Stratford Caldecott, Il fuoco segreto. La ricerca spirituale di J.R.R. Tolkien, Edizioni Lindau, Torino 2009, pag. 200, euro 19, ISBN 9788871807850
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Si dice che, dopo la Bibbia, l’opera la saga del Signore degli Anelli sia il libro più letto del XX secolo, un’opera che ha attratto persone di tutte le età e di tutte le fedi, in un ampio spettro che va dagli hippies ai tradizionalisti, dai cristiani ai neopagani… Eppure, anche se ancora molti dei lettori non è consapevole di questo aspetto, il suo autore, J.R.R. Tolkien, era un devoto cattolico romano.
Nato nel 1892 in Sud Africa, dove visse fino all’età di tre anni; quindi la madre Mabel portò lui e il fratello nella campagna inglese per motivi di salute. Il padre morì prima della riunione familiare e la madre si convertì al cattolicesimo nel 1900, venendo isolata dal resto della famiglia, costituita da anglicani, battisti e unitariani, e ridotta in povertà. Fu costretta a trasferirsi dalla campagna alla città, dove fu accolta sotto l’ala protettrice di padre Francis Morgan, della Confederazione dell’Oratorio di san Filippo Neri a Birmingham (una comunità religiosa il cui ramo inglese era stato fondato da John Henry Newman cinquant’anni prima). Fu padre Morgan che l’aiutò a prendersi cura della famiglia e le fece da guida spirituale, divenendo tutore del ragazzo alla morte di Mabel per diabete, consumata dalla povertà in cui la famiglia l’aveva lasciata dopo la sua conversione al cattolicesimo
Fu dunque così che Tolkien crebbe sotto la protezione e la guida di un sacerdote cattolico esemplare. Per tutta la vita cercò di frequentare quotidianamente la messa, trovandola una fonte costante di forza e grazia. A 21 anni sposò Edith Bratt non prima che avesse acconsentito a entrare nella Chiesa Cattolica e quindi partì per la Prima Guerra Mondiale. Sopravvisse grazie alla “fortuna” di essere rimpatriato a causa della febbre di trincea. Laureatosi ad Oxford, dove nel 1925 divenne professore di filologia anglosassone e formò il gruppo di lettura dei Kolbitár (Coalbiter, «Mangiacarbone») che si dedicava alle saghe islandesi e che negli anni ‘30 si fuse con gli Inklings (particolarmente importante fu l’amicizia con C.S. Lewis, che si convertì al cristianesimo proprio grazie a Tolkien).
Nel suo approfondito studio, Stratford Caldecott da un lato ripercorre le vicende umane di Tolkien, dall’altro analizza i suoi scritti (privati e pubblici, lettere, saggi e romanzi) dimostrando come la fede fosse fondamentale tanto per la vita quotidiana dello scrittore sudafricano quanto per la comprensione del suo capolavoro letterario: la sua non era una spiritualità pretenziosa, ma piuttosto “quotidiana”, come la spiritualità che troviamo in molti degli autori cattolici più popolari, come Jean-Pierre de Caussade. Gli Hobbit esemplificano questa umiltà e quotidianità che sta al cuore dei suoi scritti.
(Radici Cristiane n. 47 – Ago/Set 2009)
Indice
5 Ringraziamenti
7 Introduzione
IL FUOCO SEGRETO
17 1. L\’albero delle storie
45 2. Una storia grandiosa
73 3. Una presenza nascosta: il cattolicesimo di Tolkien
101 4. Che le cose accadano
131 5. Al di là delle stelle
153 Conclusione. L’impresa di Tolkien
-Appendici
163 Un viaggio archetipo: Tolkien e Jung
171 La filosofia sociale di Tolkien
175 L’ombra di re Artù
181 Miti trasformati
185 Bibliografia
189 Indice dei nomi
Dal libro – Capitolo 1
L’albero delle storie
Tolkien era un esploratore. Le storie a cui dedicò così tanto tempo ed energia sono appunti delle sue spedizioni alla ricerca di un mondo più antico o «interiore». Nel corso degli anni egli aggiunse revisione su revisione, strato su strato, lavorando fino a tarda notte, riempiendo una vastissima tela storica, intrecciando e tessendo tema su tema, finché l’intera raccolta delle sue opere assomigliò a un gigantesco «albero delle storie», simile alle nodose querce che egli amava.
