Card. Carlo Caffarra
Il vangelo della vita nella cultura moderna
1. Vorrei iniziare col dire molto semplicemente quale è il nucleo essenziale del Vangelo della vita. Mi servo di un testo di Giovanni Paolo II. «Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del creatore, se ha meritato di avere un tanto nobile e grande redentore, se Dio ha dato il suo Figlio, affinché egli, l’uomo, non muoia ma abbia la vita eterna? In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore e alla dignità dell’uomo si chiama evangelo, cioè la buona novella. Si chiama anche cristianesimo». [Lett. Enc. Redemptor hominis 10; EE 8, 28-29].
Il Vangelo della vita è la bella notizia che Dio si prende cura di ogni uomo. E questa è la dimensione oggettiva, il suo contenuto espresso fin dalle prime professioni di fede nella formula: “per noi” [pro nobis – υπερ εμ?υ]. Accolta dall’uomo, ritenuta mediante la fede assolutamente vera, quella bella notizia produce nella coscienza dell’uomo non solo lode a Dio piena di gratitudine, ma anche un «profondo stupore riguardo al valore e alla dignità dell’uomo». E’ questa la dimensione soggettiva del Vangelo della vita, il suo contenuto propriamente antropologico.
Lo stupore è la principale – Aristotele pensava fosse l’unica – sorgente della conoscenza. Lo stupore, che l’uomo vive riguardo a se stesso ogni volta che gli viene detta la bella notizia, lo spinge ad interrogarsi circa se stesso, a chiedersi: “ma, alla fine, che cosa è l’uomo perché Dio se ne prenda cura fino a questo punto?” La domanda sull’uomo quindi si trova sempre al centro della riflessione cristiana, della fides quaerens intellectum, poiché è intrinseca alla riflessione cristiana sul mistero di Dio e sul mistero della Incarnazione.
Fin dall’inizio delle Confessioni, Agostino esprime questa tensione bi-polare. Da una parte egli si vede, e pensa l’uomo, come aliqua portio creaturae tuae [una particella, un frammento dell’universo: la stessa esperienza espressa mirabilmente da G. Leopardi in «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia»]; ma dall’altra vede in sé, in ogni uomo, il desiderio di lodare Dio: et tamen laudare te vult homo, aliqua portio creaturae tuae [e tuttavia vuole lodarti] [cfr. Confessioni Libro primo, 1,1].
Non voglio ora percorrere, neppure per sommi capi il percorso della scoperta che l’uomo è andato facendo di se stesso, per rispondere alla domanda: “ma chi sono per essere preso in cura da Dio stesso fino a questo punto?”. La risposta in fondo è la seguente: Dio si prende cura speciale di questa «portio aliqua creaturae suae» perché ha voluto l’uomo per Sé; lo ha destinato ed orientato a vivere eternamente con Lui. Le altre realtà create, singolarmente prese o nel loro insieme, non esistono per questo scopo. E pertanto Dio non si cura di loro colla stessa intensità con cui si cura dell’uomo.
Egli «attribuisce una tutt’altra importanza (…) al mio piccolo io come ad ogni altro io, per piccolo che sia, poiché vuole rendere questo io eternamente beato, se il singolo è così compiacente di entrare nel cristianesimo»
[S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, Introduzione; in Opere, Sansoni ed., Firenze 1972, 268].
Nel testo che ho citato sopra, Agostino scrive: «sei tu che lo stimoli a provare gioia nel lodarti, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non trova riposo in te». Fate bene attenzione. Non registrate questo testo, molto famoso, con quei pre-giudizi interpretativi derivati dalla nostra coscienza ammalata di psicologismo. L’affermazione del cor inquietum non ha principalmente significato psicologico, ma ontologico. Denota chi è l’uomo; denota la soggettività metafisica dell’uomo: un essere fatto da un altro, che può realizzarsi pienamente solo in Dio. S. Tommaso dirà «capax Summi Boni» [=capace di possedere il Sommo Bene] [cfr. 1, q. 93, a. 2].
Sempre nelle Confessioni, Agostino esprimerà lo stesso pensiero in modo ancora più suggestivo «Tu mostri a sufficienza quanto grande abbia fatto la creatura razionale, alla quale, per avere pace e felicità, non basta nulla che sia meno di Te, e quindi non basta a se stessa» [Libro XIII 8, 9]
Dio si prende cura dell’uomo perché lo chiama, lo desidera come suo compagno, amico con cui condividere la sua eterna beatitudine e la sua vita divina.
