La bellezza della liturgia

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François Cassingena-Trévedy, La bellezza della liturgia, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2003, pp. 118, € 7,00

 
In diverse occasioni Papa Benedetto XVI ha indicato come modelli della liturgia gli angeli e di riflesso coloro che come queste creature celesti, vivono continuamente alla presenza di Dio celebrando incessantemente la liturgia con la loro stessa vita: i monaci. Ed è proprio un monaco benedettino, François Cassingena-Trévedy a mostrarci ciò – anzi: Colui – che allo stesso tempo si nasconde e si rivela nei divini misteri. La bellezza della liturgia, argomento di questo denso libretto, è in ultima analisi la bellezza di Cristo, “il più bello tra i figli degli umini” (salmo 44). Solo a partire da qui possiamo aprirci alla sua vera essenza, superando il soggettivismo e la dittatura del gusto che talvolta accomuna i fautori delle più variegate tipologie di Messa: «Nell’era dei centri commerciali si va a cercare anche nel supermercato ecclesiale ciò che si trova di conveniente. Sottile e perfido ribaltamento dei fini. Quella che nei primi secoli del cristianesimo veniva chiamata opus Dei, l’opera di Dio, tende a diventare un genere di consumo tra tanti altri» (p. 9).

La ragion d’essere della liturgia «è sempre legata a qualche sacramento, ogni volta è un sacramento quello che celebra, che accompagna, al quale fa da contesto» (p. 13) – anche nel caso della liturgia delle ore, il cui stretto legame con la Messa non fa che continuarne instancabilmente la celebrazione. Ma prima ancora dei singoli sacramenti c’è la «sacramentalità fondamentale e antecedente» (p. 15), la «sacramentalità indifferenziata, primitiva» (p. 16) data dalla presenza operante e attiva di Cristo.
Presenza operante e attiva: non è dunque una presenza vaga o parolaia, poiché la liturgia è fatta anche di parole, ma mai fini a se stesse, sempre volte a conseguire un effetto concreto e legate indissolubilmente ai gesti fondamentali di Colui che è «il gesto di Dio verso di noi, [cioè] Cristo. L’estetica liturgica si fonda su una cristologia del gesto» (p. 27). Pertanto l’autore definisce la liturgia stessa come «un bel gesto di Cristo che coordina a sé i nostri gesti» (p. 30). Il Canone Romano (o prex eucaristica I) che parla di sanctas ac venerabiles manus e di praeclarum calicem offre un compendio della bellezza e della maestà del gesto supremo di Cristo. Non si tratta però di una bellezza soltanto plastica, esteriore. «In questo caso Cristo non sarebbe stato l’unico a fare dei bei gesti. Dopo tutto l’arte statuaria della Grecia classica ne ha immortalati anch’essa parecchi, e di molto belli» (p. 34). Nei gesti di Cristo invece si manifesta una bellezza superiore che viene dall’alto – et elevatis oculis in caelum -, l’aisthetòn ultimo «che si chiama Grazia, Salvezza, Amore, Vita» (p. 36) e non può prescindere dal lògos della croce che – stravolgendo e superando i nostri criteri – opera una vera e propria pasqua estetica: «Il Bello muore sulla croce, sfigurato, ed è proprio da quella morte che resuscita, paradossale, la vera bellezza; è proprio in quella morte che si manifesta la bellezza autentica» (p. 39). L’arte stessa per entrare nel santuario deve lasciarsi permeare da questa logica della Pasqua – la logica suprema dell’Amore che la Chiesa presenta nella liturgia: «Le mani sono “sante e venerabili” proprio perché sono quelle dell’Amore, e il calice è “bello” molto semplicemente perché è l’Amore che lo prende in mano» (p. 45). Dal “bel gesto” di Cristo scaturisce anche un nuovo ordine per i nostri gesti, il loro tempo, il loro spazio, poiché «la liturgia è tutto lo spazio di cui Cristo ha bisogno per esprimersi, tutto il tempo che gli serve per raccontare se stesso» (p. 53).
 
