Perché la sentenza della Cassazione che ignora la nullità del matrimonio sancita dalla Chiesa è «funzionale alla ridefinizione della famiglia»
di Benedetta Frigerio
Giancarlo Cerrelli, avvocato canonista, cassazionista e vicepresidente dell’Unione giuristi cattolici, spiega per filo e per segno il senso di un verdetto che con la scusa di difendere i più deboli, mira a censurare la funzione civile della Chiesa
La sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite n. 16379 del 17 luglio 2014, contro il riconoscimento della nullità matrimoniale sancita da una sentenza ecclesiastica non mirerebbe, come annunciato dalla stampa, a difendere il diritto dei più deboli. «In ballo c’è molto altro. Come la ridefinizione del matrimonio, aprendo la strada a rapporti familiari sempre più liquidi e precari di cui l’ordinamento prenderà atto», spiega a tempi.it Giancarlo Cerrelli, avvocato canonista, cassazionista e vicepresidente nazionale dell’Unione giuristi cattolici italiani.
Avvocato Cerrelli, qual è la novità di questa sentenza circa la nullità matrimoniale?
È stato definito con un principio di diritto un contrasto interpretativo, presente all’interno della stessa Corte di Cassazione e ancora irrisolto, circa i termini del riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche da parte dello Stato italiano. I giudici hanno sposato, con questa decisione, l’orientamento già espresso qualche anno fa dalla prima sezione della stessa Corte, con la sentenza n. 1343/2011. In poche parole, a parere della Suprema Corte, se marito e moglie hanno vissuto come tali per almeno tre anni, la sentenza ecclesiastica di dichiarazione di nullità del loro matrimonio non ha effetti per lo Stato italiano, perché entrerebbe in contrasto con il principio dell’ordine pubblico. Tale sentenza si pone in linea con la tendenza giurisprudenziale che mira a porre una forte restrizione al riconoscimento civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità.
È mai accaduto prima che il diritto dello Stato fosse contrapposto a quello ecclesiastico in questa materia?
La storia è lunga. Il codice civile del 1865 si limitò a disconoscere gli effetti civili del matrimonio canonico, perché non era ammissibile che la formazione del rapporto coniugale fosse disciplinata, non dalla legge dello Stato, ma dalla legge confessionale dei nubendi. Così dal primo gennaio del 1866 fino all’11 febbraio 1929, per ben 63 anni, l’ordinamento italiano riconobbe, come matrimonio, il solo matrimonio civile che, pertanto, divenne obbligatorio, senza che però fosse vietata la celebrazione religiosa, in via del tutto autonoma, per le persone già unite, in municipio, dal matrimonio civile. Il Concordato dell’11 febbraio 1929 ha instaurato, invece, un sistema fondato sulla “esclusività” della giurisdizione ecclesiastica, come l’unica giurisdizione cui il cittadino, che avesse contratto matrimonio nella forma concordataria, potesse rivolgersi. L’articolo 34 del Concordato del 1929 sanciva, al comma 4, che le cause concernenti la nullità del matrimonio erano riservate alla competenza dei tribunali ecclesiastici e la delibazione della sentenza ecclesiastica avveniva in modo automatico da parte dell’ordinamento italiano. Questa “esclusività” dopo il 1970 è andata restringendosi, fino alla sua abrogazione, avvenuta con l’entrata in vigore della legge 121 del 25 marzo del 1985, che ratificò e diede esecuzione agli “Accordi di Villa Madama” del 18 febbraio 1984 modificando, così, i precedenti “Patti lateranensi” che diedero vita al Concordato dell’11 febbraio 1929. Inizia così un’espansione della giurisdizione sul matrimonio concordatario da parte dell’ordinamento italiano, che comincia ad usare un attento controllo dell’ordine pubblico italiano, in sede di delibazione della sentenza ecclesiastica. La sentenza a Sezioni Unite della Cassazione del 17 luglio tende ad accrescere ulteriormente la giurisdizione dello Stato italiano sul matrimonio concordatario. Da qualche tempo, infatti, si stanno verificando, da parte di organi dello Stato italiano, prese di posizione che denotano una certa diffidenza, un senso di contrarietà verso la funzione giudiziaria svolta dalla Chiesa, interventi che lasciano trasparire l’intento di contenere tale funzione, di limitarne l’applicazione, di controllarne e, ove possibile, di censurarne il concreto esercizio.
