(Diocesi Milano) Martino: LA POSIZIONE DELLA CHIESA SULLA PACE

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PACEM IN TERRIS LA POSIZIONE DELLA CHIESA SULLA PACE
Milano, 16 marzo 2003

PREMESSA

Sarebbe certamente banale e riduttivo evocare l’enciclica «Pacem in terris», nel quarantesimo anniversario della sua promulgazione, solo per trovarvi un’analogia tra la drammaticità della situazione dei primi anni Sessanta e quella attuale. Si tratta di un’enciclica che certamente può fornire importanti indicazioni per un discernimento delle problematiche sociali, in particolare per valutare la qualità attuale delle relazioni tra i popoli, che il Santo Padre considera nello stesso «profondo stato di disordine»[1] in cui erano ai tempi del Suo Beato Predecessore, del quale egli vuole usare persino le stesse parole[2], ma il cui valore, ricchezza e profondità, immutati e riscontrabili ancora oggi, sono da cercare altrove.

Possiamo invitare alla lettura della PT proponendola con Mons. Franco Biffi come: «Una sinfonia della pace in quattro valori e quattro movimenti». È questa la descrizione più sintetica ed efficace sia della struttura del testo (sostanzialmente quattro grandi capitoli), sia dell’«anima» della dottrina sociale della Chiesa (DSC) che sta nei quattro grandi valori sui quali essa si fonda e si costruisce: la verità, la giustizia, l’amore e la libertà. Proprio in virtù di questa articolazione ed elaborazione la PT può parlare della pace da una prospettiva e con una ragionevolezza che colgono nel segno la vera natura non solo della pace, ma anche delle questioni aperte in tema di conflitti e in relazione alle loro cause.

Prima di affermare che è un inno alla pace, è opportuno presentare questa enciclica come un inno alla persona umana, ai suoi diritti e doveri, alla sua dignità. «La dignità della persona umana è il fondamento della pace»: è questa l’affermazione più ricorrente nella PT. Ed è appunto da questa prospettiva e valenza culturale-antropologica che si sviluppa e si precisa il valore dell’enciclica e tutta la successiva DSC, della quale la PT costituisce un momento evolutivo fondamentale ed imprescindibile.

Anche di fronte alla situazione internazionale di quell’apparentemente lontano 1963, che domandava pace (la possiamo ricordare solo per cenni: la costruzione del muro di Berlino, la guerra fredda, la crisi cubana…), la risposta dell’enciclica non fu certo limitata ad un vago appello o ad una sentimentale esortazione alla pace. Seppe cogliere invece la radice della questione e proporne la soluzione indicandola nel rispetto della dignità della persona umana. Questo rispetto consiste nell’attuare, vivere, vivificare nella società i grandi valori della verità, della giustizia, dell’amore – o carità – e della libertà. Solo nella ricerca, nell’attuazione e nella condivisione di questi valori è possibile offrire un futuro dignitoso a tutto l’uomo e a tutti gli uomini. Solo così è possibile affrontare tutte le questioni sociali aperte – a partire dal bene comune universale sino alle tematiche della partecipazione, della democrazia, della divisione dei poteri – e trovare indicazioni ed elementi di soluzione.

Anticipando le conclusioni del Concilio Vaticano II e operando così la svolta decisiva che imprimerà nuovi dinamismi e fecondità teologica e culturale (di ciò beneficerà enormemente la DSC), la PT, nella fedeltà alla Tradizione e alla dottrina cattolica, traduce quello che fino ad allora era insegnato e difeso come «primato della Verità», nel primato della persona umana. È la prospettiva che Giovanni Paolo II rilancerà nella sua enciclica programmatica Redemptor hominis mediante la felice espressione: «L’uomo via della Chiesa» (n.14). La Verità di Dio ora viene proposta ed insegnata soprattutto indicando l’uomo – la persona umana – la sua centralità, e la sua storicità come luogo e ambito della salvezza che Dio vuole operare. La portata di questa nuova prospettiva cristologica ed antropologica produrrà – per offrire soltanto un esempio – la sostituzione del metodo deduttivo con quello che definisco metodo del discernimento[3]: ci si concentra non tanto nell’applicazione dei principi, dai quali l’agire si ricava per via deduttiva, quanto piuttosto sulla ricerca di cogliere la presenza efficace di Dio nella storia per comprendere la Sua volontà ed impegnarsi per la realizzazione del Regno. Si passa appunto dal dedurre al discernere, significativamente sostenuto dalla prospettiva teologica, secondo il metodo del «vedere, giudicare, agire» (Lett. enc. , 217).

