(OR) Il modernizzatore antimodernista: S. Pio X

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La rivoluzione del papa modernizzatore

di Gianpaolo Romanato

Carlo Fantappiè, "Chiesa romana e modernità giuridica. Vol. I – L’edificazione del sistema canonistico (1563-1903). Vol. II – Il Codex Iuris Canonici (1917)", Milano, Giuffré, 2008, pp. XLVI-1282

Lo studio che Carlo Fantappiè, professore di diritto canonico all’università di Urbino, ha appena pubblicato con l’editore Giuffrè — "Chiesa romana e modernità giuridica" — rappresenta un evento scientifico che non interessa soltanto gli studiosi del diritto ma anche gli storici della Chiesa e del cristianesimo.

Nei due volumi di quest’opera davvero imponente, di quasi milletrecento pagine, l’autore dimostra che il Codice di diritto canonico voluto da Pio X e promulgato da Benedetto XV nel 1917 fu ben più che un lavoro tecnico di risistemazione e semplificazione di norme giuridiche.

Fu in realtà una profonda riflessione sul passato, sul presente e sul futuro della Chiesa di Roma, finalizzata a un disegno di riforma della Chiesa all’interno del quale il diritto era il mezzo, non il fine.

Lo studio inizia dal Concilio di Trento, ma si sofferma soprattutto sugli eventi traumatici seguiti alla rivoluzione francese e all’impero napoleonico.

È nel corso dell’Ottocento, infatti, che prese corpo la necessità della riforma. La nascita degli Stati nazionali e l’irrompere del sistema di governo liberale modificarono alla radice il rapporto giuridico e istituzionale tra la Chiesa e lo Stato.

La Santa Sede non dovette più misurarsi con i sovrani assoluti settecenteschi, che sottomettevano l’organizzazione ecclesiastica ma al tempo stesso la favorivano e ne riconoscevano il carattere pubblico. Si trovò di fronte i moderni stati nazionali, retti da ordinamenti rappresentativi, che miravano a ridurre la sfera religiosa all’ambito privato, a rinchiudere la Chiesa dentro il diritto comune.

Fu una rivoluzione che costrinse le istituzioni ecclesiastiche ad arroccarsi attorno al papato, l’unico punto di riferimento sopravvissuto al naufragio dei vecchi poteri. Non più contrastato da poli alternativi, né interni né esterni, il pontefice romano si riappropriò della piena sovranità tanto nell’ambito dottrinale quanto in quello disciplinare.

Ne derivò un monopolio di giurisdizione, come lo definisce Fantappiè, inedito nella storia della Chiesa latina. Contemporaneamente i seminari e le università romane si sostituirono alle istituzioni scolastiche, particolarmente quelle francesi e austro-tedesche, che erano sparite nel gorgo rivoluzionario.

La romanizzazione del cattolicesimo non poteva essere più rapida e più completa. Nel giro di pochi decenni, quella che ancora nella seconda metà del Settecento era, di fatto, una federazione di Chiese nazionali, si trasformò in una compatta organizzazione internazionale, disciplinarmente e teologicamente sottoposta al papa e agli organismi curiali.

Roma divenne contemporaneamente fonte del potere, centro di elaborazione del pensiero teologico-canonistico, luogo di formazione del personale dirigente.

Fantappiè ricostruisce questo processo storico con straordinaria ampiezza di riferimenti ma con l’occhio sempre rivolto alle conseguenze che esso ebbe sull’autocomprensione giuridica della Chiesa. Autocomprensione che nel 1870 dovette fare i conti con un altro decisivo tornante: la proclamazione dell’infallibilità papale, avvenuta durante il Concilio Vaticano I, che portò a conclusione il processo di centralizzazione prima delineato; e la fine dello Stato pontificio, cioè del potere temporale.

La concomitanza dei due eventi — il papa diventa infallibile nel momento in cui cessa di essere il papa-re — è ben più che una coincidenza casuale.

In questa situazione la richiesta di riforma del diritto canonico si fece sempre più pressante. Era urgente rimettere ordine in una normativa vecchia di secoli, adeguandola alle trasformazioni avvenute, ed era soprattutto indispensabile ripensare la natura della Chiesa nella comunità internazionale. Ma con un problema previo: si doveva procedere a una ricompilazione per temi dello sterminato materiale canonistico accumulatosi dal medioevo, semplicemente sfrondandolo di quanto era caduto in desuetudine, o non conveniva rifondere e ripensare il tutto in un codice di leggi organico e sintetico, seguendo la strada tracciata dalle riforme napoleoniche, imitate da tutti gli Stati moderni?

La preferenza andava alla seconda opzione, non senza però resistenze forti, soprattutto a Roma, tutt’altro che persuasa di dover andare a rimorchio, almeno metodologicamente, della cultura liberale. In ogni caso l’impresa parve talmente immane che né Pio IX né Leone XIII osarono iniziarla.

Il compito cadde sulle spalle di Pio X, eletto papa nel 1903 dopo che il veto del governo di Vienna aveva posto fuori gioco il cardinale Rampolla. Toccò, paradossalmente, a un pontefice nato austriaco, totalmente estraneo alla curia vaticana, che non aveva studiato a Roma ma in un seminario di provincia e doveva la nomina a papa all’istituto più antiquato e anacronistico del vecchio diritto canonico, lo "ius exclusivae", il diritto di veto dei monarchi cattolici.

