Anche Maria è senza tutela quando i giuristi fanno i teologi
Pietro De Marco
L’Occidentale 5 Agosto 2007
Il “fatto” è stato sintetizzato da Francesco D’Agostino su Avvenire del 1 agosto. Lo seguo, con qualche dato di cronaca in più. A Bologna l’associazione gay CarniScelte propone per la fine di giugno, entro i fittissimo programma del “Vicolo Bolognetti” (www. myspace.com /bolognetti), una mostra-performance dal titolo “La Madonna piange sperma”. Non commentiamo. Alla pubblicazione del programma seguono la ferma reazione della Curia e diffuse rimostranze e condanne, che portano alla cancellazione dell’iniziativa. I patrocinatori, tra i quali il presidente del quartiere di San Vitale, il sindaco di Bologna e il ministro Giovanna Melandri, escludono ogni propria responsabilità o complicità. Si ammette che sono mancati quei “filtri” istituzionali e di buon senso che ordinariamente evitano incidenti del genere. Viene comunque presentata denuncia penale contro gli organizzatori da parte di un parlamentare di Forza Italia alla luce (così risulta dalla stampa) dell’art. 403 c.p., Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone.
Il Procuratore capo della Repubblica Enrico Di Nicola, avocando a sé la pratica, decide per la richiesta di archiviazione. La stampa dà notizia di questo esito e delle dichiarazioni del dott. Di Nicola il 29 luglio. Non manca una coda polemica alla decisione della procura; Avvenire è intervenuto con le firme autorevoli dei giuristi Giuseppe Dalla Torre e, appunto, Francesco D’Agostino. Il primo ha sottolineato come l’archiviazione sembri ignorare che la politesse dei rapporti pubblici ha peso rilevante nella salute di una democrazia; il secondo ha sottilmente colto nelle intenzioni della performance il dispregio per la donna, la sessualità feconda, la maternità.
Ma non mancano altre, e rilevanti, implicazioni del piccolo fatto. Solo un paio di anni fa un apprezzato ecclesiasticista laico, Giuseppe Casuscelli, giudicava risolta “l’annosa vicenda” della punizione della bestemmia ex art.724 c.p. con gli interventi della Corte Costituzionale; risolta se non nel merito tecnico nella sua rilevanza pubblica (G. Casuscelli, Il crocifisso nelle scuole: neutralità dello Stato e “regola della precauzione”, in www.olir.it / luglio 2005). Del reato di vilipendio alla religione, nonché della sua incidenza nel costume e nell’ordinamento, si era già persa ogni eco e “smarrito il conclamato rilievo”.
Sospetto che l’autore si augurasse un destino simile per la ancor più tormentata vicenda del Crocifisso; d’altronde un amico che è del mestiere dichiara spesso che molti ecclesiasticisti lavorano per dissolvere l’oggetto della loro professione, ossia tentano di segare il ramo su cui sono seduti. Ma le cose si incaricano, per dire così, di smentire previsioni e speranze: le reazioni alla vicenda bolognese e alle motivazioni (sommariamente note) del provvedimento contraddicono opportunamente l’ottimismo secolarizzante di Casuscelli. Perché opportunamente? Perché l’approssimazione concettuale con cui la cultura giuridica italiana (ed europea, in effetti) tratta da decenni le realtà religiose non deve essere sottovalutata. Imbarazzante in sé, la cosa diviene intollerabile quando gli interventi a tutela del principio di uguaglianza in materia di religione, che questa approssimazione escogita, si risolvano in vere ferite al sentire cattolico e, per questa strada, a quello di ogni tradizione religiosa.
Al fine di valutare la denuncia il dott. Di Nicola si era chiesto dove porre la Madonna: è importante saperlo, per la tutela del Suo buon nome. Dai brandelli di dichiarazioni alla stampa il Procuratore, e l’aggiunto, dott. Luigi Persico, sembrano argomentare ad hoc, ora con riferimento agli art. 402-405 c.p. (delitti contro il sentimento religioso mediante vilipendio a persone o cose), ora all’art. 724 c.p. che, entro la disciplina delle contravvenzioni, circoscrive (ormai) la bestemmia al solo caso di offesa alla divinità. Gli art. 403 e 724 notoriamente costituivano polarità disarmoniche.
Ma quello che più conta è che, con la sentenza n.400/1995 della Corte Costituzionale, è stata dichiarata l’illegittimità incostituzionale della precedente estensione della tutela penale ex art. 724 a “la Divinità o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato”. Dunque: se la Madonna non è cosa o persona (il legislatore intende anzitutto i ministri del culto) ex art. 403 e 404, né è Divinità, ex art. 724, l’offesa portata alla sua figura non è punibile. Anzi se tale sanzione vi fosse, ci viene fatto capire, risulterebbe cosa assai antidemocratica. Penso che di questo la Beata Vergine si sarà stupita, per un attimo.