Non pretendo, con questa mia riflessione, di esaurire l’ampia gamma di intuizioni, contenuti, riflessioni, giudizi e valutazioni che la PT offre copiosamente. Cercherò soltanto di effettuare alcune sottolineature nel testo dell’enciclica per ricavarne preziose indicazioni, oggi quanto mai attuali ed importanti, per delineare la posizione della Chiesa sulla pace.

Pace e rispetto dell’ordine voluto da Dio

Già le prime parole dell’Introduzione della PT ci aiutano a scoprire la specificità e la portata del messaggio che caratterizza tutto il documento: «La Pace in terra… può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio»[4]. La pace è la realizzazione di questo stesso ordine che corrisponde al disegno di Dio sul mondo. Immediatamente dopo, esaltando il valore dell’uomo e delle sue capacità, espresse anche attraverso i progressi della scienza e della tecnica, il testo ci offre una importante prospettiva affermando: «la grandezza dell’uomo, che scopre tale ordine e crea gli strumenti idonei per impadronirsi di quelle forze [quelle che compongono l’universo] e volgerle al suo servizio»[5].Abbiamo qui due direttrici di riflessione di grande importanza per comprendere la posizione della Chiesa sulla pace.

La prima prende avvio dal riferimento veritativo al quale si àncora la riflessione teologica sulla Creazione: c’è un ordine, c’è un ordine voluto da Dio, c’è un progetto divino che si rivela nella natura del mondo. Pace significa allora comprendere questo progetto, questo disegno, rispettarlo e realizzarlo.

Non meno importante la seconda direttrice: il concetto di pace, ossia di ordine desiderato e proposto da Dio, è connotato dalla dinamicità. L’uomo, dotato di intelligenza, capace di gestire il creato e le sue risorse, è chiamato a scoprire, a cercare e a comprendere questo progetto. Potremmo dire che è questa la vocazione dell’uomo, in quanto essere razionale, chiamato, quando si esprime a livello sociale, a realizzare se stesso mentre riconosce progressivamente questo ordine e progetta in vari modi di perfezionarlo, rispettandolo nella sua natura intima e ultima. Tra pace e compimento umano c’è dunque un legame intrinseco sia per quanto riguarda l’obiettivo essenziale dello sforzo umano, che è produrre la pace ossia sviluppo autentico, sia per quanto riguarda la dimensione esistenziale umana, nella quale produrre la pace ossia sviluppo autentico significa rispondere all’autentica vocazione della persona umana.

In questa prospettiva risulta chiaro il significato della posizione della Chiesa, che non è pacifista, ma pacificatrice. È questo il senso e il valore delle parole che Giovanni Paolo II ha pronunciato in questo frangente storico, parole che si elevano ben al di sopra degli slogan di un certo pacifismo o a quelli del movimento contrario, entrambi seriamente a rischio di deriva ideologica e di unilateralismi.

Pace non è assenza di guerra; non è nemmeno essere contro qualcuno che vuole la guerra; non è in nessun caso difesa preventiva, perché mai si devono colpire presunti o veri nemici prima di essere colpiti. La pace è il risultato di una ricerca, di un darsi da fare, di un mettersi all’opera per comprendere chi siamo realmente, qual è il nostro vero bene, nella consapevolezza, che da sempre proviene dal Magistero della Chiesa, del fatto che l’uomo è capace di bene ed è stato messo in grado di giungere alla Verità, seppure nella contingenza della storia.

