Roberto de Mattei, TURCHIA IN EUROPA. BENEFICIO O CATASTROFE?, SUGARCO, Euro 15,00, ISBN-13: 9788871985732, Pag. 147.
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Secondo lui, far entrare la Turchia in Europa sarebbe “un segnale importante”: così il Presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, ha suscitato le reazioni stizzite di Francia e Germania. Ma le sue parole non sono una novità, tutt’altro. Anche in passato i governi americani succedutisi han battuto su questo tasto, sperando di poter in questo modo controllare le ricchezze petrolifere e di gas del mar Caspio e dell’Asia centrale, nonché le acque del Golfo e del vicino Oriente. Lo stesso Parlamento europeo in una risoluzione del 1999 sosteneva che un futuro ingresso “di Ankara sarebbe un contributo importante allo sviluppo dell’Unione, come pure alla pace ed alla sicurezza”.
Ma è proprio così? Vi sono concrete ragioni per dir di no. Far della Turchia un partner privilegiato è un conto. Accettarne l’adesione con i suoi 72 milioni di abitanti -il 98% dei quali ufficialmente islamici- è un altro. Partiamo dalle cifre. Gli studi 2006 sulla povertà, condotti dall’Istituto turco di statistica, han rivelato come circa 539 mila persone qui muoiano di fame e ben 13 milioni siano al di sotto della soglia di povertà. Il tasso di occupazione oscilla tra il 44 ed il 45% contro il 64,3% di media europea. Un eventuale ingresso di Ankara nella Ue riverserebbe, quindi, per il principio della libera circolazione milioni di lavoratori turchi in Occidente, oltre ad altri milioni di immigrati clandestini dall’Africa maghrebina, dall’Asia minore, dal Libano, dall’Iraq e dagli Stati turcofoni ed asiatici. Il che non sarebbe del tutto indolore: “La conquista o riconquista dei territori europei avviene anche attraverso l’immigrazione”, precisa il prof. Roberto de Mattei nel suo ultimo libro, di recente uscita, “La Turchia in Europa, beneficio o catastrofe?”, edito da Sugarco. L’Egira o “migrazione” –sull’esempio della prima migrazione di Maometto dalla Mecca a Medina- è, infatti, nell’Islam una forma di Jihad, per impiantare l’Islam universale. Vural Öger, europarlamentare tedesco di origine turca, affermò nel 2004: “Ciò che Solimano ha iniziato con l’assedio di Vienna nel 1683, noi lo porteremo a termine con i nostri abitanti, col potere dei nostri uomini e donne”. Anche l’ex-primo ministro turco Erbakan, disse in un’intervista: “Lei pensa che noi turchi musulmani veniamo qui per lavoro e per raccogliere le briciole del vostro denaro. No, veniamo per assumere il controllo del vostro Paese e per mettervi radici ed in seguito costruire ciò che riteniamo appropriato e tutto questo con il vostro consenso e secondo le vostre leggi”. Ed ancora, nel 1989, nel corso di una visita alla città tedesca di Arnham, Erbakan dichiarò apertamente: “Gli europei sono malati. Daremo loro le medicine. Tutta l’Europa diventa islamica. Conquisteremo Roma”.
Tale imponente fenomeno migratorio farebbe impennare la spesa sociale e la disoccupazione, oltre a diminuire la produttività e la qualità della manodopera. “La Turchia, –osserva il prof. de Mattei nel suo libro – per la povertà delle sue regioni, diventerebbe il primo beneficiario dei fondi strutturali europei”: uno studio tedesco valuta il costo complessivo in almeno 11 miliardi di euro, ma pare sia sottostimato. Secondo la Commissione Europea, la Turchia nel 2025 potrebbe arrivare ad assorbire tra i 22 ed i 33 miliardi e mezzo di euro tra sussidi agricoli e fondi regionali.
