità della celebrazione eucaristica, con una falsa contrapposizione tra celebrazione e adorazione. Invece, proprio grazie al tabernacolo, «è questo il bello delle chiese cattoliche, che in esse la liturgia è in qualche modo sempre celebrata» (p. 108).
Successivamente Ratzinger ritorna sulla festa del Corpus Domini, in cui confluiscono i tre elementi della messa, della processione e dell’adorazione. La statio dei cristiani nella chiesa dove, di volta in volta, il Papa si recava a celebrare, faceva sì che coloro che si radunavano fossero un popolo e non una massa anonima; seguiva la processione, in cui il Signore cammina insieme a noi, conferendo un senso e una direzione precisa al nostro vagare. Infine da questa presenza scaturisce l’inginocchiarsi davanti al Signore: se Egli si dà a noi, non possiamo fare a meno di adorarlo, poiché Colui che noi adoriamo si è Egli stesso chinato verso di noi.
Quindi si sofferma brevemente sulla preghiera per il papa che è parte integrante del canone della messa, poiché la liturgia non è circoscritta al singolo gruppo, bensì «atto di superamento di sé, di autoespropriazione, che arriva alla Chiesa di tutti i luoghi e di tutti i tempi: è questa l’essenza della dimensione cattolica. Si tratta proprio di questo quando andiamo al di là della nostra piccola realtà, stabilendo un legame con il papa ed entrando così nella Chiesa di tutti i popoli» (p. 128)
Merita di essere riportata, inoltre, la messa in guardia rispetto al diffuso abuso della Parola, che viene sganciata dalla Chiesa e talvolta usata contro di essa; in tal modo si dimentica che Cristo non ha scritto un libro, ma fondato una comunità, poiché «solo se la parola vive dentro una comunità viva essa è tutelata dal precipitare in un puro dato letterario, in un semplice elemento del passato» (p. 133) manipolabile a piacimento ai fini di una altrettanto diffusa «pastorale della propria abilità» (ibid.), che dovrebbe invece fare tesoro dell’ammonimento dell’esule russo Vladimir Maximov (1930-1995): «Abbiamo parlato troppo dell’uomo, permetteteci finalmente di parlare di Dio» (cit. a p. 134).
La marginalizzazione della presenza di Dio, porta con sé la «la paralisi della speranza nell’eternità» (p. 141), persino nelle omelie che raramente parlano di paradiso, inferno e purgatorio. Ritornano invece alcune sbiadite concezioni pagane della vita dopo la morte, tutte accomunate dall’assenza del legame con un Dio persona. «Non è certo un caso che oggi, con lo sbiadirsi della fede nel Dio vivente, tutte queste immagini arcaiche facciano ritorno» (p. 143). In realtà Cristo promette molto di più che una sopravvivenza puramente cronologica: «il regno di Dio è molto più vicino dei frutti utopici di Tantalo, perché non è un futuro cronologico, non è un “poi” cronologico, ma descrive ciò che è totalmente altro, in ogni tempo, che proprio per questo può entrare nel tempo per accoglierlo in sé e renderlo presente puro» (p. 153), cioè l’eterno appagamento della comunione con Dio, che inizia già in questa vita, poiché «Dio non è più il Dio lontano, indeterminato, a cui non arriva alcun ponte, ma è il Dio vicino» (p. 154).
Stefano Chiappalone