Questa consapevolezza ha un grande valore se pensiamo all’attuale dibattito tra mondo cattolico e mondo laico a proposito di etica. Come spesso è accaduto, anche oggi si chiede ai cattolici impegnati nella cultura e in ambito politico di deporre i propri convincimenti religiosi per impegnarsi più efficacemente – secondo una presunta laicità – nel dibattito sociale. Anche oggi i cattolici sono accusati di voler imporre i propri principi etici alla società, di una sorta di fondamentalismo religioso (questo peccato di ingerenza è stato spesso attribuito anche al Santo Padre, come se al Papa non fosse concesso, come a tutti, di esprimere il proprio pensiero) e di non condividere con gli altri un luogo in cui la verità deve rimanere assente, perché affermarla significherebbe minare alla radice il pluralismo e il diritto di cittadinanza delle singole opzioni: la condicio sine qua non affinché tutti possano portare la loro verità è che nulla sia vero[6]. La Verità che la Chiesa porta, invece, è la Verità di Cristo. È una Verità che non chiede di essere imposta, ma che si offre, ricca di duemila anni di storia, di sofferenza, di carità… e di studio. La Chiesa desidera testimoniare Cristo offrendo un aiuto, un contributo, un servizio e la propria ragionevolezza nel proporre, senza alcuna imposizione, valori e criteri per il bene dell’uomo. Lo spirito di servizio con cui la Chiesa realizza tali interventi è stato presentato da Paolo VI nel Discorso che fece all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1965: la Chiesa “non ha alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere con voi; non abbiamo infatti alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chiedere, quello di potervi servire,…con disinteresse, con umiltà e amore”[7].

Il dinamismo, la progressività della ricerca della pace, che ho sottolineato poc’anzi, sono i tratti essenziali del contributo, prezioso, che la Chiesa può offrire all’umanità: si tratta di cercare insieme e costruire insieme la pace, nel qui ed ora della contingenza, una pace che risponda pienamente alle esigenze richieste dal rispetto della dignità di tutto l’uomo e di ogni uomo. Solo da un tale rispetto, reso efficace, pratico e praticabile possono derivare esiti benefici per l’uomo e per i popoli. Tutto ciò è ribadito e ulteriormente chiarito nella PT. Da questa enciclica proviene l’insegnamento che la «convivenza umana deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale»[8] perché l’ordine tra gli esseri umani nella convivenza «è di natura morale»[9]. Ciò significa che le soluzioni ai problemi relativi alla convivenza non si possono trovare negli accorgimenti di tecnica politica e non. Solo se l’uomo cerca il progetto divino di pace – anzi, proprio nel riconoscere che c’è in lui questa vocazione alla pace, e che è necessario comprenderla – può realizzare se stesso. Tutto ciò richiede, oltre all’intelligenza, la sensibilità personale, la parte migliore di ciascuna persona, ossia la capacità di dono, di amore, di buona volontà.

La pace e i valori della convivenza umana

Un ulteriore arricchimento alla posizione della Chiesa sulla pace ci viene dall’indicazione della PT dei quattro valori che stanno a fondamento della convivenza umana: verità, giustizia, carità (o amore) e libertà. Il Santo Padre Giovanni Paolo II li ha riproposti nel Suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno, fornendo per ciascuno di essi una puntuale definizione che risulta utilissima per comprendere il significato della proposta cristiana sul tema della pace: “La verità sarà fondamento della pace, se ogni individuo con onestà prenderà coscienza, oltre che dei propri diritti, anche dei propri doveri verso gli altri. La giustizia edificherà la pace, se ciascuno concretamente rispetterà i diritti altrui e si sforzerà di adempiere pienamente i propri doveri verso gli altri. L’amore sarà fermento di pace, se la gente sentirà i bisogni degli altri come propri e condividerà con gli altri ciò che possiede, a cominciare dai valori dello spirito. La libertà infine alimenterà la pace e la farà fruttificare se, nella scelta dei mezzi per raggiungerla, gli individui seguiranno la ragione e si assumeranno con coraggio la responsabilità delle proprie azioni” (n. 3).

Tali valori non devono essere disgiunti e non possono essere compresi e tanto meno vissuti separatamente, ossia non può esserci verità senza giustizia, carità e libertà. Ritengo sia opportuno soffermarmi brevemente sul significato di questi valori, di queste quattro parole: «verità», «giustizia», «carità», «libertà», che al giorno d’oggi, in qualche modo, non hanno più un significato pienamente condiviso per l’uso e più spesso l’abuso così frequente da far perdere ad essi rilevanza e forza comunicativa.

Oltre la verità, , che ho appena considerato, abbiamo dunque la giustizia. Con il termine giustizia non si intende l’obbedienza ad una norma o il semplice rispetto di un diritto: si vuole altresì indicare che ogni azione è eticamente rilevante in positivo quando è volta alla realizzazione della persona ossia all’attuazione della sua verità. Giustizia è allora un insieme di condizioni che permettono di realizzare appieno l’umanità personale in ogni dimensione[10].

