In Cina c’è ancora l’inferno terrestre

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Gli orrori dei laogai i lager cinesi
Milioni di persone schiave nei lager socialisti.
Dove l’unica via di fuga è il suicidio


“Il Vescovo di San Marino Montefeltro sente il gravissimo
dovere di coscienza di invitare tutti i Fedeli alla lettura
di questa agghiacciante testimonianza. Che Dio non maledica
una società in cui avvengono fatti come questi”
+ Luigi Vescovo
21-11-2005

Mani curate, cravatta rossa e una certezza: l’economia
cinese è basata sullo schiavismo.
Harry Wu vuole parlarci dei suoi diciannove anni rinchiuso
in un laogai.
Ci guarda mestamente: “Devi prima capire che cos’è davvero
un laogai”.
E noi credevamo di saperlo: sono dei campi di rieducazione
voluti da Mao Zedong che hanno accolto non meno di cinquanta
milioni di persone dalla loro costituzione, praticamente
l’Italia intera; si è calcolato che non esista un cinese che
non conosca almeno una persona che vi è stata soggiogata.
È una detenzione che non prevede processo, non prevede
imputazione, tantomeno esame o riesame giudiziario o
possibilità di confrontarsi con un’autorità.
La decisione di rinchiuderti è a totale discrezione del
Partito.

“Ma loro” dice “per definirti usano la parola prodotto, e il
primo prodotto sei tu, quello che devi diventare: un nuovo
socialista. Il secondo è un prodotto vero e proprio, tipo
scarpe, vestiti, spezie, tessuti, qualsiasi cosa. Ogni
laogai ha due nomi: quello del centro di detenzione e quello
della fabbrica. Tu devi affrontare una quota di lavoro
quotidiano, sino a 18 ore, sennò non ti danno da mangiare.
Spesso devi lavorare in condizioni pericolose, come nelle
miniere, con prodotti chimici tossici”.
Una pausa, scuote la testa:
“Ma neppure questo, in realtà, è il laogai”.
È come se Harry Wu, cinese fuggito negli Usa, non volesse
parlare di sé.

Eppure è presidente della Laogai Research Foundation, è una
prova vivente, fu arrestato a ventidue anni dopo che
all’università, leggendo un giornale assieme ad altri
studenti, aveva semplicemente criticato l’appoggio cinese
all’invasione sovietica di Budapest.
Delazione.
Manette.
Nessun tribunale, nessuna prova o indizio, nessuna accusa
precisa se non quella d’essere un cattolico e un
rivoluzionario di destra.

“Il primo giorno, a Chejang, mi dissero che per potermi
rieducare sarebbe occorso molto tempo. Poi mi spiegarono che
non avrei neppure potuto pregare né sostenere di essere una
persona: perché mi avrebbero punito o ucciso. Mi obbligarono
a confessare delle presunte colpe dopo aver costretto alla
confessione anche mio padre mio fratello, la mia fidanzata.
Solo mia madre rifiutò di farlo. Sono stato molto orgoglioso
di lei. Non ha confessato perché si è suicidata”.

“I primi due o tre anni”, racconta Harry Wu, “pensi alla tua
ragazza, alla tua famiglia, alla libertà, alla dignità: poi
non pensi più a niente. Perdi ogni dimensione, entri in un
tunnel scuro. Preghi di nascosto. In un laogai non ci sono
eroi che possano sopravvivere: a meno di suicidarti o farti
torturare a morte. Scariche elettriche. Pestaggi manuali o
con i manganelli. L’utilizzo doloroso di manette ai polsi e
alle caviglie. La sospensione per le braccia. La privazione
del cibo e del sonno. Questo ho visto, e così è stato per
preti, vescovi cattolici, monaci tibetani”.

Ci mostra la foto di un vescovo di 33 anni, e ancora altre
foto in sequenza che nessun quotidiano o rotocalco potrà mai
riportare: uomini e ragazzi inginocchiati, una ragazzina
immobilizzata da due soldati mentre un terzo le punta il
fucile alla nuca, una foto successiva in cui è spalmata a
terra con il cranio orribilmente esploso.
Poi un filmato. È un dvd curato dall’associazione, e
dovrebbero vietarlo ai minori e agli occidentali in affari
con la Cina: esecuzioni seriali, di massa, i condannati
inginocchiati, prima la fucilata e poi lo stivale premuto
forte sullo stomaco per controllare che morte sia stata, un
ufficiale di partito che per sincerarsene usa una sbarra
d’acciaio, e anche di questo qualcosa sapevamo, ma come
dire: il video, un video.

Sapevamo pure delle fucilazioni e delle camere mobili di
esecuzione: furgoni modificati che raggiungono direttamente
il luogo dell’esecuzione con il condannato legato con
cinghie a un lettino di metallo, il tutto controllato da un
monitor accanto al posto di guida.
Poi via, si riparte verso altre esecuzioni da effettuarsi
pochi minuti dopo l’emissione della condanna a morte.

