Cristianofobia. La nuova persecuzione

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R. GUITTON, Cristianofobia. La nuova persecuzione, Lindau 2010, ISBN: 978-88-7180-855-0; pp. 320, Euro 23,00.

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"I cristiani del Maghreb, dellAfrica subsahariana, del Medio e dellEstremo Oriente sono perseguitati, muoiono o scompaiono in una lenta emorragia, vittime del crescente anticristianesimo. La cristianofobia è multiforme e si nutre di motivazioni tra loro assai diverse: tuttavia, ogni anno fa parecchie centinaia o addirittura migliaia di morti. In alcuni casi essa é frutto dell’adozione di una politica ispirata a idee di puliziaetnica e religiosa il cui scopo é cacciare dalla culla del Cristianesimo le popolazioni cristiane, ostinatamente fedeli al credo dei loro antenati. Il nostro silenzio in proposito ricorda altri silenzi di sinistra memoria, e nel giro di due o tre decenni provocherà forse nuovi imbarazzati appelli al pentimento e dichiarazioni di rimpianto per non aver voluto far affiorare una verità che doveva essere resa nota a tutti".

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Queste parole del filosofo francese Renè Guitton, poste come significativo incipit del saggio qui presentato, riassumono realisticamente la spaventosa persecuzione – dalle dimensioni ormai globali – che il Cristianesimo sta vivendo in questo momento storico. Ridotti a una presenza poco più che simbolica in Terra Santa e perseguitati apertamente in diverse aree del Medioriente e in Asia (Cina, India, Corea del Nord, Vietnam), i cristiani sono oggi il gruppo religioso più perseguitato in assoluto. Nelle ultime settimane il tema sta finalmente emergendo anche sulle prime pagine dei mass-media internazionali ma duole constare che, superato il fatto eclatante di cronaca del momento (spesso una strage o un delitto particolarmente efferato), ben pochi si prendono poi cura di spiegare e far capire la difficile quotidianità che milioni di cristiani oggi sono chiamati a vivere. Il motivo è che, almeno nell’Occidente sempre più scristianizzato dei nostri giorni, si fa fatica a concepire che da qualche parte nel mondo i cristiani possano essere perseguitati semplicemente perchè cristiani. Questo atteggiamento di supponenza diffusa (evidentemente discriminatorio) porta così di fatto a ignorare, o censurare, le varie richieste di aiuto delle numerose minoranze cristiane che si trovano in condizioni di sofferenza, se non di vera e propria estinzione. Il risultato è un circolo vizioso perverso: nei loro rispettivi Paesi d’origine questi cristiani sono emarginati proprio perchè cristiani e non vogliono rinunciare ad esserlo ma, siccome sono emarginati nella loro stessa terra, in Occidente la loro sorte non interessa nessuno. Il saggio di Guitton quindi, in tesi, si propone di "combattere la gravissima disinformazione che affligge l’opinione pubblica occidentale a proposito della situazione dei cristiani nel mondo e in particolare nelle regioni dove essi sono minoritari, come nel Maghreb, nellAfrica subsahariana, in Medioriente e in Estremo Oriente" (pag. 11). 

 

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Per impostare il discorso nella giusta prospettiva occorre ricordare preliminarmente, a costo di ripetersi, che il Cristianesimo è nato in Oriente e qui si è sviluppato ben prima che l’Europa diventasse quasi completamente cristiana. La Chiesa primitiva, per secoli, vive soprattutto grazie all’afflato missionario delle fiorenti comunità mediorientali e che si affacciano numerose da una sponda all’altra del Mediterraneo. Ad ognuna di queste aree geografiche (oggi massicciamente islamizzate), visitate personalmente più volte dall’Autore durante la stesura del libro, è dedicato un capitolo del saggio. Chi si recasse oggi a Cartagine, magari entusiasmato dalla lettura delle opere di Sant’Agostino, scoprirebbe così che l’antica cattedrale è diventata un museo e – soprattutto – che i cartaginesi odierni non amano sentir parlare del grande Padre della Chiesa e neanche di San Cipriano – per citare un’altra grandissima figura di Vescovo locale – come di loro nobili antenati, anzi. In questo senso, la vicina Algeria rappresenta un caso-tipico. Dopo i repentini cambiamenti politici degli ultimi anni, la decennale guerra civile e lo spaventoso eccidio dei monaci trappisti di Tibhirne (di cui furono ritrovate le teste ma non i corpi, nel 1996), a nessuno è consentito mettere pubblicamente in discussione l’identità arabo-musulmana della nazione. Con la fine della comunità di Tibhirne, l’unico monastero maschile dell’africa settentrionale è oggi quello di Midelt, città situata alla congiunzione del Medio e dell’Alto Atlante marocchini. E questo è tutto, dopo diciassette secoli di Cristianesimo.