Alla giustizia, così intesa, si accompagna la carità, che non è l’occasionale beneficenza quanto il porsi responsabilmente di fronte all’altro per aiutarlo a realizzare la sua umanità. Essa è definita dalla PT come «operante solidarietà» (n. 54). Non tanto allora, come dirà più tardi Giovanni Paolo II, «un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane»[11], quanto piuttosto l’esito a livello comportamentale di una mentalità formata, temprata e voluta. La carità cristiana è la solidarietà che sa rivestire le dimensioni specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione[12].

L’ultimo valore proposto è la libertà. Anche in questo caso occorre superare la definizione corrente o più usata, quella che riduce questo valore al semplice libero arbitrio. Senza porre certamente in discussione la capacità e possibilità di scelta individuali, alla parola libertà si dovrà altresì collegare il dovere di perseguire il bene, ossia la capacità che l’uomo ha di comprendere la verità, di perseguirla, di sceglierla: questa è la risposta che la persona umana è chiamata a dare alla vita e agli altri uomini.

Sotto questo profilo si può ben cogliere l’attualità e l’enorme valenza educativa che da questa concezione di libertà si ricava in tema di corrispondenza e di reciprocità tra diritti e doveri. La nostra cultura, impregnata di individualismo, nella quale la giusta emancipazione di tanti soggetti e la stessa partecipazione alla vita sociale e alle risorse hanno alla fine ottenuto riconoscimento e diffusione, ha finito per dare luogo e spazio ad una forma di arroganza, capace di chiedere solo diritti senza riconoscere i propri doveri. La consapevolezza della loro corrispondenza e reciprocità induce, invece, a riaffermare con fermezza la necessità, da parte di ciascuno, di assumersi le proprie responsabilità, senza cercare scusanti nelle fin troppo facili giustificazioni che derivano dalla ormai consolidata mentalità. Avere un diritto significa avere un corrispondente dovere, ovvero una responsabilità. Se ho il diritto al lavoro ho anche il dovere di lavorare. Se ho il diritto all’assistenza ho anche il dovere di contribuire ad essa, secondo il mio ruolo e la mia posizione nella società. Reciprocità e corrispondenza dei diritti e dei doveri allargano gli orizzonti, ci fanno sentire partecipi e collaboratori, co-protagonisti della continua costruzione del mondo. Il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003 sottolinea questa fondamentale necessità di collegamento tra diritti e doveri: i doveri – spiega il Santo Padre – sono l’ambito entro il quale i diritti non scadono nel libero arbitrio: «Un’osservazione deve ancora essere fatta: la comunità internazionale, che dal 1948 possiede una carta dei diritti della persona umana, ha per lo più trascurato d’insistere adeguatamente sui doveri che ne derivano. In realtà, è il dovere che stabilisce l’ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell’esercizio dell’arbitrio. Una più grande consapevolezza dei doveri umani universali sarebbe di grande beneficio alla causa della pace, perché le fornirebbe la base morale del riconoscimento condiviso di un ordine delle cose che non dipende dalla volontà di un individuo o di un gruppo»[13].

Pace e bene comune internazionale

Tenendo come obiettivi di fondo la centralità della persona umana e la necessità di provvedere al suo autentico sviluppo, Giovanni XXIII si rese conto, con lungimiranza e concretezza, che di fronte a problemi internazionali occorre elaborare proposte di soluzione di eguale ampiezza e dimensioni. L’ideale della pace, infatti, è trattato nell’enciclica «Pacem in terris» in tutta l’accezione positiva che gli proviene dagli approcci biblici e teologici, ma ciò non significa che la riflessione del beato Giovanni XXIII faccia astrazione dal problema delle mediazioni istituzionali e delle trasformazioni politiche e giuridiche che si impongono affinché quell’ideale possa trovare un’efficace trascrizione storica. L’enciclica, infatti, argomenta razionalmente e politicamente sulla necessità della pace, con analisi e riflessioni sullo spreco delle risorse impiegate nella corsa agli armamenti; sulla giustizia sociale in una prospettiva mondiale; sull’interdipendenza dei popoli; sui rapporti di sfruttamento tra Nord e Sud del mondo; sulla necessità di rafforzare le Nazioni Unite; sul diritto dei popoli all’indipendenza. Da questa enciclica proviene anche un incoraggiamento alla responsabilità politica di ampio respiro, sostenuta dalla consapevolezza che la pace non è un sogno irrealizzabile, ma una possibilità oggettiva iscritta nel processo storico. In questa prospettiva desidero richiamare la vostra attenzione su due aspetti qualificanti la posizione della Chiesa sulla pace: il disarmo e la necessità di adeguati poteri pubblici mondiali.