Papa Giuseppe Sarto ebbe il merito di rompere gli indugi, di non lasciarsi spaventare dalle infinite difficoltà, di scegliere la persona giusta cui affidare la direzione dell’opera, che avrebbe coinvolto l’intero universo cattolico. Questi fu Pietro Gasparri, allora poco più che cinquantenne, segretario agli affari ecclesiastici straordinari, già professore di diritto canonico a Parigi e diplomatico in America Latina. Un politico e un uomo di governo, ma soprattutto un provetto giurista, di illimitata fedeltà alla sede apostolica.

Fantappiè dedica a Gasparri duecento pagine, quasi un libro nel libro, senza dimenticare altre figure che ebbero ruoli decisivi, in particolare il cardinale Casimiro Gènnari, figura finora trascurata dalla storiografia, dal 1908 prefetto della Congregazione del Concilio e già fondatore del "Monitore Ecclesiastico", la rivista che prima della nascita degli "Acta Apostolicae Sedis" fu l’organo semiufficiale della Santa Sede.

L’"opus magnum" della codificazione, come fu definito, andò in porto in soli tredici anni – la bolla che diede l’avvio all’opera, "Arduum sane munus", è del 1904, mentre la promulgazione del Codice avvenne nel 1917 – grazie al pungolo continuo di Pio X, che seguì quotidianamente i lavori, intervenendo in ogni loro fase, fino alla morte, avvenuta nell’estate del 1914. Si deve a lui anche l’imposizione della strada da seguire — la codificazione piuttosto che la compilazione — con una perentoria lettera autografa alla commissione cardinalizia, orientata invece verso l’altra soluzione.

* * *

Quali sono le novità di questo studio? Tralasciando il terreno strettamente giuridico, se ne individuano due.

Fantappiè pone il rinnovamento del diritto canonico al centro della Chiesa del tempo, dimostrando che il Codice fu l’asse di equilibrio attorno al quale il cattolicesimo ritrovò la propria identità.

La valutazione del pontificato di Pio X – apparso spesso, finora, un momento di stasi o addirittura di regresso a causa della condanna del modernismo – ne esce rovesciata. Non la volontà di condanna ma l’istanza riformatrice e modernizzatrice mosse il suo decennio, un’istanza talmente energica che il papa preferì gestirla attraverso la propria segreteria privata, la ben nota "segreteriola", piuttosto che con gli organismi curiali.

Le pagine dense e meditate dell’autore hanno il merito di ricordarci che la storia è sempre complessa, che gli anni di inizio Novecento – sottotono sul piano teologico ma straordinariamente creativi su quello giuridico – posero le premesse per la modernizzazione della Chiesa sul piano associativo, sociale, politico, internazionale.

Dalla soppressione del diritto di veto, alla riforma del conclave, dalla riorganizzazione dei seminari al ripensamento della struttura parrocchiale, diocesana e missionaria, dal rinnovamento catechetico al rifacimento della curia e di tutti gli organi centrali di governo, il pontificato di Sarto rappresentò un ciclone riformatore quale raramente era apparso nell’intera storia del papato. Un ciclone che ebbe l’effetto di universalizzare il diritto della Chiesa, di rafforzarne a tutti i livelli l’uniformità disciplinare e operativa proprio mentre era in arrivo la stagione dei totalitarismi e si profilava all’orizzonte la globalizzazione. Senza il Codice, che avviò il dibattito sullo statuto internazionale della Santa Sede e la ripropose di fronte allo Stato come interlocutore alla pari, non sarebbero stati possibili i concordati degli anni Venti e Trenta.

Certo, come in tutte le grandi riforme, molto si acquisì e qualcosa si perdette. La centralizzazione romana, la verticalizzazione dell’autorità, la formalizzazione della vita di fede mortificarono il dinamismo dei carismi. Ma nel medesimo tempo confermarono con la massima energia che la Chiesa è istituzione pubblica e non privata, che essa si pone di fronte allo Stato come entità autonoma e pienamente sovrana.

Il basso profilo politico di tutto il pontificato di Giuseppe Sarto – con la messa in sordina della "questione romana", delle rivendicazioni territoriali e del "non expedit", cioè del divieto ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche – fanno parte di questa strategia, volta a dar forza alla Chiesa "ad intra" più che "ad extra", a restituirle ruolo e prestigio non sul piano dell’immediatezza politica ma su quello ben più solido e duraturo del diritto, della fondazione giuridica.

La seconda novità riguarda, più in generale, la periodizzazione della riforma nella Chiesa novecentesca.

Il momento di trasformazione e di stacco dal passato viene generalmente individuato nel Concilio Vaticano II, con accentuazioni più o meno decise a seconda delle diverse scuole storiografiche.

Senza nulla togliere al valore dell’evento conciliare, le argomentazioni di quest’opera dimostrano che una svolta non meno importante avvenne all’inizio del Novecento con la codificazione pio-benedettina del diritto canonico. Evento che fu molto più del solo fatto giuridico. Esso tagliò i legami con l’"ancien régime", rinnovò e centralizzò a tutti i livelli le forme del governo ecclesiastico, ricreò l’autoconsapevolezza e la certezza della Chiesa come istituzione libera, capace di presentarsi nei confronti del mondo quasi nelle forme di un’inedita "statualità delle anime".

Osservatore Romano 4-5-2008