Gli idoli della ragione generano mostri

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Rino Cammilleri , I mostri della ragione. 2.
Viaggio tra i deliri di utopisti rivoluzionari,
2ª ed., Ares 2005, Euro 18,00, pp. 256


http://www.rinocammilleri.it/

Invito alla lettura di Vittorio Messori

Il titolo di questo libro è un evidente rovesciamento della
frase (troppo acriticamente ripetuta) che sta sotto la
celebre incisione di Goya: «Il sonno della ragione genera
mostri». Come le pagine che seguono confermano ad
abundantiam, può essere vero il contrario. Così, del resto,
la storia ha sempre mostrato: sono certe «veglie» della
Ragione (soprattutto quando è pensata e scritta con la
maiuscola) a partorire mostri. E spesso terribili per
inesausta sete di sangue.
L’insofferenza per il mondo com’è, il sogno di come potrebbe
essere perfetto se organizzato «secondo ragione»,
accompagnano da sempre gli uomini. Anche l’antichità
classica si cimentò in celebri opere «utopistiche»: ma a
differenza di quanto sarebbe poi successo nei secoli
«moderni» nessuno pensò di tradurre, o di lasciar tradurre
in pratica quei progetti, considerati come pure astrazioni,
come una sorta di elegante quanto innocua ginnastica
mentale. Neppure il cristianesimo «autentico» si prefisse di
costruire -qui e ora – «il mondo perfetto»: cuore della
speranza cristiana è sì l’attesa di «terre nuove e cieli
nuovi», ma proiettati alla fine della storia. Secondo la
sapiente legge (che è soprattutto segreto «cattolico») dell’et-et,
il cristianesimo, alla spinta ideale, alla proposta del
meglio, affiancò sempre il realismo, con la sua comprensione
e l’accettazione presente dell’uomo concreto.
Fare del mondo un monastero dove tutti praticassero tutte le
virtù equivarrebbe a trasformarlo in un’ immensa prigione,
dove ciò che si potrebbe ottenere sarebbe al massimo il
trionfo dell’ipocrisia. Questo, per fortuna, ha sempre
creduto la Chiesa cattolica, che pure ha generato dal suo
seno (a ogni generazione, e con una costanza straordinaria)
degli «istituti di perfezione»: ordini, congregazioni,
compagnie, dove uomini e donne vivono «l’utopia», tentano di
anticipare nel mondo ciò che sarà finalmente norma quando il
mondo medesimo e la sua storia saranno consumati.
Ma non a caso si è sempre parlato di «vocazione»: occorre
essere vocati, è indispensabile una «chiamata» divina,
misteriosa e individuale, per mettersi su questa via tanto
im-pervia e rischiosa da essere circondata da mille cautele
codificate. Vaglio minuzioso delle «regole», approvazioni ad
experimentum, sorveglianza continua, esortazioni a
moltiplicare l’impegno spirituale e ascetico sino all’eroismo:
tut-to questo per non ricadere nella condizione dell’«uomo
naturale» sempre in agguato. Non a caso la storia di questi
istituti è storia di continue riforme per tornare all’ideale.
Prima dell’ inquinamento da ideologie post-cristiane
(soprattutto nella versione della vulgata marxista), almeno
nel-la sua versione cattolica il cristianesimo ha sempre
avuto ben chiaro che ci è stato promesso un solo paradiso: e
non per questa terra. Per dirla con Cammilleri, «la Chiesa
ha sempre predicato all’uomo come dovrebbe essere, ma
cominciando con l’accettarlo come è».
Così che, come è stato osservato, la sapienza evangelica e
insieme umanissima che presiedeva, nei seminari, alla
formazione degli uomini di pastorale, dei sacerdoti «in cura
d’anime», raccomandava di essere araldi di utopia e di
intransigenza sul pulpito e al contempo misericordiosi e
comprensivi nel confessionale, confrontandosi con la
debolezza della creatura concreta.
Quanto agli uomini organizzati in società, è significativo
che la Chiesa non si sia mai espressa con dichiarazioni
autoritative, sacralizzando un modo di governo, una
struttura politica rispetto ad altre: possono esserci state,
negli uomini di Chiesa, delle preferenze, determinate da
condizioni storiche; ma nessuna presa di posizione de fide.