a) Disarmo. La «Pacem in terris» lancia un monito, drammaticamente attuale anche nello scenario internazionale contemporaneo, circa la priorità che deve essere assegnata al disarmo integrale, non solo sul piano delle politiche relative agli armamenti, ma anzitutto a livello culturale: si tratta di smontare «anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si tratti di un obiettivo che può essere conseguito. Giacché esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo, ed è della più alta utilità»[14].
Di fronte al rischio di una guerra nucleare, della distruzione assoluta, l’enciclica sostiene che nella nostra epoca, che si vanta di essere l’era atomica, è alieno dalla ragione considerare ancora la guerra come mezzo idoneo a restaurare i diritti violati[15]. L’enciclica segna, in tal modo, una discontinuità forte e innovativa rispetto alle riflessioni precedenti, dovuta ad una lucida e compiuta consapevolezza della novità della «rivoluzione nucleare». Giovanni XXIII si rende conto del fatto che l’equilibrio del terrore non può corrispondere all’ “insegnamento plurisecolare della Chiesa sulla pace intesa come «tranquillitas ordinis» – «tranquillità dell’ordine», secondo la definizione di Sant’Agostino” [16] e prende posizione a favore del disarmo integrale: è proprio il carattere qualitativamente nuovo della guerra nucleare, con le sue prospettive di sterminio globale, di autodistruzione del genere umano, a rendere inaccettabili il ricorso alla guerra e la stessa possibilità di continuare a considerarla nei termini di extrema ratio.

b) Poteri pubblici mondiali. Già quarant’anni fa, con lucidità e chiara preveggenza, la PT, a fronte dell’inadeguatezza degli Stati nazionali a realizzare il bene comune universale, propose la costituzione di poteri pubblici mondiali mediante un processo democratico, sulla base dei principi di solidarietà e di sussidiarietà. Tale urgenza si è fatta più pressante nell’odierno contesto di globalizzazione, in cui l’autorità degli Stati nazionali appare ancora più fragile, mentre le esigenze del bene comune universale diventano più impellenti.
Pur riconoscendo il notevole progresso compiuto, nei quarant’anni trascorsi dalla pubblicazione della PT, verso la realizzazione della nobile visione di Giovanni XXIII, non sembra meno critico, nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2003), Giovanni Paolo II. Egli scrive: «Non solo la visione precorritrice di Papa Giovanni XXIII, la prospettiva cioè di un’autorità pubblica internazionale a servizio dei diritti umani, della libertà e della pace, non si è ancora interamente realizzata, ma si deve registrare, purtroppo, la non infrequente esitazione della comunità internazionale nel dovere di rispettare e applicare i diritti umani». Poco più avanti aggiunge: “Allo stesso tempo, siamo testimoni dell’affermarsi di una preoccupante forbice tra una serie di nuovi «diritti» promossi nelle società tecnologicamente avanzate e diritti umani elementari che tuttora non vengono soddisfatti soprattutto in situazioni di sottosviluppo: penso, ad esempio, al diritto al cibo, all’acqua potabile, alla casa, all’auto-determinazione e all’indipendenza”[17].

Nell’enucleazione di una figura dei poteri pubblici mondiali sarà quanto mai indispensabile seguire le preziosissime indicazioni offerte dalla PT. Tra queste è di particolare importanza la correlazione tra i contenuti storici del bene comune universale e la configurazione e il funzionamento dei poteri pubblici mondiali. Tale questione è morale prima che strutturale. E al centro devono essere posti la famiglia umana e il bene comune universale a cui essa tende, entrambi considerati in concreto.

Il valore del bene comune universale, nella prospettiva indicata da Giovanni XXIII, deve essere il criterio ispiratore della creatività progettuale e della configurazione più pertinente dei poteri pubblici mondiali: criterio non platonico, ma unico e complesso insieme, come unica, complessa e storicamente connotata è la famiglia umana. «L’ordine morale… – recita la PT – come esige l’autorità pubblica nella convivenza per l’attuazione del bene comune, di conseguenza esige pure che l’autorità a tale scopo sia efficiente. Ciò postula che gli organi nei quali l’autorità prende corpo, diviene operante e persegue il suo fine, siano strutturali e agiscano in maniera da essere idonei a tradurre nella realtà i contenuti nuovi che il bene comune viene assumendo nell’evolversi storico della convivenza» (n. 71).

