di Pietro de Marco
Da L’Occidentale del 14 Luglio 2007
Da L’Occidentale del 14 Luglio 2007
Nella recente lettera motu proprio data (ma il latino vorrebbe il plurale) ormai universalmente nota, Benedetto XVI ha fermamente indicato nel Missale romanum, promulgato da Pio V e proposto in edizione riveduta (1962) da Giovanni XXIII, una espressione di validità piena e attuale della lex orandi, quindi della lex credendi, poiché ciò che si crede e il logos vivente nel rito convergono. Accanto al Messale promulgato da Paolo VI (1970) che si deve considerare, comunque, la “tertia editio typica” del Missale romanum, esso rappresenta un distinto usus dell’unico rito della Chiesa latina, mai abrogato.
Le rare, ma violente, reazioni di questi giorni al motu proprio confermano l’urgenza dell’azione “medicinale” di papa Benedetto. Esse hanno polemicamente sollevato contro la Summorum pontificum due gravi appunti. Da un lato avrebbe inferto un vulnus all’autorità episcopale, poiché la decisione romana sottrarrebbe a colui che costituisce per essenza il liturgo della sua chiesa, il Vescovo, l’autorità di disciplinare ed informare a partire da sé gli stili e gli intenti liturgici dei cleri che, comunque, celebrano per sua delega. Dall’altro, il motu proprio introdurrebbe nel popolo una paradossale forma di relativismo liturgico, una liturgia “su ordinazione”, come si è detto, secondo le preferenze dei fedeli, rafforzate dalla sanzione un diritto soggettivo ad esigere il rito latino.
Quanto al primo rilievo, l’autorità del Vescovo è oggetto della lettera di accompagnamento di Benedetto XVI ai “cari fratelli nell’ Episcopato”. In quelle pazienti pagine di chiarimento della sollicitudo di Roma si ricorda che quello latino non è un altro rito, che la sua presenza nel popolo cristiano è memoria costruttiva, e la sua celebrazione legittima e opportuna. La ricchezza verticale, per dire così, storico-tradizionale del culto cristiano è, dunque, il dato primario cui attingere; e la moderatio Sacrae Liturgiae esercitata dal Vescovo deve intendersi di conseguenza. Diversamente da quanto il lettore potrebbe ricavare da interventi di stampa (Melloni), il vescovo non genera autonomamente, tanto meno in isolamento, il “fatto”, l’ontologia sacra, del rito che è cristocentrico, né la sua forma, che appartiene anzitutto alla chiesa una e universale. Peraltro, sembra suggerire Benedetto XVI nella lettera all’Episcopato, proprio i responsabili dell’unità nella Chiesa non sono esenti da responsabilità nell’attuale disordine; taluni, spingendo per l’attuazione del Concilio, non hanno mancato al compito primario di evitare o sanare le divisioni?
La seconda obiezione è, per l’aspetto sociologico, decisamente fuori luogo; se qualcosa ha offerto, da decenni, uno spettacolo di stili liturgici pericolosamente à la carte questo è l’abuso dilagante (e precoce, già nell’immediato postconcilio) delle interpretazioni o “inculturazioni” dell’ordo missae. Non vi è chi non ricordi arbitrarie soppressioni di preghiere e gesti, e l’introduzione illegittima di nuovi testi e attori e luoghi “liturgici”. Da ciò la migrazione del popolo credente alla ricerca degli stili di celebrazione-azione più conformi al gusto. Fenomeno noto da tempo: il recente atto di governo di Benedetto XVI è stato preceduto da molti avvertimenti, soprattutto dalla istruzione Redemptionis Sacramentum dell’aprile 2004, che mettevano in guardia dalle deformazioni arbitrarie. Quanto al diritto soggettivo a richiedere (qualcosa di legittimo e vigente), così chiaramente riconosciuto ai fedeli dal motu proprio, esso rappresenta bene la determinazione con cui il Pontefice ha affrontato la sua riforma, deciso a non lasciarla affossare dalla pigrizia o dalla ostilità.
Al contrario di quanto si obietta, il Missale romanum tridentino potrà agire non antagonisticamente, ma come paradigma stabilizzatore delle fluttuanti liturgie in lingua corrente. Lo stesso Card. Lehmann, prelato spesso critico con Roma, ha riconosciuto che il motu proprio è un “buon motivo” per promuovere con nuova attenzione una celebrazione (“ordinaria”) degna dell’eucaristia e degli altri riti sacramentali.
La nuova “legittimazione” del Missale romanum decretata dalla Summorum pontificum indica dunque alla vita cattolica la sua essenziale natura di complexio. L’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” (subito intensa-mente sottolineato dal Card. Camillo Ruini, Avvenire, 8 luglio) diviene parte di un più ampio intervento medicinalis per la chiesa universale, anche indipendentemente dalle tensioni con le minoranze scismatiche. Mi si oppone che l’importante Missale romanum promulgato il 26 marzo 1970, eminentemente “tradizionale” e frutto di una matura scienza liturgica, sarebbe bastato ad ottenere questi effetti dialettici. Ora, nessuno ignora l’enorme lavoro della Congregazione per il culto divino nei decenni, e il suo alto livello teologico. Né la passione di Giovanni Paolo II per la vita liturgica della Chiesa; basterebbe la splendida Dominicae Cenae del febbraio 1980. Ma – a parte la drammaticità e l’eccesso di quei decenni – che ne è stato di tale ricchezza nelle pratiche ordinarie? Quale la sua capacità di orientamento e, ad un tempo, di contenimento del "rinnovamento” liturgico perseguito in quotidiani dilettantismi, spesso estranei all’idea stessa di sacralità dell’eucaristia e del sacrificio (Dominicae cenae, cap.II)? E’ necessario riflettere sulla sensatezza di fondare opere grandi, come a riforma liturgica, sulla sabbia delle retoriche postconciliari.