Un affidarsi «cattolico», anche qui, al pragmatismo
realistico che ben sapeva, assai prima di Machiavelli, che
non esiste – nella cosa pubblica – «piano», per quanto
attraente e studiato, che, applicato a un problema, non crei
necessariamente altri problemi. Il solo modo davvero
cristiano per rispondere al dovere di cercare di rendere il
più ordinata e umana, il meno ingiusta possibile, la
convivenza sociale è il puntare non sull’esterno, ma sull’interno
dell’uomo: tentare di renderli davvero cristiani – uno a
uno – e, dunque, aperti all’amore, alla solidarietà, alle
virtù anche di buon cittadino.
Con la fuoriuscita, spesso polemica, dalla tradizione
cristiana – a partire dal XVIII secolo – prima dell’intellighenzia
occidentale e poi via via di settori sociali sempre
crescenti, alla prospettiva di fede, con la sua concretezza
attenta «all’uomo quale davvero è», si sostituisce l’astrattezza
della ideologia. «L’uomo quale dovrebbe essere». Nel chiuso
dei loro cabinets de travail o nello scintillio mondano dei
salotti, si muovono i primi rappresentanti di una nuova,
temibile categoria: quella degli «intellettuali». Coloro,
dunque, che, immemori della complessità umana, non usano che
di una sola facoltà : «l’intelletto», la «ragione», e questa
tendono a sostituire alla fede, sino al punto di attribuirle
attributi divini e ad adorarla sotto le navate delle
cattedrali dalle quali è stata finalmente cacciata la
superstizione oscurantista di una «rivelazione» irrazionale
e irragionevole. Assurda e dannosa a cominciare dalla radice
stessa di quell’oscurantismo: la credenza nel peccato; e in
quello «originale» in particolare. Se l’uomo è spesso
infelice, se la società è disorganizzata e ingiusta, se
liberté-egalité-fra-ternité non presiedono ai rapporti tra
le persone, non è certo per qualche risibile causa
teologica: è mancato un «piano steso secondo ragione»; non
si è permesso ai «filosofi» di legiferare, non si è affidato
il governo agli «esperti», agli «intellettuali», ai
«migliori»; a coloro, insomma, che in tutto sanno di doversi
adeguare alle categorie razionali. E a quelle soltanto,
senza sciocchi rispetti per tradizioni, costumi, credenze,
«superate» dai lumi.
Purtroppo, quel XVIII secolo si chiuse con un avvenimento
che la Provvidenza aveva sino ad allora risparmiato all’umanità:
a discorsi, libri, sogni, piani – restati sino a quel
momento le divagazioni teoriche che dicevamo, sin dall’antichità
– fu data la possibilità di farsi storia concreta. In quel
fatale 1789, tra Versailles e Parigi, gli «amici dell’umanità»,
i tedofori della ragione per la prima volta poterono mettere
in pratica i loro begli schemi.
Cominciò così il martirologio della modernità. Da allora
sino a oggi, il bilancio di quelle ideologie venute a
sostituire «l’irrazionalismo religioso» è drammaticamente
monotono. Sempre, senza alcuna eccezione, i paradisi in
terra promessi dal «piano» pensato a tavolino si sono
trasformati in ben concreti inferni nella pratica. Sempre,
in nome della «fraternità», si è giunti al Terrore, non di
rado al genocidio. E per un meccanismo tanto semplice quanto
implacabile: l’utopia da intellettuale, così impeccabile e
attraente sulla carta, applicata – con le buone, ma spesso
con le cattive – alla carne viva dell’ umanità mostra subito
la sua astrattezza, la sua incapacità di far posto alla
complessità del reale. Ma se la teoria non funziona nei
fatti, gli «ideologi» non ne deducono l’inadeguatezza, ma ne
traggono un minaccio-so: «Ebbene, tanto peggio per i fatti».