Diventa urgente, allora, determinare i contenuti del bene comune universale odierno. Guardando ad essi, è possibile intravedere quale possa essere la rete di poteri e di funzioni di cui ha bisogno il mondo. A questo riguardo vi propongo una pagina drammatica del documento del Santo Padre Giovanni Paolo II per il dopo Giubileo : «È possibile che, nel nostro tempo, ci sia ancora chi muore di fame? chi resta condannato all’analfabetismo? chi manca delle cure mediche più elementari? chi non ha una casa in cui ripararsi? Lo scenario della povertà può allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso, all’insidia della droga, all’abbandono nell’età avanzata o nella malattia, all’emarginazione o alla discriminazione sociale. […] E come poi tenerci in disparte di fronte alle prospettive di un dissesto ecologico, che rende inospitali e nemiche dell’uomo vaste aree del pianeta? O rispetto ai problemi della pace, spesso minacciata con l’incubo di guerre catastrofiche? O di fronte al vilipendio dei diritti umani fondamentali di tante persone, specialmente dei bambini?»[18]. Considerando l’obbligatorietà etica e la dimensione storica di tali contenuti, si dovrebbe coerentemente operare la scelta di mezzi adeguati, ossia istituzioni e risorse finanziarie, ma soprattutto l’impegno morale ed educativo, comunitario ed universale. La realizzazione della pace non può prescindere, inoltre, dalla questione della tutela e della promozione della dignità e dei diritti di ogni uomo, connotate storicamente.

Nel contesto internazionale, gli Stati sono chiamati a ripensare e a ridefinire l’autorità da esercitare. A livello locale essa non viene assolutamente meno, specie rispetto ad alcune funzioni, perché i cittadini del mondo, pur godendo oggi di maggiore mobilità, sono esseri corporei, solidali con l’ambiente e con il territorio[19]. In questa prospettiva, tuttavia, riconoscendo la dipendenza dell’autorità dall’ordine morale, che si esprime concretamente mediante le esigenze storiche del bene comune universale, sarà possibile rinunciare ad una concezione ideologica della sovranità. È da considerare, piuttosto, come una realtà al servizio del bene comune universale e indispensabile per la sua realizzazione, a livello locale e mondiale. La sovranità, rispetto all’attuale assetto, può essere ridistribuita tra Stati nazionali ed eventuali entità politiche regionali o mondiali, a seconda delle necessità storiche e secondo procedure democratiche. Le Nazioni possono rinunciare liberamente all’esercizio di alcune prerogative e affidarlo ad una sovranità superiore, in vista del bene umano universale.

In considerazione di tutto questo e in ragione della difesa e della promozione del bene comune, che è universale e particolare insieme, una sovranità superiore può intervenire – secondo i principi della giustizia, della solidarietà e della sussidiarietà – nell’area di una sovranità che si esplica su un piano inferiore. Quando una sovranità nazionale, con gravi atti, come nel caso dell’eliminazione di interi gruppi etnici, religiosi o linguistici, va contro il bene fisico, morale, culturale e religioso delle popolazioni sottoposte alla propria giurisdizione, compie dei crimini contro l’umanità e contro Dio. Ciò autorizza altre autorità, specie quelle superiori, qualora esistano, all’intervento in favore dei gruppi oppressi, sulla base di regole internazionali comuni e certe. Gli argomenti della sovranità nazionale e della non ingerenza non possono essere addotti come pretesto per impedire l’intervento in difesa delle parti aggredite[20].

Pace e impegno sociale dei cattolici

Dalla PT viene un forte e pressante richiamo pastorale: la pace ha bisogno di un convinto e generoso impegno dei cristiani nella società, soprattutto dei fedeli laici. Tale richiamo è stato per certi aspetti recentemente ribadito dalla Nota dottrinale «Circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica», rivolta agli stessi cattolici dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, promulgata lo scorso 16 gennaio (con data del 24 novembre 2002, Solennità di Cristo Re).

