La Cina continua a negare la libertà religiosa

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Anche in Vaticano c’è il partito filocinese


di Bernardo Cervellera

Nel febbraio 2003 la stampa di Hong Kong ha dato
notizia che il governo cinese e il Vaticano
stavano intrattenendo “dialoghi informali allo
scopo di migliorare le loro relazioni”.
In realtà era una bugia costruita ad arte.
La notizia era stata diramata dall’Associazione
Patriottica e dall’Ufficio Affari Religiosi e
aveva la funzione di rafforzare il controllo
sulla Chiesa cattolica, sia l’ufficiale che la
sotterranea.

Non per nulla, proprio nei giorni di maggiore
diffusione delle “voci”, il vescovo di Hong Kong,
Joseph Zen, affermava che la repressione contro
la Chiesa cinese s’era fatta più aspra:
“Il governo è nervoso, ha fatto obbligo di
rieducazione politica per tutti i seminaristi,
perché sa che i preti giovani sono i meno
obbedienti”.
Sembra quasi di poter stabilire una regola: quando
si diffondono voci sui possibili rapporti
diplomatici fra Santa Sede e Cina, vuol dire che
si sta attuando una maggiore repressione.
La stessa cosa, infatti, è avvenuta nel 1999.

Da parte vaticana, grazie all’esperienza di Giovanni
Paolo II sotto il comunismo, la regola è che le
relazioni diplomatiche devono essere finalizzate
alla libertà della Chiesa.
Ma fra gli addetti ai lavori della Santa Sede non
mancano alcuni impazienti che, pur di stringere
rapporti diplomatici con Pechino, sarebbero disposti
a ogni compromesso.
Si capisce allora perché proprio i vescovi cinesi
chiedano al Vaticano di procedere con cautela.

Anche in campo internazionale i rapporti fra Santa
Sede e Cina sono uno dei nodi più attraenti.
Personalità americane, francesi, italiane, spagnole,
portoghesi, cilene, ecuadoregne, perfino indiane e
cambogiane mostrano una gran voglia di contribuire
ad avvicinare il paese più grande del mondo e
l’istituzione più antica del mondo.
Dare la soluzione a un problema simile farebbe
passare alla storia gli attori.
Ma questi rapporti interessano davvero la Cina e il
Vaticano?

L’interesse della diplomazia vaticana è testimoniato
dalle battute, divenute famose, lanciate dal
cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, l’11
febbraio 1999.
Sodano disse che la Santa Sede era pronta a trasferire
la sua nunziatura da Taipei a Pechino “non domani, ma
stasera stessa, se le autorità cinesi lo permettono”.
E aggiunse: “La nunziatura di Taipei è già la
nunziatura in Cina. Prima essa era a Pechino, poi a
Nanchino, dove il nunzio fu scacciato e costretto a
trasferirsi a Hong Kong e poi a Taiwan. Riportarla a
Pechino non significa interrompere le relazioni con
Taiwan, ma far ritornare la nunziatura là dove essa
era all’inizio”.
Poche settimane dopo il presidente Jiang Zemin sarebbe
venuto in visita in Italia.
Le battute del cardinale Sodano erano dunque un segno
di apertura ed esprimevano il desiderio di relazioni
diplomatiche.

Quanto al governo di Pechino, il suo interesse è fuori
discussione.
Per un paese modernizzato in tanti suoi aspetti, avere
questa macchia nel suo pedigree internazionale può
risultare molto imbarazzante.
L’urgenza di ristabilire i rapporti diplomatici col
Vaticano mi è stata confermata confidenzialmente da
membri dell’Accademia delle Scienze Sociali di Pechino,
ed è stata motivata anche “da necessità di politica
interna”.

Una prima necessità nasce dal fatto che l’unione fra
cattolici clandestini e ufficiali è sempre più forte.
E questo significa che Pechino non ha più la
possibilità di esercitare il metodo del “divide et
impera” perché gli uni e gli altri pongono al governo
la stessa richiesta: una piena libertà di religione.

