Mons. Negri: Lettura della «Spe salvi» e implicazioni educative

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Lettura della «Spe salvi» e implicazioni educative
S. Ecc. Mons. Luigi Negri

 

Ufficio IRC diocesi San Marino Montefeltro

Aggiornamento insegnanti, 18 febbraio 2008-02-29

La finalità di questo intervento non è quella di individuare i molteplici fini, teorici, intellettuali, etici, ascetici, che si condensano in questa enciclica, ma di individuare le linee fondamentali di preoccupazione che il Papa ha avuto presenti nel riproporre la fede, perché in fondo la Spe Salvi ripropone la integralità del mistero della fede esattamente come la Deus Caritas. In sostanza si può dire che la fede è carità, la fede è speranza, togliendo qualsiasi immagine di mediazione tra la fede e queste che sono le dimensioni costitutive di Dio e quindi dell’esperienza di Dio che si incarna e ci coinvolge nella sua vita, ci fa partecipare della sua vita. Il genere letterario di questa enciclica è un genere letterario nuovo, è un grande racconto.
Qualche anno fa, nell’ambito della pubblicistica teologica, è venuto di moda dire che la teologia è una narrazione della fede. Questa espressione introduceva l’idea che la fede non fosse una serie di contenuti precisi legati da una logica molto precisa, ma l’idea che la fede fosse una realtà non riconducibile a un pensiero logico, fosse una realtà molto più informale. Il Papa ci fa capire che si può raccontare una fede pensata rigorosamente.
Il genere letterario del racconto non riduce l’importanza o l’assoluta specificità del contenuto, è una modalità più facilmente accoglibile da parte dell’interlocutore, si tratta di una proposizione nuova, per modo di dire, perché come risulta da tanti riferimenti questo era il genere letterario delle grandi catechesi patristiche dei primi secoli. Da san Giovanni Crisostomo a sant’Ambrogio le catechesi erano proprio la narrazione dell’evento, così come l’evento si poneva dentro la vita della comunità, quindi innanzitutto nella liturgia. Il raccontare la fede, prendendo spunto dalla liturgia, rappresentava un grande strumento educativo del popolo.
Le pagine dell’enciclica riferite a santa Giuseppina Bakhita sono un modo estremamente bello di raccontare un grande episodio di santità legato a una straordinaria povertà di vita. Questa donna era stata schiava fino a quando non è venuta in Italia. Il Papa evoca tutta la sofferenza, l’umiliazione, l’ingiustizia di questi lunghi anni passati, fino a ricordare il numero delle cicatrici che le violenze dei suoi padroni avevano lasciato sul suo corpo. Poi è evocata la scoperta di Dio secondo la categoria mentale e affettiva che una schiava poteva avere: l’idea di Dio padre, con cui venne a contatto nell’ambito della vita cattolica italiana della fine del secolo diciannovesimo, l’idea di Dio come un paròn, che è sopra tutti gli altri padroni. Il Papa scrive il termine secondo l’uso del dialetto veneto. Dio ha rappresentato nei suoi confronti una preferenza assoluta: è venuto per lei, è morto per lei ed è risorto per lei. Si accende nell’animo di questa schiava l’idea di essere stata preferita, amata e scelta in maniera singolare. Allora maturano la sua conversione nella Chiesa e il suo ingresso nell’ordine delle Canossiane. Comincia una vita umilissima di custode del convento e insieme di propagatrice dell’impegno missionario nell’ambito di tante diocesi italiane. Questa narrazione breve e sintetica di questa santa è una modalità di riproporre l’avvenimento della fede come la possibilità di un’antropologia vera e definitiva. Lì è descritta, è narrata un’esperienza che ci colpisce, ci commuove, è più immediatamente corrispondente alla nostra sensibilità, ma anche a quella dei bambini e dei ragazzi. Il cristianesimo attraverso la testimonianza dei santi è più facilmente usabile in senso educativo che non il discorso teologico.