Nella PT troviamo soprattutto l’invito a partecipare alla vita politica, il richiamo alla prudenza e alla gradualità e la sollecitazione a coltivare la spiritualità.

a) Per quanto riguarda il tema della partecipazione, la PT valorizza la fondazione teologica dell’impegno politico: i cattolici sono chiamati all’impegno nella vita pubblica per collaborare alla realizzazione del bene comune ossia ad impegnarsi nelle istituzioni affinché esse provvedano alla realizzazione (o perfezionamento) integrale delle persone. Non si tratta dunque di un impegno soltanto gestionale, ma prima ancora di un impegno culturale, da svolgere con un preciso riferimento all’«ordine soprannaturale» (PT n. 76).
L’impegno politico è per i laici un impegno che non va mai disgiunto dalla loro esperienza e vita di fede. Il richiamo della Chiesa non è, infatti, un generico invito ad elargire la propria generosità di tempo ed energie in una sorta di estemporaneo volontariato. La Chiesa, attraverso questo impegno dei laici, svolge anche la sua missione; essa, con l’assistenza dello Spirito Santo, sa discernere il giusto rapporto e dare concretezza alla reciprocità tra evangelizzazione e promozione umana. Di conseguenza, questo impegno, come sostiene la PT e la stessa Nota dottrinale sopra citata, chiede non solo buona volontà, ma anche competenze tecniche e professionali, unitamente a cospicue risorse spirituali.
In questa prospettiva, la PT indica la necessità di una formazione integrale, completa (n. 77-80), affinché l’azione sia vissuta dai cristiani nella loro interiorità come «sintesi di elementi scientifico-tecnico-professionali e di valori spirituali» (n. 78). E non è forse questo il rimedio proposto alla frattura tra la fede professata e la vita quotidiana che soltanto tre anni più tardi i Padri Conciliari stigmatizzarono come uno «tra i più gravi errori del nostro tempo»[21]? Non è questo il seme che germoglierà successivamente, in sede conciliare, quando si affermerà (anche la menzionata Nota torna a ribadirlo) che l’esperienza cristiana – e segnatamente la fede, la speranza e la carità – per chi è impegnato nel sociale, cresce nell’impegno civile? L’appello ad una formazione integrale, ad una formazione che sostenga i credenti ad alimentare la propria fede da vivere nel concreto del lavoro quotidiano e delle problematiche e vicissitudini dell’esistenza, purtroppo cade spesso nel vuoto o comunque non sa sempre trovare adeguate forme di realizzazione.

b) L’impegno sociale e politico dei cattolici deve tener conto inoltre dell’appello alla prudenza e alla gradualità (PT 85-86), così come si evince anche dalla Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede (per richiamare solo il documento più recente). Tale appello non invita certo ad assumere un atteggiamento ozioso e lassista sia sotto il profilo operativo, sia sotto quello etico-dottrinale. Si tratta di operare secondo una legge di gradualità, ma non operando una gradualità della legge. La fermezza che accompagna la difesa e la promozione dei valori cristiani si deve unire alla pazienza, al sacrificio, all’instancabilità del procedere in un lavoro culturale, di dialogo e di confronto, lento ma che, non per questo, si lascia raffreddare nella speranza, anzi sa gioire anche di piccoli ma significativi successi. Si tratta infatti di imparare uno stile dinamico, di costante e aggiornato discernimento, per poter realizzare, nel qui e ora, il miglior bene possibile.

c) L’impegno sociale e politico, l’impegno per la pace ha bisogno di uomini e di donne rinnovati dall’azione dello Spirito. Non si deve credere che la vita spirituale, alimentata soprattutto dalla fede religiosa, sia lontana o addirittura contraria all’impegno concreto per la pace. Essa, in realtà, alimenta i gesti di pace, proprio perché si alimenta dell’amore di Dio. Le situazioni cosiddette concrete non sono mai solo concrete. Esse sono il teatro di un impegno personale che ha bisogno di essere alimentato da una vita spirituale incentrata su Dio. La spiritualità cristiana è così forza primaria di conoscenza del concreto ed elemento di primo piano per la stessa soluzione di molti problemi complessi.