Così l’utopia perde subito i suoi aspetti «umanistici» e
mansueti, radicalizzandosi e divenendo oppressiva: «Sii mio
fratello o muori!». Le prigioni cominciano ad aprirsi per
gli «asociali», cioè per coloro che non ce la fanno, come
tutti, ma osano dirlo, ad adeguarsi a un modello così
teorico e, dunque, disumano, di società. Ma poiché nessuna
repressione basta, e tutto il meccanismo si inceppa sempre
più – a cominciare, di solito, dal lato economico, ma anche
da quello etico, morale: che è carissimo tra tutti al cuore
di ogni utopista – ecco sorgere l’ossessione del complotto:
la teoria è perfetta; volente o nolente (a parte le frange
«asociali», già castigate come meritano) la gente cerca di
praticarla, anche perché la polizia vigila. Se le cose non
funzionano, se anzi peggiorano sempre più, la colpa è delle
«quinte colonne», è dei sabotatori interni, è dei nemici
esterni, è delle oscure forze della reazione, è del mondo
che muore che non si rassegna al nuovo. Da qui purghe,
epurazioni, lager e gulag = il Terrore.
È’ la parabola tragica che ha accompagnato la modernità e
che è costata così spesso sangue; sempre, delusioni cocenti,
sperpero di energie e di intelligenze, rovesciamento delle
attese (per limitarci all’ ultima, impressionante,
ubriacatura da utopie e da «piani per un mondo diverso» –
quella del Sessantotto – si è forse dimenticato che i mitici
«giovani» di allora sono diventati, vent’anni dopo, la
generazione dei quarantenni più sfacciatamente «edonisti»,
forse i meno «sociali» del secolo, i «rampanti» degli anni
Ottanta e del boom economico dell’era reaganiana?).
La facciamo corta, anche perché non vorremmo togliere al
lettore che si fosse ingolfato nella lettura di queste
nostre righe introduttive la possibilità di cominciare
subito la lettura delle pagine di Rino Cammilleri. Singolare
figura di convertito a un cattolicesimo militante e «tosto»,
che non teme di ricordare agli interlocutori le ragioni
della sua fede, alla cui luce giudica l’uomo e la storia
(cosa che, chissà perché, è tenuta per intollerabilmente
«apologetica», «poco dialogica ed ecumenica» da non pochi
«intellettuali» clericali di oggi), già noto per altre opere
non allineate alla vulgata anche cattolica attuale (I santi
militari, per esempio) Cammilleri ci sembra avere fatto qui
opera assai utile e al contempo leggibile.
Difficile annoiarsi su pagine come quelle che seguono,
gremite di personaggi singolari e inquietanti, di «affondo»
in teorie, schemi, utopie curiose e impensabili; su pagine
che non temono la riflessione «morale», in una prospettiva
sanamente e limpidamente cattolica che non dimentica an-che
la benedetta virtù dello humour. C’è, qui, da imparare e da
riflettere, non solo senza tediarsi, ma scoprendosi non di
rado con il sorriso sulle labbra. Buon modo, insomma, per
esorcizzare le sempre rinnovantesi tentazioni di utopie
sociali (quas Deus a nobis avertat!) che fermentano in
quelle inesauribili fucine di miti che sono il cuore e la
testa dell’uomo. E che sono da tenere a bada più che mai
dopo la fine della christianitas, se è giustificato – come
la storia dimostra – l’ammonimento di Karl Barth: «Quando il
cielo si vuota di Dio, la terra si riempie di idoli».
«Idoli», cioè «mostri», partoriti dal ventre oscuro di una
ragione che, da dono prezioso del Creatore, è stata
trasformata in una Ragione, con la maiuscola, che ha preteso
di prendere il posto stesso di Dio, gettandone tra le
«superstizioni» la Rivelazione. Con quei risultati sui
quali ci ammonisce, implacabile, la storia degli ultimi due
secoli; ma anche, purtroppo, la cronaca dei nostri giorni.
Cammilleri ci propone un viaggio curioso tra incubi dal
volto spesso tentatore di sirene; «viaggio», questo, che può
essere anche un buon vaccino. Varrà la pena di approfittarne
per non confondere la Speranza, quella vera e che non delude
(così, almeno, crede il cristiano) con le «speranze di
carta» di utopisti, riformatori, rivoluzionari, spesso le
prime vittime di quanto nato dai loro progetti di «rendere
felice l’umanità». Che lo voglia o no; con le buone o con le
cattive.