Questo genere teologico si arricchisce anche, data la sensibilità artistica di Benedetto XVI, di riferimenti ad altre forme espressive. Ci sono pagine in cui il Papa per indicare la radicale differenza fra la speranza cristiana e qualsiasi altra forma di speranza umana, o addirittura l’impossibilità di formulare una speranza umana, descrive i sarcofagi paleocristiani. Il sarcofago è nell’esperienza comune la fine di ogni speranza, perché ingoia la vita e quindi le speranze dell’uomo che viene sepolto. Il Papa dice che i primi cristiani hanno messo sui sarcofagi l’immagine di Cristo a ricordare a sé e a tutto il mondo che solo per la presenza di Cristo la tomba è un passaggio. Per guidare questo passaggio il Signore Gesù è rappresentato secondo due iconografie. La prima è il filosofo: Cristo con il mantello e il bastone dei filosofi. Il filosofo nella mentalità greco-romana era colui che indicava la via. Sul sarcofago il Signore viene colto nella sua capacità di essere il filosofo che guida dalla vita terrena alla vita vera. L’altra è l’immagine del pastore. La ricchezza anche di linguaggio, di evocazione, di immagini, di riferimenti è bellissima e toglie a questo testo qualsiasi pesantezza. Credo che si potrebbe anche leggerne dei brani ai ragazzi perché rispetto ad altre formulazioni dottrinali è più accessibile.
Qual è il contenuto della Spe Salvi?
L’intenzione è ripresentare la fede cristiana nel punto nevralgico della vita dell’uomo: l’uomo non può vivere senza speranza, cioè senza un motivo che apra il presente al futuro in modo positivo. In modo molto concreto il Papa passa in rassegna le piccole speranze a cui si affida qualsiasi uomo e che dimostrano nello scorrere della vita la loro sproporzione: la speranza di una sistemazione nella vita di carattere affettivo e economico, la capacità d’incidenza nella vita sociale attraverso un lavoro che realizzi al massimo l’esigenza di porre dei gesti significativi per il futuro. L’esperienza umana esige sempre una speranza, che è necessaria nella coscienza e nel cuore dell’uomo, ma strutturalmente esige di essere superata. La speranza, che l’uomo si pone sotto l’urto di esigenze giuste, è inevitabile, ma non sempre adeguata. L’esigenza di corrispondenza affettiva è giusta, ma su questa difficilmente si fonda il presente, meno che mai si progetta tranquillamente il futuro, perché l’aspetto affettivo è uno degli aspetti più precari, più mobili, al punto che anche i greci avevano come grande problema etico il dominio della ragione sulle passioni. C’è una prima linea di approfondimento che ha anche un valore metodologico ed educativo: occorre educare alla speranza vera. Non bisogna accettare la formulazione ridotta, cioè consumistica. La speranza contemporanea non è una speranza ideologica, ma di tipo materialistico-consumistico. La speranza della mentalità comune, che viene interiorizzata anche dai bambini e dai ragazzi quasi senza accorgersene, è una speranza di benessere materiale. Anche i bambini sono abituati ben presto a consumare e a sentire di valere perché hanno delle grandi possibilità di consumo. Questo è un altro filone interessante dal punto di vista educativo. Non si può vivere senza speranza, ma non ogni speranza ha lo stesso valore.
Questo dovrebbe sollecitare la nostra capacità critica di aiutare i ragazzi a rendersi conto di ciò che nella vita vale e di ciò che non vale.
Il passaggio più corposo, a cui è dedicata la parte sostanziale dell’enciclica, è la descrizione dell’assoluta originalità della speranza cristiana.