Ora che abbiamo accesso al vasto corpus di racconti incompiuti e rielaborati e di materiale di sfondo, grazie alle fatiche profuse da suo figlio Christopher nei dodici volumi della History of Middle-Earth, possiamo capire appieno quanto tempo ed energia Tolkien dedicò alla scrittura. Se i suoi contemporanei e i suoi colleghi avessero conosciuto le reale portata della sua impresa, ne sarebbero stati scioccati. Ciò che spinse Tolkien a dedicarsi così strenuamente alla sua opera non fu semplicemente l’ossessione di raccontare una storia, ma la credenza che «leggende e miti siano in gran parte fatti di “verità”, e in realtà presentino aspetti della verità che possono essere recepiti solamente sotto questa forma» (L 131). Sapeva di scrivere finzioni, ma allo stesso tempo sentiva che stava raccontando la verità sul mondo per come a lui si rivelava. E questa verità la scopriva scrivendo, attraverso il processo stesso della scrittura. Sostenne sempre di aver avuto la sensazione di registrare ciò che era già «lì», piuttosto che di inventare materiale proprio (L 131); una sensazione che giaceva dietro l’artificio immaginario del «Libro Rosso dei Confini Occidentali» sul quale Il Signore degli Anelli stesso finge di essere basato. In una lettera a Christopher ammise che il racconto sembrava quasi scriversi da solo e a volte prendeva una direzione molto diversa dall’abbozzo preliminare, come se la verità stesse cercando di emergere attraverso di lui (L 91). In un certo senso, dunque, egli credeva realmente a ciò che stava scrivendo. («Esistono dei piani o dei gradi secondari», scrisse in Notion Club Papers.)
Le sue storie non sono ambientate in una galassia lontana o in un altro mondo, ma in questo mondo molto tempo fa. Nella prima stesura di una lettera a un’ammiratrice datata 1971 (L 328), Tolkien racconta di scrivere con grande attenzione per i dettagli, così da creare un «quadro» che sembri contrapposto a uno sfondo illimitato, con infinite estensioni attraverso il tempo e lo spazio. Ogni elemento particolare della storia doveva sembrare appartenere a un corpus letterario molto più vasto e antico, per evocare risonanze simboliche senza le quali non sarebbe riuscito a lanciare il suo incantesimo. Doveva evocare visioni e scorci grandiosi intorno e dietro ogni storia, così come avviene nelle leggende dei popoli nordici e dei celti, ognuna delle quali è giunta fino a noi partendo dal suo straordinario «spazio mitico».
Anche il seguito della stessa lettera è particolarmente interessante, poiché sembra suggerire che, nonostante Tolkien fosse in grado di analizzare in certa misura ciò che stava facendo, il motivo per cui lo faceva e il modo in cui otteneva gli effetti letterari desiderati, allo stesso tempo era estremamente sconcertato da ciò che gli era stato dato – cioè percepiva il fatto che un mistero fosse all’opera. Infatti continua:
Riconsiderando le cose totalmente inattese che hanno fatto seguito alla pubblicazione […] mi sembra che il cielo sempre più oscuro che copriva il nostro mondo si sia improvvisamente squarciato, le nuvole si siano diradate e un sole quasi dimenticato abbia ricominciato a splendere. Come se i Corni della Speranza si siano fatti di nuovo sentire, come all’improvviso li sentì Pipino nel nadir delle fortune dell’occidente. Ma come? E perché?
Questo senso di mistero è approfondito dall’incontro nella vita reale con una figura che Tolkien identifica con Gandalf, un uomo che gli fece visita per discutere di alcuni vecchi quadri che sembravano quasi pensati per illustrare Il Signore degli Anelli, ma che Tolkien non aveva mai visto prima. Dopo una pausa, l’uomo aveva osservato: «Naturalmente Lei non crederà di aver scritto il libro tutto da solo?». Continua Tolkien:
Tale e quale Gandalf! Io ero troppo abituato ai modi di Gandalf per reagire bruscamente o per chiedergli che cosa volesse dire. Penso di aver detto: «No, credo di no». Da allora non sono più stato capace di crederlo. Una conclusione allarmante per un vecchio filologo nei confronti di una cosa che aveva scritto per il proprio godimento. Ma anche una conclusione tale da non inorgoglire chiunque si renda conto dell’imperfezione degli «strumenti prescelti» e di quella che a volte sembra una deprecabile inidoneità per gli scopi prefissati.
Uno «strumento prescelto»? Non voglio rischiare di darle troppa importanza, ma la lettera è illuminante. Pare che Tolkien sentisse come suo dovere suonare il corno della speranza in un mondo che andava oscurandosi, e quelle migliaia di lettori che fanno continuo ritorno al libro e al film per rinfrancarsi un po’ l’anima forse concordano con lui. Si tratta di una storia che ci dice cose che abbiamo bisogno di sapere. Non può essere capita tutta subito. È una di quelle storie nelle quali bisogna crescervi dentro, storie che hanno a che fare con il modo in cui è fatto il mondo, e con il modo in cui è fatto il proprio sé. Queste storie sono come i sogni, ma sogni che possono essere condivisi da un’intera cultura; sogni universali che restaurano l’equilibrio della psiche volgendo le nostre energie e i nostri pensieri verso la verità; sogni che somigliano a un’oasi nel deserto. Leggerli può costituire una meditazione. Ma perché è così? È questa la domanda alla quale voglio rispondere.
