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  VITA DI SANTA CATERINA DA BOLOGNA

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PRESENTAZIONE: Il mondo d'oggi fa il processo ai contemplativi.

Se comprende e rispetta, e qualche volta ammira – bontà sua! – quei religiosi e quelle suore che si dedicano a un'attività assistenziale o educativa; se spinge il suo spirito di tolleranza fino a giustificare coloro che vanno in missione in terre barbare per conquistare anime a Cristo ed elementi utili al progresso del mondo; non ammette lo scandalo di tanti uomini e donne che si allontanano nel fior della vita dalla società, sfuggono al consorzio umano e si appartano dietro gli alti muri di un chiostro e le grate di una chiesa: unità improduttive, peso morto della civiltà contemporanea, basata sull'attivismo e sull'efficienza, evasori del compito comune di costruire e sostenere la famiglia umana.

Tali evasioni non esistono, come dimostreremo subito; in ogni modo è divertente constatare come coloro che ricorrono a tutti i mezzi, leciti ed illeciti, a tutti i sostituti, a tutti i sotterfugi per sfuggire all'angustia dell'esistenza, quando si trovano in presenza di queste pretese scappatoie spirituali, di queste immaginarie evasioni verticali, si indignano e lanciano fulmini.

Purtroppo questo concetto materialista ed utilitario dell'apostolato è penetrato perfino in molte zone di fedeli credenti e praticanti; e fa pena constatare quanto sia grande il numero dei cattolici che considerano monaci e monache di clausura come pezzi da museo, e la loro funzione un'oziosità da eliminare in questi tempi di dinamismo e di progresso. È la tentazione dell'efficacia, a cui molti cristiani han ceduto nel corso dei secoli, e che oggi si ripresenta sotto forme nuove.

Sarà opportuno, quindi, prima di addentrarci nella narrazione della vita di Santa Caterina, che fu una grande contemplativa, spazzare il terreno da una serie di prevenzioni che questa forma di vita ascetica suscita fra i nostri contemporanei. In fondo, come si vedrà, queste incomprensioni e prevenzioni sono originate da una diffusa ignoranza teologica dei principi sui quali si fonda; ed anche – perché no? ­ dalla scarsezza d'informazioni sul genere di vita degli Ordini contemplativi, dovuti alla spessa cortina di silenzio che circonda e protegge i loro chiostri, logicamente alieni da ogni forma di pubblicità.

Non si può dire, tuttavia, che dietro quei muri la vita sia facile. Quella vita silenziosa è una vita di preghiera e di lavoro. Secondo le precise indicazioni dell'Orario, la giornata si divide in parti rigorosamente ordinate, in cui le orazioni e le opere si alternano e talvolta si mescolano: si prega e si medita perfino quando si lavora e si mangia.

Giornate lunghe, perché s'iniziano presto: a mezzanotte, quando tutti dormono o si accingono ad andare a riposare, i religiosi e le monache, svegliati dalla campana, vanno in chiesa, in file silenziose, dietro l'Abate o l'Abbadessa, e pregano fino all'una. Alle cinque e mezza o alle sei, secondo le stagioni, comincia la vera e propria giornata, di cui, le Ore Canoniche scandiscono il ritmo: Laudi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri e Compieta. Nessun tempo vuoto, eccetto brevi pause di svago; mai un minuto di ozio in questa minuziosa disposizione.

Alle belle liturgie succedono le ore di lavoro manuale o intellettuale, santificate dalla «lectio divina», questa lettura di testi spirituali, attenta, meditata, assaporata, che predispone l'anima alla mistica unione. Così fino al cadere della sera. Allorché nella chiesa l'oscurità si diffonde, rotta appena dalla luce tremolante della lampada accesa innanzi al Tabernacolo, delle forme umane in bigio e in bianco vengono a prendere posto negli stalli del Coro, e i salmi di Compieta si sgranano l'uno dopo l'altro. Segue l'esame generale e la lettura di un breve punto che formerà oggetto della meditazione dell'indomani.

E questo senza interruzione, un giorno dopo l'altro, fino a quello in cui la terra materna assorbirà questi corpi come assorbe i granelli di una pianta, giacché questi corpi che si disfanno – quale vero cristiano l'ignora? – sono semi di resurrezione.