Va riconosciuto che nonostante la sentenza del 1995 il Procuratore ha voluto approfondire; ha cercato nella santità un’ancora di salvezza per la Madonna, ma non l’ha trovata. “Per il Codice la bestemmia è tale solo se indirizzata a santità o divinità e la Madonna, per i teologi, non rientra in nessuna di queste categorie” (Corriere della Sera del 29 luglio u.s.). Neppure santa. Sembra che non sia stato ben illuminato dai teologi. È vero, la teologia non è più quella un tempo; nell’offerta teologica c’è di tutto, bisogna scegliere, e le etichette sui prodotti non sono sempre chiare. Per questo, anche (e fuori di ironia), appare desiderabile il rinnovato legame istituzionale tra Facoltà Teologiche (vere) e sistema universitario pubblico che il Patriarca Angelo Scola ha, di recente, autorevolmente auspicato.
Che dire? Può darsi che vi sia difficoltà ad orientarsi nella grandezza del mistero mariano, che pure è intessuto di eventi vivificanti da sempre accessibili ai simpliciores; la poesia e l’arte cristiana vi hanno spontaneamente attinto senza pause.
In quella che viene ritenuta la preghiera mariana più antica (Egitto, papiro del III sec.) la Madre di Dio nella sua sovraeminenza è invocata come “la sola santa [mone agné] e la benedetta”. Oggi il Messale di Paolo VI (1970) colloca le feste mariane nel Proprio dei santi. Il Missale romanum raggruppava le messe per le diverse festività in messe in onore di Nostro Signore, in onore di Maria Vergine, in onore dei Santi. La sua santità peculiare, unica, la pone vicino al Figlio. E quale prossimità! San Bernardo era abbagliato dal saluto dell’Angelo: “il Signore è con te”. In una delle omelie sul Missus est (cioè su Luca 1, 26-38) leggiamo: “Se [Dio] è con tutti i santi, è con Maria in modo speciale, perché tra Dio e Maria l’accordo è stato così totale che Dio ha unito a sé non solo la volontà di Lei ma la sua carne, e della propria sostanza e di quella della Vergine ha fatto un solo Cristo”.
Gerard Mainley Hopkins, gesuita e uno dei massimi poeti di lingua inglese, con profondità classica annotava, in una predica del 1879, che Maria è “luogo sacro, vaso di grazia, che Dio non elargisce direttamente, ma tiene in serbo in lei e da cui attinge ogni volta che ve ne sia bisogno”. Maria è, stupendamente, come la madia del Signore. Hopkins altrove celebra Maria come “l’aria che respiriamo”, “colei che ha solo questo compito – / far trasparire tutta la gloria di Dio,/ la gloria di Dio che l’attraversa/ e da lei si effonde,/ solo così e non per altra via” (trad. Viola Papetti).
Il Concilio, nel capitolo ottavo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa (De Beata Maria virgine deipara in mysterio Christi et Ecclesiae), di cui la teologia neoterica ha fin dimenticato l’esistenza, afferma (n.53) che, figlia prediletta del Padre e dimora [sacrarium] dello Spirito santo, [Maria, la Genitrix Dei] “per questo dono straordinario di grazia precede di gran lunga tutte le altre creature celesti e terrestri; ma allo stesso tempo resta congiunta in stirpe Adam con tutti gli uomini bisognosi di essere salvati, anzi è ‘veramente madre delle membra [di Cristo]’” cioè dei fedeli membra di Cristo in Ecclesia. Inoltre “la maternità di Maria nell’ordine della grazia perdura ininterrotta (…). Assunta in cielo, ella non ha deposto questa sua funzione di salvezza [salutiferum munus]”, quello che la dottrina della corredenzione considera il suo concorso salvifico all’opera della nostra redenzione obiettiva.
Nella rivelazione cristiana, dunque, Maria non è marginale all’operare divino, ne è un interno nesso e, dal lato dell’umanità, l’evento più alto. Per la Procura di Bologna (con almeno un precedente, credo, nell’ordinanza del 6/11/1996 della Pretura di Avezzano) Maria diviene un quid irrilevante; un bene secondario di un’economia di credenze, cose e persone religiose che può essere lasciato al libero commercium e al pubblico ludibrio, come si dice. Tali inferenze suonano obiettivamente assurde e persino risibili (se non irridenti), molto debolmente protette dalla tecnicità della logica giuridica. Il diritto, per legittimare la sua pretesa regolativa, non può “fingere” la realtà cui si indirizza.
Ma, si osserverà, un magistrato non può avere queste competenze. Non faccia allora il teologo, non nell’esercizio della giurisdizione; insomma sileat in munere alieno, taccia su ciò che non gli compete. Indipendentemente dall’esistenza o meno di una sua esplicita tutela penale, definire ciò che è suscettibile di blasphemia può essere solo competenza del sistema religioso. Se poi vi è tutela essa deve corrispondere a quanto il sistema religioso de quo indica. Pare evidente che i cosiddetti limiti di sindacato giurisdizionale verso le religioni non riguardino solo i fatti disciplinari; essi si definiscono a maggior ragione di fronte ai dati dogmatici e ai loro assunti di realtà.