La scoperta del senso, del fine dell’esserci dell’uomo coimplica la scoperta delle condizioni strutturali dell’uomo. Se l’uomo deve raggiungere quel fine, deve essere fatto in un certo modo: deve essere adeguato, proporzionato allo scopo. Che cosa significa tutto questo? Significa essere persona: solo la persona è tale da poter essere orientata ad un tale scopo. Essa infatti è soggetto – capace di conoscere ed amare – incorruttibile ed eterno, cioè spirituale.
Tommaso quindi concluderà: «la persona indica ciò che di più perfetto esiste in tutta la natura, la sussistenza in una natura razionale» [1, q. 29, a. 3]. Cioè: non si può essere più che una persona. Il grande dottore della Chiesa scrive che «se Dio si è fatto uomo è stato per istruirci della dignità della natura umana» [3, q. 1, a. 2].
In questa percezione dell’incomparabile perfezione della persona sono state viste due verità implicate.
La prima: l’uguaglianza quanto all’essere fra le persone umane. Non si può essere persona più di un’altra. La dignità ontologica di ogni persona umana è identica.
La seconda: essendo ciò che di più perfetto esiste, nessuna persona umana è ordinata ad un bene creato, come mezzo verso il fine o parte in funzione del tutto. Ogni persona umana è una realtà che precede lo Stato, e lo trascende. Ogni persona umana trascende l’intero universo creato sia nel suo aspetto materiale sia nella sua organizzazione sociale.
2. Nella storia dell’Occidente è accaduto un evento spirituale sul quale non rifletteremo mai abbastanza. Comincio col descriverlo con un esempio. Immaginiamo un roveto ardente. Da esso escono tante scintille, che si staccano dal roveto, senza che a lungo andare si spenga a causa di questo.
Il Vangelo della vita, vero roveto ardente acceso nella coscienza dell’Occidente, ha sprigionato alcune scintille, che pur avendo avuto origine dal roveto, hanno vissuto di vita propria.
La prima e più importante scintilla è stata la scoperta dell’uomo come persona, come un soggetto di incomparabile dignità.
La scoperta della persona, sprigionatasi dal Vangelo della vita, ha generato poi una cultura politica, nella quale si sono riconosciuti anche coloro che, pur non avendo accolto nella fede il Vangelo della vita, sono guidati da un uso retto della ragione. In parole più semplici: il Vangelo della vita ha generato la democrazia occidentale.
Intendo democrazia non in senso meramente procedurale, ma sostanziale: la democrazia come riconoscimento della precedenza e superiorità della persona sullo stato; affermazione politica della dignità di ogni persona, della conseguente uguaglianza di ciascuna a ciascuna e non ordinabilità delle medesime ad un tutto ritenuto superiore.
Non è possibile seguire tutto il percorso di questo processo culturale. Mi limito ad accennare solo ad un particolare di non secondaria importanza.
Uno degli aspetti più travagliati di questo processo è stata la faticosa determinazione del criterio scriminante fra l’essere persona ed il non-essere persona.
Via via furono superati vari criteri: l’appartenenza ad una classe sociale piuttosto che un’altra [si pensi alla distinzione schiavi-liberi]; l’appartenenza ad una razza piuttosto che un’altra; la “funzionalità sociale” [attitudine verso l’ammalato]; ed altro ancora. Questo travaglio non è ancora finito. Ma la posizione più personalista è giunta alla conclusione seguente: essere persona coincide coll’essere un individuo appartenente alla specie umana. Nulla di più e nulla di meno è richiesto. E’ questa oggi la vera battaglia per l’affermazione della persona: esiste un solo criterio per distinguere chi è persona e chi non è persona, l’appartenenza biologica al genere umano.
Molte sono le argomentazione per dimostrare questa affermazione. Mi limito, per brevità, ad una sola.
Se oltre al fatto biologico, il riconoscimento della persona esigesse una qualità ulteriore, anche i diritti conseguenti allo statuto di persona dipenderebbero dalla qualità suddetta, sarebbe condizionati da essa. Ora chi decide quale deve essere questa qualità? Ovviamente, con una procedura o altra, sarebbe la comunità umana già costituita. Ne deriverebbe che i diritti fondamentali della persona sarebbero condizionati dalla generosa concessione di altri. Ma i diritti umani fondamentali non vengono conferiti o concessi, ma rivendicati da ciascuno con uguale forza cogente.
«I diritti delle persone sono in generale diritti incondizionati soltanto quando essi non vengono fatti dipendere dall’adempimento di qualche condizione qualitativa, della cui esistenza decidono coloro che sono già membri della comunità giuridica» [R. Spaemann, Persone, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, 241].