Il papa Giovanni XXIII, nell’enciclica Mater et magistra ricordava infatti che “Qualora si garantisca nelle attività e nelle istituzioni temporali l’apertura ai valori spirituali e ai fini soprannaturali, si rafforza in esse l’efficienza rispetto ai loro fini specifici ed immediati”. Questa osservazione vale anche per la pace. Ecco perché nella visione del Santo Padre Giovanni Paolo II le religioni hanno una importanza fondamentale e, possiamo dire, un ruolo pubblico di primaria importanza nella costruzione della pace. Esse lo possono tanto più adeguatamente svolgere, quanto più si concentrano su quanto è loro proprio: lo sguardo rivolto a Dio e la costruzione di una spiritualità di pace. L’incontro di preghiera per tutte le religioni che il Santo Padre ha promosso il 24 gennaio 2002 ad Assisi aveva questo significato. Lo stesso significato hanno avuto la Giornata di digiuno celebrata il primo giorno di Quaresima il 5 marzo scorso e lo stesso l’insistente invito del papa alla preghiera del Rosario nell’anno dedicato al Rosarium Virginis Mariae.

Conclusione

Il «compito immenso» affidato agli uomini di buona volontà dalla PT, nel capitolo conclusivo, è quello di «ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà» (n. 87). Ricomporre: ossia «ancora una volta mettere insieme». Il richiamo etimologico è quanto mai suggestivo. «sun ballon», ossia simbolo, termine che rimanda a sacramento, e dolorosamente, al suo opposto, «dia-ballon», diavolo, colui che divide. Questo sforzo di ricomposizione attraverso la mediazione culturale, il dialogo e il confronto aperto, è da vivere come un modo di essere e fare sacramento, ossia incarnare qui e ora Cristo, vivente ed operante nella Chiesa, è cercare di esprimere il Suo amore e la Sua Carità.

Vogliamo allora celebrare il quarantennale di questa importante Enciclica desiderando rinnovare la nostra coscienza del dovere che ci compete in quanto cristiani di fare della nostra vita un sacramento: la nostra vita deve diventare strumento e segno efficace della grazia di Dio. Il nostro impegno per la pace, ossia per la realizzazione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini – «pace», l’ebraico «shalom», significa «completezza» – il nostro impegno per il rispetto della dignità umana che si esprime nel rispetto dei diritti e dei doveri, hanno una fondazione teologica e spirituale che deve essere riscoperta e valorizzata, così da diventare alimento spirituale capace di rinnovare le nostre persone nel segno evangelico della giustizia e della pace.

Arcivescovo Renato R. Martino
Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace

[1] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, n. 2.
[2] Cfr. PT 3
[3] Cfr. Congregazione per l’Educazione Cattolica, Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, 30 dicembre 1988, n. 8.
[4] PT, 1
[5] Id.
[6] G. Rusconi, Come se Dio non ci fosse, Einaudi, Torino 2001.
[7] Paolo VI, Discorso all’ONU, 4 ottobre 1965, introd.
[8] PT 19 (edizioni EP)
[9] PT 20 (edizioni EP)
[10] Cfr. sul tema della giustizia: GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, nn. 4-5,7-9,12,14.
[11] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, n. 38.
[12] Cfr. Ivi,n. 40.
[13] Pacem in terris: un impegno permanente. Messaggio di Sua Santità Giovanni Paolo II per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace – 1° gennaio 2003, n. 5, Supplemento a “L’Osservatore Romano” del 18 dicembre 2002, p. III.
[14] Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris, n. 61.
[15] Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris, nn. 59-63.
[16] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003, n. 6.
[17] Giovanni Paolo II, Pacem in terris: un impegno permanente, n. 5.
[18] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 50-51: AAS 93 (2001) 303-304.
[19] «I poteri pubblici della comunità mondiale – scrive Giovanni XXIII nella PT – non hanno lo scopo di limitare la sfera di azione ai poteri pubblici nelle singole comunità politiche e tanto meno di sostituirsi ad essi; hanno invece lo scopo di contribuire alla creazione, su un piano mondiale, di un ambiente nel quale i poteri pubblici delle singole comunità politiche, i rispettivi cittadini e i corpi intermedi possano svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri, esercitare i loro diritti con maggiore sicurezza» (n. 74).
[20] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso al Corpo Diplomatico (16 gennaio 1993) n. 13, in Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Giovanni Paolo II e la famiglia dei popoli. Il Santo Padre al Corpo Diplomatico (1978-2002). Introduzione di S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Città del Vaticano 2002, pp. 232-233.
[21] Cfr. Cost. past. Gaudium et spes, 43.