(Roberto de Mattei su "Il Foglio" del 3/07/09)
Tra la liturgia e la fede della chiesa esiste un nesso inscindibile secondo il principio Lex orandi, lex credendi. Al centro del Cristianesimo si trova il mistero dell’Incarnazione. Il messaggio cristiano si riassume in Gesù stesso, uomo-Dio, che promette ai suoi discepoli: “Io sono con voi fino alla fine dei tempi”. Questa promessa riguarda una presenza reale, corporea, attraverso l’azione dello Spirito Santo nella liturgia. Si potrebbe dire che la Santa Messa è lo Spirito Santo promesso ai discepoli. “Gesù, la cui esistenza fisica costituiva il centro del suo messaggio, scrive Mosebach, continua a vivere in essa fisicamente, nell’imposizione delle mani, nell’unzione, nei corpi attraverso il pane e il vino” (p. 81).
Il tema della liturgia costituisce un importante filo conduttore dell’itinerario intellettuale e spirituale di Joseph Ratzinger. Fin dal 2001, in un’intervista a “La Croix”, il cardinale Ratzinger definiva la liturgia come il frutto di una riflessione di cinquant’anni in cui si ritrova tutto il suo percorso spirituale.
Non a caso il primo volume in tedesco dell’Opera omnia di Benedetto XVI (2008) è dedicato agli scritti liturgici e si apre con una prefazione in cui il Papa ricorda come la liturgia della chiesa, vista nei suoi rapporti con la teologia, abbia costituito l’attività centrale della sua vita.
Lo stesso anno sacerdotale, aperto il 19 giugno di quest’anno, vede al suo centro la celebrazione dell’Eucaristia e l’Eucaristia è il centro dell’azione liturgica. In questo senso il motu proprio Summorum pontificum del 14 settembre 2007, con cui il Papa ha concesso la piena libertà di celebrare la liturgia tradizionale costituisce un evento di straordinaria portata. L’avversione al motu proprio pontificio è il principale punto di coagulo del partito “antiratzingeriano”, mentre è proprio a partire dalla difesa del Rito romano antico che si sviluppa la reazione del nuovo “partito romano” sceso in campo negli ultimi anni per riaffermare il
valore immutabile della Tradizione.
E’ su questo sfondo che va situata la pubblicazione anche in Italia del libro di Martin Mosebach, “Eresia dell’informe. La liturgia romana e il suo nemico” (Cantagalli, Siena 2009), con traduzione e prefazione di Leonardo Allodi. Mosebach è un romanziere e saggista tedesco da anni interessato alla liturgia e ben conosciuto dallo stesso Pontefice. Peter Seewald, nel suo colloquio con l’allora cardinale Ratzinger, “Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio” (San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001), ricorda un poetico passo in cui lo scrittore tedesco descrive la celebrazione di una Messa tradizionale in una desolata cappella di Capri che pare trasfigurarsi quando il sacerdote la “risacralizza” con i suoi gesti e con il suo rito. Questo brano è contenuto, assieme ad altri, nel libro ora pubblicato, il cui significativo titolo rimanda a quella che Dom Prosper Guéranger, il restauratore della liturgia romana nel XIX secolo, definiva l’“eresia antiliturgica”.
Secondo il grande abate di Solesmes “soltanto dove c’è qualcosa da demolire il genio della distruzione cercherà di introdurre veleno” (“L’eresia antiliturgica e la riforma protestante”, Amicizia Cristiana, Chieti, 2008, p. 14). I distruttori del XX secolo sono gli autori di una riforma liturgica che ha provocato una delle fratture più rivoluzionarie del secolo scorso, paragonata da Mosebach alla guerra iconoclasta di Bisanzio. “Vorrei sentire volentieri sulla bocca di un amico della riforma una volta la seguente ammissione – egli scrive – e cioè che mai nella storia della chiesa fino a Papa Paolo VI si sia osato porre in questione le seguenti caratteristiche fondamentali della liturgia tradizionale: la sacralità della lingua, la celebrazione della liturgia versus orientem, sacerdote e comunità insieme rivolti verso Cristo che risorge; infine la più importante: il carattere sacrificale
della celebrazione liturgica” (p. 225).
