Dal “centrismo” al Sessantotto

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\"\"AA.VV., Dal “centrismo” al Sessantotto, Ares, Milano, 2007, ISBN: 8881554143, pp. 488, € 24

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Come ha fatto una Nazione cattolica da sempre, culla della Sede Apostolica, patria di santi e faro storico della Cristianità a diventare terra di secolarizzazione preda delle sirene laiciste? In che modo e perchè, in altri termini, un popolo da sempre fedele al Vicario di Cristo ha scelto liberamente, pubblicamente e ripetutamente di rifiutare Dio per volgersi ad altri idoli? E’ questa la domanda a cui hanno cercato di dare risposta, con un’ampia riflessione, diversi studiosi italiani in un convegno su “Milano e l’Italia dal centrismo al Sessantotto. La preparazione di una rivoluzione nella cultura e nel costume” organizzato a Milano dall’Istituto storico dell’Insorgenza e per l’Identità nazionale (ISIIN), l’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’Università degli Studi di Milano dal 30 Novembre al 1° Dicembre 2006 e di cui ora le edizioni Ares pubblicano integralmente gli Atti a cura di Marco Invernizzi e Paolo Martinucci (Dal “Centrismo” al Sessantotto, Milano 2007, pp. 488, € 24).
Un’efficace descrizione del contesto sociale e culturale di quegli anni si trova negli interventi di Sanguinetti e de Leonardis che, descrivendo il primo il versante della politica interna ed il secondo quello della politica estera, sottolineano come il processo che è alla base della diffusione della secolarizzazione di massa in Italia, il cd. “Sessantotto”, sia stato in realtà un passo logico e consequenziale di un percorso iniziato fin dall’Italia del dopoguerra. Sanguinetti nota infatti che “l’Italia del 1958 si caratterizza ancora per un corpo sociale coeso, a prevalente componente rurale, omogeneo culturalmente, dove è tuttora forte la presenza del cattolicesimo, soprattutto nel suo influsso sulle mentalità e sulle scelte individuali e collettive. Un paese dove la trasmissione dei valori e delle credenze si snoda lungo la tradizionale nervatura delle relazioni parentali. Dove l’istituzione scolastica, nonostante le interferenze idealistiche, veicola ancora contenuti di razionalità, di etica e di senso comune”. E’ un lascito dell’Italia che ha sconfitto il fronte socialcomunista nelle elezioni del 18 Aprile 1948, di cui però anzitutto la classe dirigente di allora é pressoché incapace di fare tesoro. Così il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi (1881-1954) non indosserà le istanze dell’Italia ‘profonda’, emersa in quella storica occasione, ma preferirà gestire “l’enorme potere ricevuto in dote lasciando aperta la porta alle forze laiciste”. Il risultato sarà che, di anno in anno, lentamente ma inesorabilmente, la rivoluzione laicista, quella della “cattiva secolarizzazione”, arriverà a penetrare nel tessuto della società minandone definitivamente il collante più sensibile: il senso comune. Sarà un processo che investirà tutti i canali di diffusione: anzitutto i nascenti mezzi di comunicazione di massa, poi le università, le scuole, le piazze. E’ l’epoca in cui il primo “consumismo” (quello dei frigoriferi, delle lavatrici e dei televisori in bianco e nero) si è già affermato e comincia a fare mentalità, a incidere sulle scelte quotidiane dei singoli, delle famiglie e delle comunità, a diventare insomma modello di riferimento condiviso. Al momento in cui si produce “il ‘68” sostiene quindi Sanguinetti, citando lo schema esplicativo del pensiero cattolico che si rifà a Jacques Ploncard d’Assac (1910-2005) e Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), il terreno è già stato seminato e restano solo da raccogliere i frutti. Sarà dunque “una vera e propria frattura con il passato”, più esattamente una “rivoluzione a dominante culturale, in quanto agisce sul piano delle credenze e dei valori e si diffonde per osmosi all’intero corpo sociale”. E’ infatti in quell’anno – e negli avvenimenti rivoluzionari di quell’anno – che “cade o si affievolisce il pregiudizio favorevole verso la tradizione e i suoi organi di trasmissione istituzionali: a livello micro-strutturale la famiglia e, a livello macro, la scuola e la Chiesa”. Si comprende allora perché studiare oggi il fenomeno ’68 assume caratteri decisivi: esso “segna il passaggio dall’omogeneità culturale a quella frantumazione delle credenze e dei valori, che raggiunge oggi il parossismo”. E’ in quel periodo infatti che “alla dismissione del vestito ‘buono’ si accompagna in larga misura quella delle buone maniere a vantaggio di uno spontaneismo nei modi spesso più simile a villania che a schiettezza. Svanisce così in poco tempo un capitale faticosamente accumulato in secoli di educazione, riflesso ultimo dei valori della civilizzazione europea. La speranza cristiana, che sul piano naturale si esprimeva nella consapevolezza dell’imperfezione di questo mondo, si offusca e si secolarizza”.