Noi sapevamo che la maggior parte delle condanne è
pronunciata in stadi e piazze davanti a folle gigantesche, e
che le cose, in Cina, sono tornate a peggiorare dal 2003,
laddove ogni anno vengono giustiziati più individui che in
tutti i Paesi del mondo messi insieme.

“Nel 1984, dopo un articolo di Newsweek, smisero di portare
i morti in giro per le strade come pubblico esempio”, ci
dice, “ma dal 1989 hanno ricominciato, e i familiari devono
pagare le spese per le pallottole e per la cremazione”.
E la faccenda degli organi?
“Le autorità prelevano gli organi dei condannati a morte in
quanto appartengono ufficialmente allo Stato. I trapianti
sono effettuati sotto supervisione governativa: il costo è
inferiore del 30 per cento rispetto alla media, e ne
beneficiano cinesi privilegiati e cittadini occidentali e
israeliani”.

E la faccenda dei cosmetici fatti con la pelle dei morti?
“Dai giustiziati prendono il collagene e altre sostanze che
servono per la produzione di prodotti di bellezza, tutti
destinati al mercato europeo”.
Nel settembre scorso, della pelle di condannati o di feti,
parlò anche un’inchiesta del Guardian: citò la
testimonianza, in particolare, di un ex medico militare
cinese che sosteneva d’aver aiutato un chirurgo a espiantare
gli organi di oltre cento giustiziati, cornee comprese:
senza ovviamente aver prima chiesto il consenso a
chicchessia.
Il chirurgo parcheggiava il suo furgoncino vicino al luogo
delle esecuzioni e, stando alla testimonianza, nel 1995
tolsero la pelle anche a un uomo poi rivelatosi vivo.

“Devi prima capire”, ripete, “che cos’è un laogai”.
Forse sì, forse dobbiamo capire: dobbiamo poterci
raccontare, un giorno, tra vent’anni, che sapevamo.

“I laogai sono parte integrante dell’economia cinese. Le
autorità li considerano delle fonti inesauribili di mano
d’opera gratuita: milioni di persone, rinchiuse, che
costituiscono la popolazione di lavoratori forzati più vasta
del mondo. È un modo supplementare, ma basilare, che ha
fatto volare l’economia: un’economia di schiavitù”.

Il numero dei laogai è imprecisato: è segreto di Stato.
Secondo l’Associazione, dovrebbero essere circa un migliaio.
I prigionieri, se la rieducazione fosse giudicata non
completata, possono essere trattenuti anche dopo la fine
della pena:
“Io avrei dovuto rimanerci per trentaquattro anni, se non
fossi fuggito. Perché avevo delle opinioni. Perché ero
cattolico. Perché ero un uomo. Il 20 novembre compio
vent’anni da uomo libero”.
Ieri.
“E continuerò a lavorare perché la parola laogai entri in
tutti i dizionari, in tutte le lingue. Appena giunto negli
Usa non ne volli parlare per cinque anni, non ci riuscivo,
poi cominciai a vedere che in America la gente parlava
dell’Olocausto, parlava dei gulag, e però a proposito della
Cina parlava solo della Muraglia e del cibo e naturalmente
dell’economia. Ma i laogai, in Cina, esistono da
cinquantacinque anni”.

Ben più, quindi, dei ventisette anni che ci separano dalla
nascita della cosiddetta politica del figlio unico
instaurata nel 1979 da Deng Xiaoping, prassi che ha spinto
milioni di contadini a sbarazzarsi della progenie femminile:
almeno 550mila bambine l’anno secondo l’organizzazione Human
Rights Watch.
Più dei due anni che ci separano dal giro di vite
giudiziario introdotto nel 2003 nel timore che
l’arricchimento potesse portare troppa libertà: laddove le
madri e i familiari delle vittime di Tienanmen sono ancor
oggi perseguitate, e i sindacati proibiti, i minori deceduti
sul lavoro impressionanti per numero, per non dire dei
cosiddetti morti accidentali: prigionieri che precipitano
dai piani alti degli edifici detentivi e che solo il
racconto di pochi scampati ha potuto testimoniare.
A Reporter senza frontiere e ad Amnesty International è
invece toccato il compito di raccontare della rinnovata
abitudine di rinchiudere i dissidenti negli ospedali
psichiatrici, spesso imbottiti di psicofarmaci senza che le
ragioni degli internamenti fossero state neppure
ufficialmente stabilite: accade nel Paese che per un anno e
mezzo riuscì e celare l’epidemia Sars, giacché i dirigenti
cinesi temevano che potesse scoraggiare gli investimenti
occidentali.
Cose delicate.

La Cina cresce sino al 10 per cento annuo e si metterà in
vetrina ai giochi olimpici del 2008: e ci sono da quattro a
sei milioni di persone, rinchiusi nei laogai cinesi, che
stanno lavorando per noi.
Harry Wu domenica mattina è ripartito per Washington.
Doveva incontrare Bush e festeggiare i suoi vent’anni da
uomo libero.
O forse bastava da uomo.