La speranza cristiana ha una sua specifica identificazione: è il frutto nell’uomo dell’incontro con Gesù Cristo, è nell’uomo la prima conseguenza della salvezza. La salvezza è la possibilità di fruire di una speranza vera che illumina il presente e si articola con il futuro. La speranza è un dono che ci viene affidato, su cui vale la pena di confidare totalmente, è la conseguenza più impressionante sul piano antropologico della novità cristiana. Cristo ci ha salvato dandoci questa speranza. La disanima dei brani del Nuovo Testamento, soprattutto di Paolo e di Giovanni, tende a portare all’idea che il cristiano differisce dagli altri uomini perché ha a disposizione una speranza certa, affidata e affidabile, cioè una speranza che Dio ti affida e che tu devi affidare agli altri uomini. Si tratta di una lettura molto profonda e radicale anche sul piano esegetico, ma anche semplice, senza particolari difficoltà. La speranza appare come il volto umano della salvezza. Mentre il volto radicale della salvezza è l’ingresso dell’uomo credente nella resurrezione del Signore, la speranza è un camminare nel tempo affidati alla certezza della resurrezione, è l’incidenza della resurrezione nel concreto e nel quotidiano. La vita umana nel suo svolgersi nel tempo parte dalla certezza che tutto si è già compiuto in Gesù Cristo, ma tutto non si è ancora compiuto in noi. Quindi la vita diventa una partecipazione reale alla certezza della resurrezione. La certezza della resurrezione nel tempo della vita e della storia è la speranza.
La storia è la storia di tutti gli uomini che camminano verso il compimento della loro esperienza umana. La speranza è la resurrezione riconosciuta, creduta e annunziata che diventa nel tempo il criterio con cui l’uomo pensa se stesso, con cui affronta i problemi della sua esistenza, innanzitutto i problemi con gli altri uomini.
La speranza cristiana è lo specifico della fede per eccellenza in ogni mondo e quindi nel nostro mondo. Lo specifico del cristiano e quindi della comunità cristiana è la riproposizione della speranza cristiana. Data la sua grande cultura patristica, il Papa passa spesso dalla persona alla comunità e dalla comunità alla persona, perché il popolo cristiano è un popolo di persone e tutto quello che è detto della comunità va detto della persona e viceversa. Lo specifico cristiano nel mondo di oggi è la riproposizione della speranza cristiana secondo la sua precisa identità: quel superamento infinito, ma reale, di ogni speranza umana.
Un ulteriore punto è la grande utilizzazione che il Papa fa di questa idea di speranza cristiana come ermeneutica della modernità. La speranza cristiana diventa criterio di lettura, di interpretazione, di valutazione, di valorizzazione della modernità, riletta dal Papa come il luogo culturale in cui si è preteso di costruire una speranza totalmente umana, che nasce dalla capacità conoscitiva e manipolativa dell’uomo. La speranza moderna non è un dono, ma un prodotto, non è qualcosa che ci coinvolge dall’esterno, come il mistero di Dio che si fa presente, è, invece, la speranza di uomini che credono di poter fare il divino: la verità, il bene, la giustizia. Il Papa fa una rilettura molto sapiente anche se molto elementare della modernità.
Questa speranza totalmente umana, già incubata nell’esperienza del rinascimento italiano e del razionalismo europeo, fiorisce poi nelle grande ideologie moderne e contemporanee assumendo due volti. Il primo è il volto della speranza prodotta dalla politica. Qui c’è una rilettura prudente, ma accurata, del marxismo e del rivoluzionarismo marxista, che ha portato nel mondo questo contenuto: l’unica speranza possibile è quella della rivoluzione, che non deve essere sottoposta a nessuna limitazione, perché è l’espressione totale della libertà dell’uomo. La rivoluzione è l’unica speranza, perché cambiando la situazione ingiusta della società, che è alienante, renderà libero l’uomo e lo doterà di una speranza storica definitiva. Il secondo volto è quello che abbiamo di fronte tutti i giorni in modo imponentemente pervasivo: la speranza prodotta dalla scienza. L’unica grande speranza dell’uomo e della società è la scienza, che domina la realtà attraverso una conoscenza assoluta di carattere scientifico. Non c’è niente di meno scientifico del pensare che la scienza sia una conoscenza assoluta. Per realizzare la speranza scientifica non si devono imporre limiti alla scienza. Tentare di limitare la scienza nella sua capacità di conoscere e di manipolare vuol dire contrastare il progresso. Le due grandi speranze umane che il Papa evoca, anche con una ricchezza di letture e di autori, sono queste: la speranza politica e la speranza scientifica. Entrambe, sia quella sociologica sia quella tecnoscientifica, si fondono nell’idea di una speranza nel progresso: attraverso la politica e attraverso la scienza avverrà il progresso come qualcosa di assolutamente e rigorosamente meccanico, fatta nascere la rivoluzione, essa andrà inesorabilmente verso il suo compimento, impostato il discorso dell’uomo e dei suoi rapporti come un problema scientifico, la scienza arriverà rigorosamente a creare l’uomo nuovo. Come per la rivoluzione sono occorsi milioni di martiri perché l’idea di giustizia trionfasse, così per la scienza occorreranno milioni di persone utilizzate come cavie, cominciando dai feti, per creare l’uomo nuovo. In ogni caso la scienza e la politica sono le grandi speranze a cui l’uomo moderno ha affidato il suo compito sulla terra.