Un’altra necessità è l’urgenza di frenare l’esplosione
di sette e di gruppi religiosi, sia cristiani che
buddisti.
In particolare, Pechino è più che preoccupata per la
diffusione della Falun Gong.
Il rapporto col Vaticano servirebbe come copertura
internazionale: noi lavoriamo con istituzioni precise,
lasciateci controllare severamente le sette.
Ma purtroppo per Pechino, il papa, i vescovi della
Cina, quelli di Hong Kong e Taiwan continuano a
chiedere libertà religiosa per tutti, non solo per
la Chiesa cattolica.

Pechino afferma che gli ostacoli all’allacciamento
dei rapporti con la Santa Sede sono due: il Vaticano
“deve interrompere i rapporti con Taiwan”; il Vaticano
“non deve immischiarsi negli affari interni cinesi,
inclusi quelli religiosi”.
Ma come come ha ricordato il cardinale Sodano, la
questione di Taiwan non è mai stata un grosso problema
per la Santa Sede: uno sguardo alla storia della
nunziatura in Cina fa comprendere che il Vaticano solo
a malincuore accettò nel 1952 di trasferire la sede
diplomatica a Taiwan.
La storia dimostra che anzitutto non fu il nunzio a
scegliere Taipei, ma fu la Cina Popolare ad espellerlo;
in secondo luogo, fin dall’inizio è evidente che le
difficoltà tra Vaticano e Cina non sono di tipo
diplomatico, ma derivano dalle offese alla libertà
religiosa.
In più, sebbene dal ’72 il Vaticano abbia fatto il
passo di non inviare più nunzi a Taipei, ma solo
incaricati d’affari, questo gesto non è mai stato
valorizzato dalla Cina Popolare come segno della
disponibilità della Santa Sede.

Il vero ostacolo non è Taiwan, ma la proibizione alla
Santa Sede di “immischiarsi negli affari interni della
Cina, anche quelli religiosi”.
Il Vaticano, per motivi spirituali, non può non
interessarsi delle comunità cristiane presenti ovunque
nel mondo, per garantire unità nella fede, nomine dei
vescovi e piena libertà religiosa.
Ma il timore di Pechino è che il riferimento spirituale
e di giurisdizione alla Santa Sede porti i cattolici a
ubbidire a “uno Stato straniero”.
Con una buona dose di superficialità le richieste del
Vaticano sono messe alla pari con le rivendicazioni
territoriali dei tibetani sul Tibet o con quelle dei
musulmani sullo Xinjiang.
Così, nel timore assurdo che i cattolici possano
alienare parti del suo territorio (a favore di chi?
del papa?), la Cina fa blocco.

Le reali richieste del Vaticano sono almeno due: i
vescovi della Cina siano i responsabili della Chiesa
davanti al governo, abolendo o riducendo le pretese
di controllo dell’Associazione Patriottica; le
nomine dei vescovi siano di competenza della Santa
Sede e non del governo.

Qualcuno, anche in Vaticano, ha suggerito di fare in
Cina come si fa in Vietnam, ma gli stessi vescovi
cinesi affermano che “l’esempio del Vietnam è
negativo”.
In effetti, dal 1996, in Vietnam, pur in assenza di
relazioni diplomatiche, la Santa Sede propone per
ogni nomina all’episcopato tre possibili candidati e
il governo ha il diritto di scegliere fra i tre.
Ma il governo vietnamita fa passare mesi e anni prima
di dare una risposta, lasciando molte sedi vuote.
Inoltre, la scelta del governo è sempre per i candidati
più pusillanimi, manovrabili e deboli.

Per la Cina, accettare di non controllare più la Chiesa
attraverso l’Associazione Patriottica e rinunciare a
scegliere i vescovi significa abbandonare la pretesa di
voler dominare la vita spirituale dei cinesi.
Ma significa anche che tutte quelle energie che ora
vengono usate per reprimere, potranno essere impiegate
in modo creativo per la stessa società cinese.
Un ritornello che Giovanni Paolo II ripete ovunque è che
“la libertà religiosa costituisce il cuore dei diritti
umani”.
Quando la Cina rispetterà integralmente la libertà
religiosa, allora vorrà dire che sarà veramente entrata
in una modernità a servizio dell’uomo.

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Tratto da:
Bernardo Cervellera,
“Missione Cina. L’Impero fra mercato e repressione”,
Ancora, Milano, 2003, pagine 160, euro 12,00.