La sentenza però sembrerebbe più “garantista” nei confronti del matrimonio, rispetto alla Chiesa che ammette la nullità.
La Chiesa dà importanza al consenso dei coniugi espresso durante la celebrazione. Il processo canonico che dichiara la nullità matrimoniale si basa, infatti, su due processi, entrambi obbligatoriamente conclusi con due decisioni di nullità (la cosiddetta “doppia conforme”), nei quali viene effettuata un’approfondita istruttoria sul rapporto matrimoniale, che tende a verificare se il consenso prestato da uno o da entrambi i nubendi sia stato efficace o meno a far nascere il matrimonio. La Suprema Corte con questa sentenza sembra, invece, concedere maggior credito alla volontà (spesso connotata da emotività) di un soggetto privato che alla decisione di un giudice ecclesiastico, poiché al primo consente di far venir meno l’effettività e la vitalità del matrimonio-rapporto senza che tale decisione debba essere giustificata, mentre al secondo nega tale possibilità, anche in presenza di due decisioni conformi e motivate. Tuttavia il senso di questa sentenza va oltre a quello che può apparire di primo acchito.
Ossia?
A me sembra che lo Stato italiano, con la scusa della tutela dei diritti dei più deboli, voglia in generale ridefinire l’istituto familiare e matrimoniale. Questa sentenza, ad esempio, rievoca la distinzione tra “matrimonio atto” e “matrimonio rapporto”. Il nostro ordinamento privilegia il “matrimonio rapporto”, cioè l’effettività dell’unione coniugale, la continuità e l’attualità della comunione materiale e spirituale dei coniugi, facendo dipendere dalla volontà delle parti, anziché dalla dichiarazione iniziale, l’esistenza del matrimonio-rapporto. Diversamente, l’ordinamento canonico privilegia il “matrimonio atto”, cioè il consenso – esternato al sacerdote durante la celebrazione – che è irrevocabile nel corso del rapporto. L’ordinamento canonico, d’altronde, considera la persona nella sua totalità, dando rilevanza anche alle sue relazioni, soprattutto a quelle che – come il matrimonio – impegnano la vita come tale, valutando in termini espressamente giuridici anche gli aspetti morale e spirituale. L’ordinamento italiano, da parte sua, conferisce valore giuridico quasi esclusivamente a ciò che viene esteriorizzato. Mi pare che i giudici della Suprema Corte, con sentenze come questa, vogliano orientare il nostro ordinamento giuridico – in una prospettiva sempre più positivista – verso l’eliminazione d’interferenze sulla propria giurisdizione matrimoniale e familiare per essere liberi di indicare tratti innovativi e talora rifondativi dell’istituto familiare. Appare funzionale a ciò, infatti, che sia ribadito anche in questa sentenza che «nella nozione di “formazione sociale”», di cui all’articolo 2 della Costituzione «è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso». In poche parole, il privilegio posto dalla sentenza alla durata della convivenza e dunque al “matrimonio rapporto” piuttosto che al “matrimonio atto”, dà importanza più che agli elementi costitutivi precisi e certi che determinano la nascita di un rapporto familiare, al rapporto stesso, che tuttavia tende a privilegiare l’emotività delle parti. Ciò aprirà la strada a rapporti familiari sempre più liquidi e precari di cui l’ordinamento prenderà atto. La conferma di ciò si ha con il riferimento della sentenza all’articolo 8 della Cedu che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare e che è diventato il passe-partout usato dalle Corti di giustizia per disintegrare il modello familiare così come previsto, tra l’altro, dalla stessa Cedu all’articolo 12, cioè quello fondato sul matrimonio tra un uomo e una donna. In questa sentenza la Cassazione conferma che l’articolo 8 della Cedu impone allo Stato degli obblighi positivi attinenti a un effettivo rispetto della vita privata o familiare, affermando che la «nozione di famiglia, secondo all’articolo 8, non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio ma può comprendere altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio…» con una «stabile relazione di fatto», idonea a instaurare una «relazione durevole» fra i conviventi. E ancora, «la questione dell’esistenza o dell’assenza di una “vita familiare” è anzitutto una questione di fatto, che dipende dall’esistenza di legami personali stretti». Infine «non vi è solo un modo o una scelta per condurre la propria vita familiare o privata». A tal proposito è indicativo, a dimostrare la tendenza sempre più fluida di come sia intesa dalle Corti la vita familiare, il riferimento privilegiato che fa la sentenza al concetto di convivenza, il quale precisa non deve necessariamente essere accompagnata dalla coabitazione. Credo che non occorrano commenti in proposito.