Quello che preoccupa, se possibile, ancora di più però, è l’atteggiamento apertamente intimidatorio e liberticida assunto negli ultimi anni perfino dai vertici dello Stato. Innumerevoli sono gli episodi riportati che rivelano un autentico clima da ‘caccia al cristiano’: dal sequestro di Bibbie alla dogana (viste come un tentativo di introdurre in Algeria materiale propagandistico), a vere e proprie aggressioni a studenti dichiaratamente cristiani, fino all’arresto – nel 2008 – del sacerdote Pierre Wallez "per proselitismo" (cioè per aver condotto un gruppo di preghiera) e poi di una giovane algerina convertita, Habiba Kouider, arrestata per "pratica non autorizzata di un culto non musulmano" (pag. 56). Di fatto, la presenza cristiana è a malapena tollerata, al modo in cui si tollera qualcuno che sarebbe meglio non esistesse. Ne è esempio, tra gli altri, la dichiarazione del ministro degli affari religiosi che alla radio nazionale ha potuto dichiarare tranquillamente: "per me levangelizzazione equivale al terrorismo" (cit. a pag. 66). La situazione di intolleranza ha raggiunto livelli così alti che perfino una commissione delle Nazioni Unite – non proprio un’autorità amica del Vaticano, per dire il meno – ha interpellato i delegati algerini a proposito dell’allarmante deterioramento della libertà religiosa nel Paese. E’ emerso chiaramente che è la semplice pratica del Cristianesimo ad essere condannata: ogni fedele, lontano dal luogo di culto, per il solo fatto di pregare con altri cristiani si espone a pesanti sanzioni giudiziarie. Inoltre, l’obbligo legale di chiedere il permesso per la celebrazione del culto in un edificio ufficialmente riconosciuto è ancora foriero di seri problemi a livello sociale a cui, apparentemente, non sembra esserci via d’uscita.

Tuttavia non c’è solo l’Algeria e la situazione che vivono i (pochissimi) cristiani algerini è comune alla stragrande maggioranza dei cristiani maghrebini – pur con differenze importanti in Tunisia e Libia, va riconosciuto, anche per motivi e tradizioni complesse di ordine storico. La situazione più preoccupante, non ultimo in ragione della straordinaria valenza culturale, è data forse proprio dalla Terra Santa, dove oggi i cristiani sono una sparuta minoranza in mezzo a una maggioranza di ebrei e musulmani che si fronteggiano con le armi giorno dopo giorno, in una guerra senza esclusione di colpi. Persino nelle città storicamente simbolo del Cristianesimo come Betlemme, che pure può vantare un sindaco cristiano (una rarità nella regione), i cristiani ormai sono una minoranza. La comunità, colpita da violenze e aggressioni di ogni tipo (fisiche e morali), oltre che da una dura crisi economica, vive da tempo un’inesorabile diaspora che allarma non poco anche gli osservatori internazionali presenti nella zona, i quali vedono nella presenza cristiana un alleato prezioso nella costruzione del complicato processo di pace e di convivenza sociale. Se talora non mancano episodi di aggressioni da parte di frange dell’ebraismo ultraortodosso, va detto che in alcune aree come Gerusalemme Est o in Cisgiordania l’islamizzazione strisciante degli ultimi anni ha determinato un’ulteriore emarginazione dei cristiani: "essi avvertono confusamente di non essere più al loro posto nella società palestinese, la quale li ha finora accettati, ma sta diventando sempre meno tollerante e meno aperta allidea della coesistenza, al proprio interno, di religioni diverse. Hamas [l’organizzazione politico-militare islamico-palestinese, il cui partito ha ottenuto la maggioranza dei seggi nelle ultime elezioni dell’ANP, ndr] si sforza di far regnare un ordine moraleche esaspera i cristiani. Se escono senza il velo o se indossano vestiti giudicati indecentile loro mogli sono aggredite; nei ristoranti e nei bar sono proibite le bevande alcoliche [inoltre] dal momento che il silenzio è per loro una seconda natura, i cristiani della Cisgiordania non amano affatto parlare di questi argomenti" (pag. 107). Se questa non è propriamente una situazione di dhimmitudine ufficiale (la condizione di sudditanza economica, politica e sociale a cui storicamente vengono costretti i non musulmani nei regimi fondati sulla Sharia) ci siamo comunque molto vicini. La presenza cristiana in Terra Santa ovviamente ha una storia antichissima e gloriosa che affonda le sue radici nella Chiesa primitiva, come attesta ancora oggi il monastero di Deir al-Balah, il monastero dei datteri, "il più vecchio luogo di culto cristiano della Palestina, edificato prima della costruzione del Santo Sepolcro" (pag. 111) ma, si chiede provocatoriamente l’Autore guardando con preoccupazione ai numeri degli ultimi cristiani autoctoni che emigrano, ci sarà ancora in futuro il Cristianesimo in Terra Santa?