Il Papa fa anche un bilancio mostrando l’inconsistenza alla fine di queste speranze umane, che non si sono rivelate tali, non hanno creato una novità né nell’uomo, né nella storia, anzi nell’uomo e nella storia hanno creato il negativo, la distruzione. Si tratta di una rilettura degli esiti della modernità particolarmente realistica e critica, perché la modernità nel suo complesso non ha creato un mondo nuovo, ha distrutto quello vecchio perché era ingiusto e rozzo, ma non ha fatto sorgere né il mondo giusto grazie alla politica, né quello scientifico grazie alla scienza. I grandi sistemi totalitari e le grandi ideologie, quali che fossero le idee forza che avevano, hanno prodotto ciò che il Papa chiama disastro antropologico. La scienza ci porta ogni giorno a percepire la possibilità che ci sia un disordine totale nella stessa procedura della natura, perché, se si fa nascere un embrione dalla convergente collaborazione di tre partners oppure se si realizzano ibridi, che in Inghilterra vanno di moda, cioè realtà viventi in cui l’aspetto animale e umano coesistono in modo artificioso e terribile, si opera qualcosa di mostruoso in ordine alla natura così come Dio l’ha creata.. Il Papa, in un punto fondamentale di questa rilettura critica della modernità, non fa il bilancio citando il Magistero o partendo da qualche grande autore cattolico, filosofo o teologo, certo cita padre De Lubac, ma non fa una critica da cattolico, fa una critica dall’interno con una lunga citazione di Emanuele Kant, il punto di maturazione della modernità filosofica.
Il Papa cita un brano da un’opera pressoché sconosciuta di Kant Sulla fine delle cose, in cui l’autore, dopo aver riformulato questa fiducia immediata della modernità verso la ragione scientifica nelle grandi articolazioni scientifiche e sociologiche, afferma che non si è sicuri che la fine delle cose sia una fine positiva. Quindi in anticipo Kant apre la possibilità, che poi si è realizzata, che invece di un esito positivo nascesse un esito negativo. Il filosofo dice che se noi perdiamo la fiducia nel progresso, perché c’è un fallimento che si realizza in un punto o alla fine, vuol dire che nel tessuto della storia e delle sue leggi si è inserito l’anticristo. Kant è in qualche modo il distruttore della dignità culturale della fede, per la sua logica ha tolto qualsiasi valore conoscitivo alla fede, che fa vivere un rapporto affettivo e sentimentale con il mistero. Il protestantesimo e Kant formulano la fede come qualcosa che si sente. Quello che dice la maggior parte degli uomini, anche quelli che vanno in Chiesa, è che la fede si sente. Kant, che ha autorizzato questa riduzione di tipo psicologistico e soggettivistico della fede, afferma che dal punto di vista della conoscenza ci sono in gioco fattori tali che tutte le nostre speranze scientifiche e politiche possono non realizzarsi, e nella misura in cui si realizzano vuol dire che ci sono in gioco forze che non sono totalmente comprensibili e totalmente contenibili. Questa immagine dell’anticristo sotto la penna di un autore razionalista dice che il mistero è più forte di tutte le critiche negative, perché l’ipotesi che spiega il fallimento della modernità è che il punto di partenza non fosse totalmente vero. Il punto di partenza è che l’uomo può produrre da lui il bene, se non lo fa vuol dire che c’è nella vita e nella storia qualcosa che impedisce questo.