Il Salone del Fuoco
J.R.R. Tolkien nacque a Bloemfontein, in Sud Africa, nel 1892, dove visse fino all’età di tre anni. Poi, per motivi di salute, la madre Mabel riportò lui e il fratello in Inghilterra, stabilendosi in un bell’angolo dello Warwickshire rurale. Suo padre, Arthur Tolkien, avrebbe dovuto raggiungerli successivamente, ma morì prima che la famiglia potesse riunirsi.
Quando Mabel divenne cattolica romana, nel 1900, fu isolata dalla sua famiglia, costituita da anglicani, battisti e unitariani, e ridotta in povertà. Fu costretta a trasferirsi dalla campagna alla città, dove fu accolta sotto l’ala protettrice di padre Francis Morgan, della Confederazione dell’Oratorio di san Filippo Neri a Birmingham (una comunità religiosa il cui ramo inglese era stato fondato da John Henry Newman cinquant’anni prima). Fu padre Morgan che l’aiutò a prendersi cura della famiglia e le fece da guida spirituale.
Tolkien aveva solo dodici anni quando la madre morì di diabete, consumata (scrisse egli stesso in seguito) dalla povertà che era conseguenza diretta della sua conversione al cattolicesimo, e padre Morgan divenne tutore del ragazzo. Fu dunque così che Tolkien crebbe sotto la protezione e la guida di un sacerdote cattolico esemplare. Per tutta la vita cercò di frequentare quotidianamente la messa, trovandola una fonte costante di forza e grazia.
Dunque, la storia della vita di Tolkien potrebbe essere presentata sotto tre titoli principali. Il primo potrebbe essere Romanzo d’amore. Egli si innamorò all’età di 16 anni della diciannovenne Edith Bratt, ma il suo tutore-sacerdote non gli consentì di chiedere la mano della ragazza che cinque anni dopo. A quel tempo Edith aveva acconsentito a entrare nella Chiesa cattolica, e i due si sposarono a Warwick appena prima che Tolkien partisse con i Lancashire Fusiliers per combattere contro i tedeschi nella prima guerra mondiale. Solo quando tornò poterono vivere felicemente come marito e moglie. L’immagine che egli aveva di lei fu sempre quella della bella giovane che danza fra gli abeti nella radura di una foresta vicino a Roos, nello Yorkshire, nei pressi del campo militare in cui era stanziato nel 1917. Questa immagine è anche uno dei semi della sua opera, perché divenne l’incontro fra il suo eroe Beren e la principessa degli Elfi, Lúthien – riecheggiato anche nella storia di Aragorn e Arwen, che Tolkien considerava un elemento vitale del racconto, anche se la espose soprattutto nelle appendici a Il Signore degli Anelli.
Il secondo titolo, quindi, potrebbe essere Guerra. I primissimi esordi scritti della mitologia sono datati intorno al 1914, anno in cui la Gran Bretagna entrò nella prima guerra mondiale (anche se Tolkien poté finire i suoi studi a Oxford nel 1915, prima di dedicarsi all’addestramento militare). Egli sopravvisse alla guerra grazie alla «fortuna» di essere stato mandato indietro dalla Somme a causa della febbre di trincea. Quando si riprese scrisse il primo intenso frammento del Silmarillion, La caduta di Gondolin. La maggior parte dei suoi amici restarono uccisi nel giro di pochi anni, ed egli si scoprì pieno di rispetto e soggezione per l’eroismo del soldato semplice inglese. Quell’eroismo troverà la sua strada nel Signore degli Anelli attraverso i personaggi degli Hobbit, e soprattutto nella figura di Sam Gamgee. Pubblicata nel 1954-1955, l’intera opera è un tributo allo spirito degli uomini comuni e modesti che morirono per il loro paese nella Grande Guerra, e fu in gran parte composta durante la seconda guerra mondiale, davanti al male quasi demoniaco scatenato sul mondo da Adolf Hitler.