Dal punto di vista culturale, le radici etniche e linguistiche del popolo turco sono asiatiche, non europee. Le sue tradizioni e la sua religione sono estranee alle nostre. In un’intervista a “Le Figaro Magazine” del 13 agosto 2004, fu il card. Ratzinger, a sottolinearlo: “Le radici che hanno formato e permesso la formazione dell’Europa sono quelle del Cristianesimo. In questo senso la Turchia ha sempre rappresentato nel corso della storia un altro Continente, in permanente contrasto”. Parere ribadito ancora in un discorso del 18 settembre dello stesso anno presso la diocesi di Velletri, di cui il Card. Ratzinger era titolare: “Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: perciò sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione Europea”. Opinioni personali, certo, però alquanto autorevoli…
Ed ora guardiamo all’aspetto politico. Il nuovo Trattato costituzionale europeo attribuisce agli Stati europei un peso politico proporzionale a quello demografico. La popolazione turca, che nel 2006 era di 72 milioni di abitanti, dovrebbe giungere nel 2023 a quota 90 milioni contro gli 85 della Germania. Se entrasse in Europa, la Turchia avrebbe il numero massimo di eurodeputati previsto dalla Costituzione, ben 96, a spese di Gran Bretagna, Francia e Italia, che dovrebbero rinunciare a parte dei propri, per far posto ai nuovi “colleghi”. Sarebbe –come dichiarato dall’allora Presidente della Convenzione, Valéry Giscard d’Estaing- “la fine dell’Unione Europea”. Inoltre, il voto turco diverrebbe cruciale in ogni decisione, anche nell’elezione del Presidente del Consiglio Europeo e di quello del Parlamento. Ciò, nonostante in Turchia non viga una democrazia nel senso occidentale del termine. E’ perseguibile chi manifesti pacificamente il proprio dissenso sui “vantaggi nazionali”, chi denigri pubblicamente la nazione turca, la Repubblica o la Grande Assemblea Nazionale, sono prassi le carcerazioni politiche, le torture ed i maltrattamenti, come ampiamente documentato da Amnesty International e da Human Rights Watch. La stessa pena di morte, ufficialmente abolita, è stata reintrodotta con un emendamento costituzionale, che la rende possibile “in caso di guerra, in caso di pericolo imminente di guerra e per gli atti di terrorismo”. Nel Rapporto 2007, la Commissione Europea confermò come la libertà di espressione in Turchia non sia affatto garantita. Innumerevoli le condanne inflitte ad Ankara dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo e le proteste della Santa Sede contro le discriminazioni ai danni dei cattolici e delle minoranze cristiane.
Non basta. Innumerevoli ed intricatissimi sono i nodi ancora da risolvere a livello internazionale: la questione curda; il mancato riconoscimento della Repubblica di Cipro; il genocidio del popolo armeno, tuttora negato da Ankara. A nulla valse la “rivoluzione culturale” voluta dal primo Presidente turco Atatürk, con tanto di adesione alla Nato ed avvento del pluripartitismo. Da 7 anni la Turchia è guidata da un partito islamista, l’Akp del premier Erdogan, che controlla il Parlamento con una maggioranza assoluta dei due terzi. L’avvento del suo governo fu salutato dal politologo Alexandre Del Valle come la “seconda morte”, quella elettorale, di Atatürk, nonché ulteriore tassello di una islamizzazione strisciante. Presidente della Repubblica è Abdullah Gül, primo islamista a divenire Capo dello Stato in 84 anni di storia della Turchia “laica”.
“Forse in nessun’altra regione come in questa la parola di Gesù fu più predicata -osserva opportunamente il prof. Roberto de Mattei nel suo ultimo libro- Delle 50 località che alla fine del I secolo vennero raggiunte dal messaggio del Vangelo, ben 24 appartengono all’odierna Turchia”. Eppure, proprio il Cristianesimo è l’unica identità che chi ha retto il Paese ha voluto strenuamente cancellare dal dna di questo popolo, rimpiazzandovi l’identità islamico-ottomana. Oggi i cristiani sarebbero meno dell’1% della popolazione in Turchia, circa centomila in tutto -sebbene manchino stime ufficiali-. In realtà, secondo quanto dichiarato al quotidiano “Avvenire” dal Presidente della Conferenza Episcopale Turca, mons. Ruggero Franceschini, sarebbero di più: “Molti tengono nascosta la loro appartenenza religiosa e la loro etnia”. Perché? Per evitare le pesanti restrizioni, cui diversamente andrebbero incontro. Tutti i cristiani sono esclusi dall’accesso alle funzioni pubbliche, Parlamento compreso. Troppi gli omicidi di religiosi negli ultimi 3 anni, tra cui Padre Andrea Santoro, Padre Kmetec e molti altri. La Chiesa Cattolica non può costruire chiese, ristrutturarle, aprire Seminari, possedere o gestire le proprie istituzioni scolastiche o sociali. Di contro, la Turchia è uno dei Paesi in cui si costruiscono più moschee, il velo è riapparso nelle strade, intere città rispettano il Ramadan ed i partiti islamici registrano i maggiori successi elettorali, grazie all’opera di “reislamizzazione” operata dalla Direzione degli Affari Religiosi: qui si contano 90 mila imam stipendiati dallo Stato e 85 mila moschee attive, una ogni 350 abitanti, il più alto numero pro capite nel mondo.
Vale, allora, in conclusione, l’interrogativo posto in maniera molto chiara sulla questione turca: “L’Unione Europea, priva delle radici cristiane, potrà integrare etnie e culture diverse?”. La risposta è negativa: “Neghiamo che l’entrata della Turchia nell’Unione Europea possa rappresentare un beneficio per l’Europa”, afferma con chiarezza il prof. de Mattei nel suo ultimo libro. E ciò per un motivo fondamentale: il fatto che il Continente abbia “abdicato al proprio ruolo e rinnegato le sue radici”.