Chi impedisce l’uomo di realizzare pienamente il suo ideale di vita è il demonio, cioè l’anticristo. È una lettura di straordinaria importanza per capire come un cristiano possa leggere, senza complessi né di inferiorità, né di falsa superiorità, la modernità, perché anche noi dipendiamo dalla modernità e dall’ideologia dell’ottimismo scientifico, per cui la scienza risolverà tutti i problemi. Il fatto che due secoli fa, un uomo grandemente responsabile di questo abbia detto che il progresso non è proprio così scontato, mi sembra una lezione straordinaria.
C’è un altro punto interessante. Il Papa dice che la modernità ha condizionato la stessa coscienza che la fede ha avuto di sé, nonostante tutto questo fallimento presente già nell’irrealismo del punto di partenza, cioè il fatto che l’uomo sia perfetto in partenza o lo diventi con i suoi sforzi. Questo è un passaggio utilizzabile pedagogicamente, perché i vostri ragazzi sono molto più inclini di voi a vivere questa riduzione della fede. In questo mondo di speranze solo umane la fede è ridotta ad essere una speranza individualista. Tutti si danno da fare per costruire il mondo nuovo o patiscono il fatto che non si riesce a costruire il mondo nuovo, perché nella coscienza dell’Occidente hanno trovato un loro accesso le nefandezze del nazismo, alla fine della seconda guerra mondiale, le nefandezze del marx-leninismo, dopo la caduta dei muri. Prima della caduta dei muri ciò che era successo di là era conosciuto da piccoli gruppi, anche perché tutta la cultura occidentale era subalterna al marxismo. In questo contesto la fede diventa una speranza individuale: nel mondo si sta male, ma noi abbiamo la vita eterna, abbiamo, direbbe Silone, “un’uscita di sicurezza”.
È una speranza dell’individuo in un futuro che non ha alcun nesso con il presente.
Questa riduzione della speranza a speranza individualistica è di marca protestante. Mentre il mondo non può produrre nessuna speranza positiva, il cristiano sa che oltre questa vita, nella quale non si distingue in nulla dagli altri, lui avrà il Paradiso senza chiedersi il motivo o la dinamica e soprattutto il senso che ha la speranza nel Paradiso dal punto di vista della vita concreta e quotidiana. La speranza individualistica è una speranza nel futuro senza presente, è una concezione ridotta e inaccettabile della fede cattolica.
La speranza cristiana è la certezza che la resurrezione del Signore avrà il suo compimento in noi nella vita eterna, ma illumina e cambia già il cammino della storia nell’uomo e nella società. Questa speranza è un futuro che illumina il presente o un presente che introduce al futuro. C’è una connessione fra storia e eternità, se non ci fosse questa connessione anche il cristiano, che pure ha questa speranza individualista nel futuro, sarebbe un pover’uomo come tutti gli altri uomini. Invece il cristiano ha la certezza della positività della vita.
Qui emerge il grande tema ratzingeriano del cristianesimo come bellezza della vita. Poiché la speranza è un dono che ci viene dato in Cristo e al quale si partecipa già da adesso, il nesso fra presente e futuro è essenziale. La speranza è il dono di Cristo all’uomo che rende l’uomo nuovo già nel cammino, cammino non ancora compiuto, ma già nuovo. La frase più significativa è quella di san Giacomo “un seme d’immortalità è seminato nei nostri cuori”. In questo senso è la speranza non dell’individuo, ma della persona che partecipa al popolo. La speranza è una categoria del popolo cristiano. È tutto il popolo cristiano che porta la speranza della immortalità o la speranza della resurrezione.