Tra la liturgia e la fede della chiesa esiste un nesso inscindibile secondo il principio Lex orandi, lex credendi. Al centro del Cristianesimo si trova il mistero dell’Incarnazione. Il messaggio cristiano si riassume in Gesù stesso, uomo-Dio, che promette ai suoi discepoli: “Io sono con voi fino alla fine dei tempi”. Questa promessa riguarda una presenza reale, corporea, attraverso l’azione dello Spirito Santo nella liturgia. Si potrebbe dire che la Santa Messa è lo Spirito Santo promesso ai discepoli. “Gesù, la cui esistenza fisica costituiva il centro del suo messaggio, scrive Mosebach, continua a vivere in essa fisicamente, nell’imposizione delle mani, nell’unzione, nei corpi attraverso il pane e il vino” (p. 81).
Il rito è per sua natura immodificabile, perché è sottratto per sua essenza ad ogni modifica, dal momento che ogni intervento distrugge l’esperienza che non il celebrante del rito, ma Cristo stesso opera in esso. Con finezza psicologica Mosebach precisa: “E’ forse meno importante che il rito per secoli e secoli sia rimasto del tutto invariato piuttosto che esso sia stato percepito e vissuto dai partecipanti come appunto invariato” (p. 222). E’ impossibile infatti che una successione di parole e di gesti, anche se esattamente fissati in libri liturgici, sia rimasta invariata attraverso un lungo intervallo di tempo. Il rito, a partire dall’epoca della prima cristianità, non ci è giunto inalterato, perché è destinato a trasformarsi di continuo, impercettibilmente, nel corso dei secoli. Tali trasformazioni e graduali mutamenti non sono mai “riforme”, dal momento che dietro di esse non agisce l’intenzione di fare qualcosa di meglio. E nondimeno, spiega Mosebach, noi possiamo considerare l’antica Messa, a torto chiamata “tridentina” (la si potrebbe meglio definire come “gregoriana”) come immutata, sempre ugualmente offerta come dono dall’alto, dal momento che questi mutamenti erano qualcosa di involontario, intervenuto lentamente e in maniera così graduale che nessuno, quasi, se ne è accorto.
Oggi la Messa costituisce un’irripetibile esperienza, come quella che provocò la conversione di Paul Claudel, la notte di Natale del 1886 a Notre Dame. Bellissima è la descrizione di quanto accade oggi all’alba nell’abbazia benedettina di Fontgombault. E’ buio e la chiesa è vuota, quando un corteo di monaci lascia la sacrestia. Avanzando lungo la navata, il corteo si divide. Davanti a ogni pilone è un altare dove restano un sacerdote e un ministrante, fino a che tutti i dodici altari sono stati occupati. “Chi si mette dietro, al centro della navata della chiesa – scrive Mosebach – ha davanti a sé un’immagine unica. La Messa, che di solito riempie il centro di una chiesa, appare qui di colpo onnipresente, come per un gioco di molteplici riflessi. La prospettiva dello spazio che finisce nel coro è popolata da sacerdoti che celebrano da soli, ciascuno dei quali, con ognuno dei suoi gesti solenni, con l’elevazione delle mani, gli atti di riverenza e le genuflessioni, pretende di fare qualcosa di particolare. Nessun muro, nessuna colonna dove non abbia luogo un sacrificio” (pp. 109-110). Oggi si è rinunciato alla pluralità di messe in nome di una “concelebrazione” che dovrebbe esprimere la dimensione comunitaria della chiesa. Ma quando una molteplicità di sacerdoti celebrano allo stesso tempo un unico rito, essi privano la chiesa e i fedeli del valore infinito di innumerevoli Messe celebrate in altari diversi nella stessa giornata.
A Davide Cantagalli vorremmo suggerire la pubblicazione degli Atti del colloquio, presieduto dal cardinale Ratzinger, che si tenne nel luglio 2001 all’abbazia di Fontgombault sul tema “Autour de la question liturgique”. La liturgia, disse in quell’occasione il cardinale, non deve essere il terreno di sperimentazione per ipotesi teologiche. Essa trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi pretendiamo farne.