Motore trainante di questa ondata di disgregazione sono, fra gli altri, i cosiddetti intellettuali che, volentieri, prestano le loro voci alle numerose iniziative di contestazione, spesso molto ambigue. Un’analisi di un personaggio-chiave di questi anni, Norberto Bobbio (1909-2004) è offerta dall’intervento di Roberto de Mattei (Il dopoguerra in italia nell’analisi di Augusto Del Noce e di Norberto Bobbio) che contrappone l’alfiere della cultura laica, ideologo marx-azionista, al principale filosofo cattolico del tempo: Augusto Del Noce (1910-1989). Nei due pensatori riemerge infatti chiara e distinta la divisione dell’Italia del dopoguerra: da una parte chi pensava che la storia e quindi la politica andasse vissuta laic(istic)amente, dall’altra chi riteneva che ci sono dei fondamenti morali, o meglio pre-politici, che orientano l’azione dell’uomo e validi sempre e comunque, al di fuori del contingente. L’opera fondamentale di Del Noce in questo senso è sicuramente Il suicidio della Rivoluzione (1978) in cui il filosofo torinese imposta una serrata critica della mitologia azionista e quindi dell’ideologia progressista sulla base della loro errata impostazione teorica di fondo. “L’errore dell’ideologia azionista e poi progressista, secondo Del Noce, è quello di aver voluto fare della Resistenza non un elemento da situare nella storia, ma il metro della valutazione della storia, non arrivando con ciò alla comprensione storica del fascismo”. Il “male radicale” per Bobbio infatti veniva individuato non tanto nel fascismo, quanto in ogni visione della storia fondata sui valori tradizionali. In realtà sarà proprio la disgregazione intellettuale e morale che ha le sue radici nell’abbandono dei valori tradizionali della società a portare alla crisi nichilista di fine ‘900 che lo stesso Bobbio denuncerà negli ultimi anni della sua vita: di questa crisi, sottolinea de Mattei, “il relativismo marxilluminista è stato il motore”.