È la partecipazione al popolo che ci rende partecipi e protagonisti della speranza a tal punto che la speranza è qualcosa che s’impara. Ci sono luoghi privilegiati per praticare ed imparare la speranza. Questa è la parte finale ed è la parte più sintetica, su cui il Papa tornerà successivamente. Sono pagine straordinarie quelle in cui si descrive la sofferenza come luogo dello sperimentare e dell’imparare la speranza.
La sofferenza umana, il dolore fisico, il limite morale, le condizioni di ingiustizia consentono alla Chiesa e ai cristiani di capire che lì può essere la grande occasione per proporre e per vivere un’altra prospettiva: l’ultima parola non è la parola dolore o ingiustizia o negazione o nulla, ma è la parola di una vita nuova. Di questo deve tenere conto l’educazione dei vostri ragazzi.
La maggior parte di loro sono figli del dolore, perché sono figli non voluti, che non vivono in un contesto benevolo, ma in un contesto artificioso.
La famiglia non si può facilmente sostituire con il padre e l’ultima compagna del padre o con la madre e l’ultimo compagno della madre. Questa non è un’alternativa alla famiglia, è un degrado della famiglia. Abbracciare nell’educazione questi ragazzi vuol dire farsi carico di situazioni dolorose, che magari non vengono allo scoperto subito, ma che sono dentro al cammino di tanti dei vostri alunni. Perciò voi dovete aiutarli a vivere la fatica e il sacrificio come un’occasione importante per capire che cos’è la fede.
L’altro brano, più difficile, è quello sul giudizio finale. La speranza non esorcizza il giudizio finale, ma vive camminando verso il giudizio.
Qui il Papa fa chiarezza su alcuni punti, su cui tanta teologia contemporanea ha fatto confusione, affermando l’esistenza reale del Paradiso e dell’Inferno, come due possibilità reali, a prescindere dal fatto che si possa dire quanti ce ne sono da una parte o dall’altra. La fede cattolica esige che l’esito del cammino della fede sia o il compimento totale o la negazione totale. Senza ciò, dice il Papa, sarebbe a rischio l’esistenza stessa della libertà. Quindi la fede non sarebbe un fatto umano, cioè che richiede la libertà, ma sarebbe un fatto meccanico. Noi sappiamo che c’è un modo di parlare della grazia come un fatto totalmente irragionevole e impensabile di tipo protestante, che fa diventare inutile la libertà, perché ognuno è già predestinato da Dio alla santità o alla dannazione. Questa è un’immagine di Dio che non ha nulla del Padre Eterno, ma è quella del padrone eterno, che capricciosamente salva gli uni e condanna gli altri. Il Papa salva anche il Purgatorio, che non è un dogma, ma è una convinzione radicata nella Chiesa, perché dice la necessità della purificazione. Il Purgatorio non può essere spostato in un punto intermedio cosmologicamente pensato fra Inferno e Paradiso, ma sono le sofferenze, con cui un uomo è costretto a misurarsi se vuole arrivare alla santità, perché la santità sia reale.
Questi luoghi dove s’impara la speranza sono dal punto di vista psicologico e pedagogico di grande importanza, perché ci consegnano questioni di carattere esistenziale. Voi siete allo scoperto nel mondo con ragazzi con i quali vi incontrate sull’esperienza e sull’esistenza, non sulle idee. È questa la forza di questa enciclica: vi fa entrare nel dialogo con l’umanità dei vostri ragazzi con un atteggiamento critico e serio. Il primo luogo dove s’impara la speranza è la preghiera, che, insieme al soffrire e al giudizio, sono tre categorie fondamentali per capire in modo pieno che cos’è la fede. Questa enciclica non ha altra preoccupazione che spiegare la fede nella sua integralità e nella sua originalità e parla della modernità per capire di più la fede, perché la modernità è stato un attacco radicale e rigoroso alla fede.