La Chiesa non pone limiti all’annullamento: può essere sancito anche dopo 50 anni di matrimonio. Il diritto canonico così non appare meno attento ai soggetti deboli come i figli?
L’ordinamento canonico verifica per mezzo del processo canonico, che si basa su due gradi di giudizio, se il matrimonio sia venuto ad esistenza, o meno, ab initio. La Chiesa non scioglie alcun vincolo matrimoniale, ma nel caso – dopo severa istruttoria – prende atto che il matrimonio oggetto di giudizio, anche se durato 50 anni, non è mai esistito: per un vizio del consenso, per difetto di forma, o per incapacità di uno, o di entrambi i nubendi. I figli nati da quel matrimonio rimangono figli dei genitori che li hanno riconosciuti e questi sono tenuti in ogni caso al loro mantenimento. L’ordinamento canonico non ha il potere, che è demandato all’ordinamento civile, di provvedere sugli aspetti economici del rapporto matrimoniale. È pur vero, però, che il regime economico conseguente alla dichiarazione di nullità di matrimonio può risultare fortemente penalizzante per la parte più debole e bisognosa del rapporto coniugale e può interferire in modo fortemente negativo sia sull’attività giudiziaria svolta dai Tribunali ecclesiastici, sia sul riconoscimento civile delle sentenze da questi emanate. Viene, talora, incentivato un uso strumentale della giustizia ecclesiastica, che porta ad introdurre cause con ben scarso fondamento e ad adottare condotte processuali ben poco rispettose delle esigenze della verità. Bisogna però sottolineare che il diritto civile italiano stabilisce una disciplina specifica conseguente alla dichiarazione di nullità del matrimonio, quando si verificano le condizioni per la sussistenza del matrimonio putativo, ossia quando il matrimonio risulta celebrato in buona fede senza la consapevolezza del vizio che ne produceva la nullità. Tale regime è contenuto negli articoli 129 e 129 bis del codice civile e prevede che il giudice possa disporre a carico di uno dei coniugi l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione alle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze. La corresponsione è limitata ad un periodo non superiore a tre anni. È, inoltre, previsto il pagamento di una congrua indennità (che deve, comunque, comprendere una somma corrispondente al mantenimento per tre anni) a carico del coniuge, o eventualmente del terzo, al quale sia imputabile la nullità del matrimonio, oltre all’obbligo alimentare in caso di mancanza di altri obbligati. Questo regime si applica integralmente anche alla dichiarazione di nullità pronunciata dai tribunali ecclesiastici nei confronti dei matrimoni concordatari, una volta che la relativa sentenza sia stata riconosciuta efficace anche nell’ordinamento civile. L’ordinamento civile italiano prevede un regime giuridico diverso da quello ora descritto nel caso di divorzio, ossia quando vi è stata una pronuncia di scioglimento di un matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario. Tale regime è, in linea di massima, più favorevole al coniuge economicamente più debole. Esso prevede, infatti, che il coniuge che non sia in condizioni di mantenersi con le proprie forze possa beneficiare di un assegno periodico a carico dell’altro, che può protrarsi (purché non passi a nuove nozze) anche per tutta la vita, se continuano a sussistere le condizioni economiche che ne giustifichino la corresponsione. A favore del titolare di tale assegno è anche prevista una percentuale dell’indennità di fine rapporto di lavoro eventualmente percepita dall’ex coniuge e, dopo la morte di questi, una quota dell’eventuale pensione di reversibilità. La lodevole sollecitudine di realizzare una più efficace tutela del coniuge economicamente più debole – che tanto sembra preoccupare la Suprema Corte – potrebbe, dunque, essere effettuata ampliando la consistenza monetaria dell’indennità prevista dall’articolo 129 bis, c. 2, del codice civile, fino a parificarla, di fatto, al contributo che spetterebbe nel giudizio di divorzio al coniuge economicamente meno dotato.