Altre pagine ben documentate del libro sono quelle dedicate all’Egitto, una terra storicamente decisiva per il processo di stabilizzazione dell’area e che gode di buona fama in ragione dei consolidati scambi commerciali e turistici con l’Occidente. Qui i cristiani sarebbero oltre 10 milioni, il 14% circa della popolazione, andando a costituire di gran lunga la comunità più numerosa di tutta l’area. Concentrati per la maggior parte nell’Alto e nel Medio Egitto, essi sono presenti tanto nelle aree rurali come nelle grandi metropoli quali Il Cairo e Alessandria. Superficialmente la Repubblica egiziana si presenta come uno Stato laico, dove la Costituzione proclama la libertà di culto e garantisce l’assoluta uguaglianza di tutti davanti alla legge, senza distinzioni di etnia o religione. In realtà, tali princìpi sono poi largamente sconfessati nel quotidiano dove tutta la classe dirigente – dai politici, ai funzionari pubblici, ai docenti – non perde occasione per ribadire che "lEgitto è uno Stato arabo e musulmano" (cit. a pag. 120). Questo atteggiamento ha conseguenze fin troppo evidenti in diversi ambiti della vita sociale, come ad esempio nell’accesso al mondo del lavoro, dove il fatto di dover indicare sulla carta d’identità la propria fede religiosa fa sì che i cristiani vengano esclusi a prescindere da alcuni posti, che sono poi quelli che contano. Pur essendo inoltre egiziani a tutti gli effetti, anzi i ‘veri egiziani’ – come alcuni di loro orgogliosamente si definiscono per sottolineare il fatto che l’islamizzazione del Paese è successiva rispetto alle radici cristiane – essi non possono insegnare l’arabo in nessuna scuola, perchè, in quanto lingua del Corano, una legge ne riserva l’insegnamento ai soli islamici. A tutto ciò vanno aggiunte poi le numerose aggressioni (e gli attentati alle Chiese) che la comunità cristiana subisce periodicamente nell’indifferenza delle forze dell’ordine, che non intervengono quasi mai per non inimicarsi le frange fondamentaliste, in crescita nel Paese. Le conversioni, quando ci sono, avvengono così in segreto come se fossimo tornati davvero al tempo delle famigerate catacombe. Quando vengono scoperti, d’altronde, i convertiti "sono spesso arrestati, imprigionati e torturati in carcere con il pretesto che attentano allordine pubblico, alla pace sociale o allunità nazionale" (pag. 136). L’Autore conclude riportando in proposito un dialogo drammatico con un vescovo locale svoltosi lo scorso gennaio: "gli domandai cosa accadeva ai rari musulmani convertiti al Cristianesimo ed egli rispose: ‘Ognuno è libero di entrare nell’Islam, ma se ne può uscire soltanto in barella‘" (cit. a pag. 138).

 

 

 

Omar Ebrahime