Una considerazione, prima di procedere, sulla quale ora non ho tempo di fermarmi. Lo scardinamento del concetto di generazione e quindi di genealogia, quali si ha là dove si riconosce il carattere coniugale alla convivenza omosessuale, può a lungo termine essere devastante sulla identificazione della persona mediante il criterio della appartenenza biologica al genus humanum. E quindi sulla fondazione dei diritti incondizionati di ogni persona.
3. Abbiamo finora fatto, in sostanza, tre affermazioni: (A) il Vangelo ha generato nell’uomo la coscienza di essere “qualcuno” e non semplicemente “qualcosa” di incomparabile dignità; (B) questo fatto spirituale ha prodotto la categoria metafisica, etica, e giuridica di persona, base delle nostre democrazie occidentali. (C) Questa categoria, vero primum metaphysicum- primum ethicum – primum juridicum, benché partita dal Vangelo, si è mostrata come condivisibile da ogni retta ragione.
Ma che cosa è accaduto in Occidente? Il seguente evento culturale. Poiché la categoria di persona è pensabile senza la divina Rivelazione, cioè senza la fede; poiché essa è opus rationis et non fidei, è possibile costruire un humanum, un sociale umano fondato sul primato della persona, anche prescindendo o negando Dio. In ordine alla custodia del primato della persona, è del tutto irrilevante l’esistenza di Dio, ed il rapporto della persona con Dio medesimo.
Una tale progettazione era destinata al fallimento, per due ragioni fondamentali, le quali poi sono le due strade che il fallimento ha percorso e sta percorrendo.
La prima. La persona è radicata nella natura. Anzi, abbiamo detto che è un fatto biologico il criterio di appartenenza di qualcuno alla comunità di persone.
Tuttavia se scompare dalla coscienza umana l’idea di creazione, la persona non potrà che ridursi ad essere il risultato fortuito, casuale di forze impersonali. Non solo, ma soprattutto, essa non godrà di nessuna sporgenza, trascendenza nei confronti della natura, come oggi la ricerca neurologica mira a dimostrare.
La seconda. La persona diventa consapevole della sua dignità in ragione del referente con cui è relazione. Se un mandriano passasse tutto il suo tempo con le mucche, egli si “sentirebbe persona” a riguardo delle mucche. E’ una misura ben limitata. Se una persona ha a che fare con persone socialmente importanti [è chiamato spesso da loro; ne chiedono i consigli…], egli si “sentirebbe persona” in misura ben superiore.
Possiamo dunque dire: la misura della coscienza di essere persona è data dai suoi referenti. Se il referente è infinito, cioè è Dio, la dignità ha una qualche infinità; se il referente è sempre ed esclusivamente limitato, la persona non avrà mai coscienza della sua intera verità. E pertanto sarà sempre esposta al gioco di forze impersonali e del potere. Conferma: il secolo più irreligioso, il secolo XX, ha conosciuto le due più tremende dittature, quella nazional-socialista e quella comunista.
La cultura occidentale in cui viviamo si trova dunque in questa condizione: vive su affermazioni di cui nega i presupposti.
Come si può uscire da questa situazione? Papa Francesco lo va dicendo ogni giorno: la Chiesa deve uscire dalle sagrestie ed evangelizzare il Vangelo della vita. Solo in questo modo si attizza continuamente il fuoco di quel roveto dal quale parte la scintilla dell’affermazione della dignità incomparabile di ogni persona.
In questo modo i credenti, evangelizzando, aiutano anche coloro che vedono colla loro ragione la dignità di ogni persona, e pur non credendo, non negano la rilevanza della fede cristiana.
Ma questo discorso è un po’ generico. La testimonianza al Vangelo della vita è particolarmente inequivocabile, – direi: è pura testimonianza – quando è affermata la dignità incomparabile di quella persona umana che può esibire un solo titolo di riconoscimento: l’appartenenza biologica al genere umano. La persona umana già concepita e non ancora nata si trova in questa condizione. Le minoranze che rendono questa testimonianza, in pubblico; che custodiscono dentro la città la certezza del primato della persona, impediscono che siano erosi le fondamenta di ogni edificio sociale che non voglia imbarbarirsi.
«Il frammento evangelico suscitò e suscita nel cuore dell’uomo questa irrefrenabile esigenza di dignità» [Gaudium et spes, 26; EV 1, 1482].
Potrei riassumere tutto ciò che ho detto con un profondo aforisma di Gomez Davila: «ciò che non è persona in fondo non è nulla» [In margine ad un testo implicito, Adelphi Edizioni, Milano 2001, 88].