Ma non sta qui il dato più sintomatico della piccola vicenda. Conta di più che il magistrato neppure avverta quanto la pretenziosa e (solo per lui) decisiva dicotomia tra divinità e persone/cose venerate (semplicemente l’orizzonte del Sacro!) sia inidonea a dare conto di un ordinamento religioso o di una struttura teologica. Perché la cultura giuridica si è cacciata in questo vicolo cieco? Dirò francamente: per aver subordinato ogni altra istanza e criterio a quelli della astratta “preminenza del principio costituzionale di eguaglianza in materia di religione”.
Il vicolo cieco risale, a mio avviso, alla mossa teorica adottata dal Giudice delle leggi nella già ricordata sentenza n.440/1995. Un primo passo era già stato compiuto dalla Suprema corte nel 1958, di fatto confermando meritevole di tutela penale la religione cattolica non come tale, però, ma in quanto religione professata dalla quasi totalità dei cittadini italiani; ovvero in virtù della “ maggior ampiezza e intensità delle reazioni sociali naturalmente suscitate dalle offese ad essa dirette”. Criterio ben ragionato; sennonché il bene protetto, per dire così, non era più l’ordinamento religioso come tale (e come tale prezioso per la comunità nazionale) ma la comunità stessa. Quindici anni dopo la sentenza CCost n.14/1973 avrebbe contratto l’oggetto della tutela penale al “sentimento religioso”; la ratio della tutela si diluiva conseguentemente ed estendeva ad ogni espressione di detto “sentimento”, anche minoritaria e atipica. Non vi erano però, come la Corte stessa sottolineava, quadri legislativi idonei ad affrontare la nuova situazione.
Su tali premesse di decostruzione e diluizione nel 1995 la Consulta tentava di rimediare alla disparità di disciplina nella tutela del sentimento religioso degli italiani, senza per questo caducare, come si dice, la sanzione penale, per quanto in essa vi era di valore da proteggere. Se l’impegno della Consulta a conservare una disciplina della materia resta lodevole, e responsabile, la soluzione adottata nel 1995 mi appare disastrosa. Dal troppo stringato paragrafo finale della sentenza emerge tutta la difficoltà, o l’imbarazzo, della Consulta nel comporre la tutela di un bene religioso con l’istanza di non discriminazione a favore della religione cattolica. Così, nel tentativo di individuare ciò che nell’art. 724 c.p. risultava lesivo del principio di eguaglianza si procedeva a distinguere tra (a) offesa alla divinità, nozione per la sua indeterminatezza e (presunta) universalità incapace di implicare una nota discriminatoria, e (b) offesa a persone o simboli, caratterizzata invece dalla inevitabile “riconducibilità a questa o quella religione”, quindi suscettibile di cadere sotto la censura di incostituzionalità.
Sfuggiva alla Consulta la conseguenza di questo perseguire la bestemmia purché “depurata del suo riferimento ad un sola fede religiosa”? Eppure avrebbe dovuto essere evidente che, per ottenere questo risultato “non discriminatorio”, il bene tutelato veniva reso eccentrico ad ogni fede positiva. Anzi estraneo, poiché non esiste fede in una divinità “depurata” di tratti caratterizzanti, di quei tratti che sono per l’appunto il canone e il cuore di quella Rivelazione per cui quella fede esiste.
Detto in altri termini la bestemmia era resa pressoché introvabile, forse inesistente. Non suscettibile di vilipendio la Beata Vergine né peraltro il profeta Muhammad o il Buddha. Suscettibile forse di vilipendio Gesù,sempre fatta salva la possibilità per l’imputato di produrre a proprio favore dei teologi cristiani disposti a dichiarare la natura non divina del Cristo.
Si era insinuata nella cultura della Corte Costituzionale, con effetti prescrittivi, la distinzione anzi opposizione, propria dei cristianesimi liberali e modernistici, tra gli elementi etico-religiosi del messaggio di Gesù, da considerare alto patrimonio universale, e le credenze e gli istituti religiosi determinati, inferiori per il loro particolarismo. Tale distinzione, storicamente praticata come strumento di lotta dalle culture della tolleranza, è teologicamente e fenomenologicamente illegittima (anzi, scientificamente inconsistente), e ottiene non da oggi effetti perversi. Operando sul terreno dei valori ultimi essa impone alla cultura pubblica un modello di religione, oscillante tra deismo e agnosticismo, che mentre celebra l’indeterminata divinità opera come strumento ideologico, con sperimentati effetti giuridici, per espellere e trattenere fuori dalla sfera pubblica le religioni positive.
È per questo (magari inconfessato) obiettivo che il giudice, con l’avallo della suprema Corte, esorcizza oggi en théologien la complessità, non insondabile peraltro, del dato religioso positivo?