Questo è il mistero che si cela dietro gli alti muri dei penitenziari di Dio, questa l'esistenza che menano questi reclusi e queste recluse, la cui vita e morte sembrano voler confermare queste parole che San Paolo dirigeva ai suoi fedeli di Corinto: «Ci prendono per dei moribondi, mentre siamo pieni di vita; per degli afflitti, mentre la gioia ci abita; per dei poveri privi di tutto, mentre possediamo tutto».

È evidente che per l'uomo del secolo XX, abituato alla vita facile e alle comodità, l'esistenza della clausura è priva di senso; e lo sarebbe effettivamente se tutte le rinuncie e i sacrifici, liberamente accettati, non fossero ordinati a un fine trascendente; se non fossero, più che delle abitudini, più o meno bene sopportate, una partecipazione attiva all'oblazione di Cristo, alle sue sofferenze, alla sua morte sulla Croce.
Analizziamo un poco la follia dolce e santa dei contemplativi.

Una vocazione naturale inclina certe creature verso le piaghe del nostro triste corpo. Ma molte altre si separano dai vivi per essere unicamente di un uomo chiamato Gesù che da duemila anni è uscito dal mondo. Egli è sempre là, per loro, più presente di qualunque creatura visibile, ed esse si nutrono di Lui, letteralmente. Questi estremi, si dirà, sono morbosi: follie fra altre follie … Eppure, anche al di fuori delle persone consacrate, in tutte le classi, e nella meno cristiana di tutte, la classe operaia, fra giovinetti nell'età del desiderio, un piccolo numero sacrifica ogni altro amore alle cose, tirannicamente presenti per ciascuno di essi.

In termine tecnico questa esigenza – o, se preferite, questa follia – si chiama «vocazione». Vocazione vuol dire «chiamata», l'invito di una «voce» (dal latino: voc- ari). Tutti riceviamo delle chiamate, benché non tutti per lo stesso genere di vita. Le vocazioni non sono eguali per tutti, non a tutti sono assegnati gli stessi compiti, né tutti sono portati a un certo genere di vita, fatto di rinuncia, di privazioni, di sacrifici.

Ci sono anche piaceri legittimi, soddisfazioni sacrosante, come il compimento del proprio dovere nella sfera che Dio ci ha assegnata, la procreazione e l'educazione dei figli, il lavoro che ridonda in beneficio della comunità. Anche questo è un modo di collaborare con Dio, una forma di apostolato civile e cristiano; e perciò ci procura, insieme a molti grattacapi e preoccupazioni, anche molte soddisfazioni non mescolate a nessun disgusto o amarezza. Quelli che servono Dio nella loro sfera sociale, e vivono esclusivamente per la loro famiglia, senza negarsi però di fare un po' di bene anche agli altri, nei limiti del tempo e dei mezzi disponibili, sono esenti da certe forme patologiche di taedium vitae, non soffrono complessi e non sentono il bisogno di cercare evasioni immorali e demoralizzanti. Sono sereni anche nelle avversità e ringraziano il Signore non solo quando navigano in acque tranquille ma anche quando sono sballottati dalle tempeste.

Però dobbiamo cercare di comprendere coloro che hanno ricevuto una vocazione diversa dalla nostra, anche se ci sembri assurda. La natura produce piante che forniscono legumi e alberi che ci procurano frutti, gli uni e gli altri necessari al nostro sostentamento. Però produce anche fiori che profumano le nostre case, abbelliscono giardini e le piazze, adornano gli altari. Ora, se ammiriamo l'utile e il bello che Dio ha creato nell'ordine della natura, perché ci rifiuteremmo di ammetterlo nell'ordine dello spirito?

La vocazione contemplativa rappresenta dunque il cammino più arduo versol'imitazione di Cristo, e perciò appunto non è fatta per tutti: è solamente per quelli che vogliono essere perfetti, milizie scelte del Signore, gli alpinisti del misticismo; quelli che si arrampicano per gli erti e scoscesi sentieri della santità, quelli che scalano le cime, armati di corde e di arpioni.


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