Il terzo titolo è Oxford, dove nel 1925 Tolkien divenne professore di filologia anglosassone e formò il gruppo di lettura dei Kolbitár (Coalbiter, «Mangiacarbone») che si dedicava alle saghe islandesi e che in seguito, negli anni ’30, si fuse – o incorporò – gli Inklings. Non c’è rischio di sovrastimare l’influenza di questa compagnia letteraria nella sua vita reale; è più che evidente, infatti, che senza di essa gli sarebbero mancati anche l’incoraggiamento e la fiducia per continuare. Soprattutto l’amicizia di Clive Staple Lewis, che si convertì al cristianesimo con il contributo di Tolkien, svolse un ruolo cruciale, come quella di George Sayer, che, in un certo momento, ravvivò la sua determinazione a cercare un editore.
Via via che la fama di Lewis e di Tolkien si diffondeva nel mondo, vennero scritte tante cose sugli Inklings, non da ultimo un importante studio a opera di Humphrey Carpenter, biografo di Tolkien. Non cercherò nemmeno di riassumerlo qui: come per quanto riguarda i dettagli sulla vita di Tolkien, i dati e i fatti sono a disposizione di chiunque sia interessato. Tolkien ebbe una certa influenza sulla conversione di Lewis al cristianesimo, anche se forse quest’ultimo non superò mai in modo adeguato i suoi pregiudizi di nativo dell’Ulster per diventare un cattolico. Gli altri appartenenti al gruppo erano un insieme di persone ancora più variegate, da Charles Williams, anglicano conservatore con idee mistiche e in un certo senso non ortodosse sull’amore e sulla magia, a Owen Barfield, l’antroposofista che s’interessava di linguaggio ed evoluzione della coscienza. Chiunque vivesse a Oxford e frequentasse i pub dove si riunivano, avrebbe potuto assistere a questa scena: pinte di birra avvolte nel fumo, conversazioni ad alta voce (soprattutto di Lewis), antichi linguaggi, recitazione di frammenti di storie e nuove poesie, interruzioni frequenti, commenti critici, e risate.
A volte penso agli Inklings quando leggo la descrizione del «Salone del Fuoco» di Elrond, a Gran Burrone, perché è lì che si sarebbero trovati maggiormente a casa. Il salone fu un elemento costante nella scrittura di Tolkien, e fece la sua prima apparizione come «Stanza del Fuoco di Ceppo» in una storia scritta nel 1916-1917 intitolata La casetta del gioco perduto, dove «le antiche storie, le vecchie canzoni e la musica elfica sono gelosamente custodite e ripetute».
È facile idealizzare gli Inklings, ma la realtà spesso era piuttosto noiosa, con la sua bella dose di frustrazione e debolezza umana. I membri andavano e venivano, e alla fine anche Tolkien e Lewis in un certo senso litigarono, in parte a causa del matrimonio di Lewis con una divorziata, sul quale Tolkien, devoto cattolico, aveva da ridire. Forse, come sostiene qualcuno, potrebbe esserci stata della gelosia da parte di Tolkien per il successo apparentemente facile di Lewis con le storie di Narnia, che riteneva troppo rozze e allegoriche (L 265), e per l’amicizia di Lewis con Charles Williams (e questo per sua stessa ammissione, L 252, 257, 259).
Ciò nonostante, l’amicizia all’interno della «fratellanza» era vera e profonda, e furono molti i momenti di intensa comunione, che di certo superarono le tensioni occasionali. Lewis non smise mai di lodare l’opera di Tolkien, anche durante i periodi di allontanamento fra i due, e da parte sua Tolkien rimase profondamente scosso dalla morte dell’amico nel 1963: «Questo colpo è come un’accetta che mi abbia colpito vicino alle radici. È molto triste che negli ultimi anni ci siamo allontanati tanto; ma i tempi in cui eravamo più vicini restano nel ricordo di entrambi» (L 251). Per molti anni, Lewis era stato l’unico pubblico di Tolkien per quello che avrebbe potuto rimanere solo un passatempo privato (L 276).
Tuttavia, anche se Il Signore degli Anelli può essere dipeso dall’incoraggiamento di Lewis (oltre che dal successo della storia per bambini Lo Hobbit), la vita segreta che l’avrebbe alimentato aveva già avuto il suo inizio prima che gli Inklings iniziassero a leggere l’uno all’altro i propri scritti al Bird and Baby, e molto prima che Tolkien scrivesse i famosi saggi accademici che costituiscono la sintesi della sua concezione della letteratura, Beowulf: i mostri e i critici (1936) e Sulle fiabe (1939). Ed era all’opera anche prima della guerra, che lo segnò in modo permanente con l’esperienza diretta del male e della sofferenza supremi. I semi di questa vita segreta risalgono alla sua infanzia, soprattutto ai felici giorni passati a giocare con il fratello Hilary nella campagna intorno a Sarehole (che ispirò la Contea degli Hobbit), e ai suggerimenti di «bellezza e maestà» ricevuti dalla Messa cattolica.