Sin dall’inizio della creazione vediamo un Dio che mette ordine, e tutte le descrizioni liturgiche dell’Antico e del Nuovo Testamento ne ribadiscono il carattere gerarchico e la connessione etimologica tra ornare e ordinare, fino alla regola d’oro enunciata da Paolo: «“Tutto avvenga decorosamente (euschemónos) e con ordine (katà táxin)” (1Cor 14,40)» (cit. a p. 61). Tale principio guiderà persino la risurrezione dei morti nell’ultimo giorno (1 Cor 15, 22-23) poiché costoro in fondo risorgono per celebrare una liturgia eterna. «Il mondo dei risorti, che si costituisce attorno a Cristo principio di vita, appare dunque come un mondo ordinato, e in quanto tale atto a eseguire quella liturgia concentrica, scaglionata in diversi livelli, che l’Apocalisse descrive» (p. 63). I Padri della Chiesa insisteranno continuamente proprio sull’ordine e l’armonia della liturgia, espressi nei ministeri, negli spazi, nei canti, nella dottrina. «Naturalmente ci sarà chi vorrà individuare in questa costante attenzione dei padri all’ordine, un tratto caratteristico della loro cultura greca: libero di farlo; resta comunque il fatto che tale elemento si è incontrato con la rivelazione, che la chiesa l’ha assimilato in profondità, l’ha accolto, e che per noi non è più possibile prenderlo alla leggera sacrificandolo alle rivendicazioni dell’individualismo moderno, ordinariamente egualitaristico e anarchico, che del resto si è fatto strada solo in questi ultimi decenni anche in ambito liturgico» (p. 73). La liturgia in realtà non fa che ristabilire quell’ordine primordiale, a cui ogni uomo tende naturalmente poiché è la cifra che lo stesso Creatore ha iscritto nella creazione.       
La liturgia ordina innanzitutto il tempo, se ne appropria per riempirlo di significato, riproponendo attraverso i vari cicli – da quello diurno a quello annuale – il mistero multiforme di Cristo che essa inculca sempre più profondamente in noi mediante un movimento a spirale che concilia ciclicità e progresso, compiendo «una sorta di rivoluzione copernicana attorno al mistero di Cristo» (p. 81)   
La liturgia si appropria e instaura un nuovo ordine anche nello spazio e nelle realtà materiali. La Gerusalemme celeste è affollata di angeli agrimensori e geometri (cfr. Ap 21,15ss.): «Che lo Spirito divino […] sia anche Spirito di geometria?»(p. 83). In fondo Dio stesso afferma che non Lo si può incontrare nel caos senza forma (cfr. Is 45,19) e la stessa creazione pertanto si configura come un kósmos di cui la chiesa è simbolo: «essa comprende il divino santuario come un cielo, e in aggiunta a esso è disposto il corpo centrale dell’edificio (la navata) come una terra» (S.Massimo il Confessore, cit. a pp. 85-86). La liturgia chiama a raccolta e porta a compimento tutta la creazione, niente in essa ha una funzione puramente decorativa, anzi tutti gli elementi (pane, vino, acqua, fuoco, ecc.) del mondo diventano addirittura co-liturghi. «Altrimenti che senso avrebbero i salmi cosmici che recitiamo ogni giorno a coronamento delle lodi?» (p. 88). In tal senso la liturgia è il vero «ecosistema» che inaugura l’equilibrio escatologico in cui ogni elemento troverà il proprio posto.         
A maggior ragione questo nuovo ordine riguarda gli uomini e non è casuale il legame tra vocabolario liturgico e vocabolario militare, poiché il popolo di Dio non è «un popolo informe e caotico, malgrado le rivendicazioni egualitarie di un certo anarchismo ecclesiale» (p. 92), che non tiene conto della necessità del battesimo e del sacerdozio ordinato, della struttura che Dio stesso ha voluto. «Insomma, la liturgia presuppone il sacramento dell’ordine, o l’ordine come sacramento» (Ibidem), e questo si riflette inevitabilmente anche nel cuore del singolo uomo, instaurando una tregua e spostando il centro di gravità dall’io a Dio.
Infine la liturgia mette ordine anche nella Scrittura, di cui ci fornisce – attraverso la suddivisione attorno ai diversi misteri celebrati – già una prima esegesi. Così come avviene per il tempo, lo spazio, l’uomo, essa «fa emergere la vera struttura e l’elemento formale di tale struttura, che è di ordine cristocentrico; essa organizza il corpo della rivelazione scritta attorno al suo asse: Cristo salvatore» (p. 102). È infatti la liturgia ad aver formato il canone della Scrittura, che non è un libro morto da analizzare filologicamente dall’inizio alla fine, bensì da leggere in quello che Paul Claudel definisce «l’enorme edificio della liturgia» (cit. a p. 103) innalzato dalla Chiesa che «ha preso da ogni parte frammenti dei padri, della Bibbia, dei racconti agiografici, degli scritti poetici, per farne una costruzione viva nella quale sono impiegate armonicamente tutte le ricchezze dell’universo in un inno di gloria al Creatore» (Ibidem).
È il risultato di un ordine che ha a che fare con la bellezza, ma anche con il precetto – poiché «non c’è liturgia autentica senza docilità intelligentemente scrupolosa alle rubriche» (p. 105) e «non esiste estetica liturgica che possa eludere il carattere normativo della liturgia» (Ibidem) -, il cui fine ultimo è la perenne liturgia cui saremo chiamati nella Gerusalemme celeste, che in ultima analisi è l’epifania dell’Amore di Cristo, dalla cui iniziativa e non dalle nostre invenzioni scaturisce la vera bellezza.
 
Di conseguenza questa non è una bellezza qualunque, bensì di uno splendore tale da risultare in qualche modo «tremendo» (phriktós), da suscitare profonda impressione – e proprio da qui deriva il suo potenziale missionario, in quanto manifestazione di una Realtà che ci supera, e che tuttavia «proprio allora, paradossalmente, diventa vicina» (p. 114).
L’autore termina raccomandando un particolare canone estetico che richiama molto da vicino quello spirito “angelico” della liturgia caro a Papa Benedetto: l’ariosità. «Non ci sia nulla, in essa, di troppo sacrificato o di troppo pesante e opprimente, né i suoni, né la luce, né i protagonisti. Lasciamo alla Parola, alla preghiera, alle melodie, ai raggi di luce, all’incenso, il tempo e lo spazio per arrivare a un’abside e ritornare a un nartece, il tempo e lo spazio per toccare Dio e toccare l’uomo, il tempo e lo spazio per andare e tornare. Tutta la liturgia sta in questo va e vieni, in questo spazio aerato, questo respiro, questo interstizio dove s’intrufolano gli angeli» (p. 115).
Stefano Chiappalone