Una riflessione molto dettagliata viene poi dedicata da Francesco Pappalardo (L’analisi del laicismo in una pastorale dei vescovi italiani del 1960) al mondo cattolico ed all’azione pastorale della Chiesa italiana in quegli anni. Leggendo oggi gli avvenimenti di allora sorprende la lungimiranza dell’analisi che i vescovi in particolare fecero di quei turbolenti eventi, senza peraltro riscontro di successo nel seguito. Critici verso la guida politica del Paese della DC incapace di “far approvare dal Parlamento leggi che interessavano la vita cristiana, come quella per il contributo alla costruzione di chiese e per la censura della stampa” i prelati italiani pubblicheranno, il 25 marzo 1960 la Lettera al clero sul laicismo che esprimerà già allora una denuncia forte della crisi di morale e di fede che si nascondeva dietro le apparenze del ‘boom’ economico. La Lettera, che porta come prima firma quella del cardinal Giuseppe Siri, presidente della CEI, sarà allora un allarme che pochi comprenderanno salvo poi ricredersi quando la situazione sarà arrivata a un punto di non ritorno. Sorprendono le parole usate dai vescovi per tracciare un quadro della società di allora che, tralasciando la data di pubblicazione, potrebbero benissimo valere per il momento attuale; la mentalità viene ad esempio così descritta: “E’ concessione a un edonismo sempre più esasperato; è sopravvalutazione esclusiva dei valori economici; è contagioso relativismo morale che affascina specialmente le giovani generazioni; è esteriorizzazione della vita così sbandata, che quasi spegne nell’anima la possibilità della riflessione sulle realtà più serie e decreta un assurdo trionfo alle realtà più effimere e banali”. Più avanti si legge: “Alla radice di queste deviazioni vi è quella diffusa mentalità attuale che va sotto il nome di ‘laicismo’”, ovvero “l’errore fondamentale, in cui sono contenuti in radice tutti gli altri, in un’infinità di derivazioni e di sfumature”. Il laicismo insomma, apre le porte a “una concezione puramente naturalistica della vita dove i valori religiosi o sono esplicitamente rifiutati o vengono relegati nel chiuso recinto delle coscienze e nella mistica penombra dei templi, senza alcun diritto a penetrare ed influenzare la vita pubblica dell’uomo”. Nell’analisi dell’episcopato italiano il laicismo costituiva infatti, come era nella realtà, il fattore aggregante di un clima ideologico che mirava ad incidere sul senso comune del popolo italiano sovvertendone la naturale gerarchia dei valori tradizionali.
E’ in questo contesto culturale che attecchiranno infatti le rivoluzioni giuridiche che hanno minato in Italia istituti secolari e consolidati come il matrimonio e la famiglia. Lo dimostra con una dettagliata ricostruzione Brienza che, nel suo intervento (Le origini della disgregazione della famiglia italiana negli anni ’60), analizza il processo rivoluzionario descrivendo origini e sviluppi di tre leggi che ne costituiscono altrettanti passaggi decisici: quella d’introduzione del divorzio (“Baslini-Fortuna” del 1° dicembre 1970), quella che ha stravolto il diritto di famiglia italiano d’impronta romanistico-cristiana (legge del 19 maggio 1975) ed, infine, la “legge” di depenalizzazione dell’aborto, la famigerata 194 che, essendo stata approvata con i voti dell’intero “arco costituzionale” (eccetto quindi del M.S.I.) il 22 maggio 1978, conta in queste settimane i suoi primi trent’anni di “vita”. E’ significativo notare che le tre leggi erano parte di un disegno e di un pacchetto unico come dimostra il fatto che “il promotore e relatore governativo in Parlamento fu unico, nella persona dell’on. Maria Eletta Martini, deputata toscana democristiana…”. Brienza ricostruisce poi come fondamentale sia stato “il ruolo di fatto promozionale assunto dal Partito Comunista Italiano”, concretamente già attivo nella Costituente quando si oppose strenuamente alle proposte di costituzionalizzazione del principio dell’indissolubilità del matrimonio e poi ancor di più nei mesi precedenti il referendum per l’abrogazione della legge divorzista (1974) quando, sovvenzionato anche da Mosca, il PCI impegnò tutte le sue forze in una battaglia che valse più delle elezioni politiche. Sarà un passo decisivo, fondamentale, dell’“eclissi culturale e politica” su cui si avvierà il Paese, ma altri ne seguiranno. Tracciarne oggi la storia significa, fuori dall’immediato ambito della divulgazione culturale o accademica, anche fare memoria e ricostruire la nostra identità collettiva che, come già sottolineava Giovanni Paolo II nel suo testamento spirituale (significativamente intitolato Memoria e Identità), solo nella comprensione (auto)critica del passato può trovare nuove radici per riemergere e illuminare così la strada degli uomini di buona volontà.

Omar Ebrahime