Se la sentenza contraddice gli accordi fra Stato e Chiesa occorrerà per forza rivederli?
La sentenza della Cassazione comporta indubbiamente una forte restrizione al riconoscimento civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità. Certamente, la Chiesa rimane libera di amministrare la giustizia in questo delicato settore nei modi e secondo princìpi e regole che ritiene preferibili. Ma rimane penalizzata nella sua aspettativa, fondata su un preciso impegno concordatario, di ottenere il riconoscimento civile del prodotto di questa sua attività. Ritengo che questo nuovo orientamento non sia conforme allo spirito dell’Accordo concordatario e che non costituisca una corretta attuazione degli impegni assunti dallo Stato italiano. Ci sono, quindi, gli estremi per un’attivazione, da parte della Santa Sede, dei canali diplomatici idonei a prospettare questa situazione al governo. In seguito, la questione potrebbe essere deferita alla Commissione paritetica prevista dallo stesso Accordo, allorché dovessero sorgere “difficoltà di interpretazione o di applicazione” delle disposizioni in esso contenute (art. 14).
Che cosa accadrebbe se lo Stato rivedesse il Concordato? Come ci si regola in altri paesi?
Qualsiasi modifica dei Patti deve avvenire di mutuo accordo tra lo Stato e la Santa Sede, in tal caso la revisione dei Patti non richiede un procedimento di revisione costituzionale. Le disposizioni dei Patti Lateranensi, dunque, devono essere modificate col procedimento ordinario nel caso ci sia mutuo consenso fra Stato e Chiesa, con il procedimento aggravato di revisione delle leggi contenuto nell’articolo 138 della Costituzione nel caso sia lo Stato unilateralmente a modificare il testo dell’atto. Ma la ragione che sta alla base del riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica da parte dello Stato è quella di rendere più concreta ed operante la libertà religiosa dei cittadini, consentendo a quelli di fede cattolica di veder regolato il proprio matrimonio nell’ambito del loro ordinamento confessionale, dando rilevanza ai provvedimenti adottati dalle autorità in esso operanti. Negli altri paesi il rapporto tra la Chiesa cattolica e Stato è diversificato; dipende se vige un accordo tra la Santa Sede e lo Stato o meno. Alcuni paesi hanno una disciplina in parte simile a quella italiana; in altri, in cui vige il sistema di matrimonio civile obbligatorio, il matrimonio confessionale non ottiene nessuna efficacia ed è necessario quindi fare un doppio matrimonio. Qualcuno in Italia ritiene che vista la situazione in cui è stata confinata la giurisdizione ecclesiastica da parte dello Stato italiano, sia il caso di tornare al sistema ante Concordato. Ma credo che i cattolici non debbano ritirarsi sull’Aventino: un cattolico è anche un cittadino che non deve stancarsi o scoraggiarsi, ma continuare ad operare affinché le leggi dello Stato possano essere sempre più a misura d’uomo e secondo il piano di Dio.
Tempi.it, 22 luglio 2014