Capitolo 1. FILOSOFIE DELL’ESISTENZA
La filosofia dell’esistenza può dirsi l’ultima «forma» del pensiero occidentale. Ed è «forma», vale a dire metodo e fisionomia o movenza di pensare, e non propriamente «sistema», per due ragioni soprattutto: perché gli esistenzialisti contemporanei sono arrivati alla nuova filosofia per vie diverse ed anche contrastanti, e perché l’esistenzialismo è sorto in opposizione aperta al sistema, sulla proclamata rovina del sistema. Il sistema è costruzione organica, è armonia: vuol spiegare tutto e non conosce residui; assimila, schematizza le cose più disparate, subordina il reale all’ideale, la vita alla contemplazione. Ottimismo grandioso, tanto più carico di promesse, quanto più si vede incapace di mantenerle: basta uno sguardo alla realtà della vita autentica per sentire palese la vanità dell’illusione speculativa. La realtà che si svela nella vita non è armonia, ma rottura, caos; non obbedisce al sistema ma è anormalità, eccezione; non corre continua entro le placide rive dei propri desideri, ma irrompe a scatti, si fa strada per urti ed opposizioni. Tuttavia, come ha precisato K. Jaspers, l’esistenzialismo non è irrazionalismo: esso infatti conserva la ragione ed anzi la ritiene indispensabile; soltanto non la tiene onnipotente nei risultati, non la fa arbitra assoluta del reale. Accanto al razionale c’è l’irrazionale e ne è come lo sfondo; si muovono insieme intrecciandosi, senza mai coincidere o comunque adeguarsi. Alogica razionale (vernunftige Alogik) 1.
Volendo chiarire questo carattere fondamentale dell’esistenzialismo, si può dire che la nuova filosofia è una «forma» di pensare che non si sovrappone alla vita, né si mette accanto e tanto meno la «supera», ma piuttosto s’immedesima con essa, la produce e in sé la raccoglie unificandola (soggettività della verità).
L’errore capitale della filosofia moderna è stato proprio l’affermazione di una priorità dell’ideale sopra il reale, come quando Cartesio ha preteso di partire dal pensiero per conquistare l’essere e di «dimostrare» la esistenza del mondo passando attraverso il «ponte» dell’idea; e come quando Hegel si è illuso che l’essere, docile all’arte magica della dialettica, «passasse» nella perfetta trasparenza dell’Idea. «Che un pensatore astratto, osserva S. Kierkegaard, dimostri la sua esistenza per via del pensiero, è una strana contraddizione, poiché nella misura in cui egli pensa astrattamente, egli fa astrazione precisamente dal fatto che esiste. Più si sviluppa, più il pensiero tende a diminuire la sfera dell’esistenza. Se il pensiero riuscisse a realizzarsi completamente, l’esistenza del pensatore sarebbe assorbita in esso ed egli cesserebbe di esistere» 2. La realtà non si traduce in idee, non si può trovare nelle idee. Finora i filosofi, così Hegel come gli altri, hanno avuto il torto di sostituire alle categorie reali le categorie ideali; essi poi nella vita quotidiana vivono in tutt’altre categorie di quando si mettono a speculare e si consolano con alcunché del tutto diverso da ciò intorno a cui volentieri parlano. Per gli esistenzialisti la posizione di ogni problema pone in questione il questionante stesso: l’uomo nella ricerca v’impegna tutto se stesso e il suo destino. Non immanenza quindi dell’essere nel pensiero, ma viceversa immanenza del pensiero nell’essere. E l’essere non è che un che di astratto, è l’«essere dell’esistente», così che la filosofia scaturisce dalle perplessità della vita stessa e come la vita precede il pensiero così l’essere precede l’idea: la mente è l’uccello di Minerva che s’alza a volo al calar della notte.
L’esistente è il «singolo», l’individuo, e qui Kierkegaard ha saputo ricordarsi di Aristotele: l’universale non esiste per sé. Almeno per quanto riguarda l’uomo, l’individuo che è la persona umana è superiore alla specie ed è proprio delle concezioni materialistiche e totalitarie vedere il singolo in funzione della collettività. Nella dialettica hegeliana l’individuo, il «questo», «qui», «ora», veniva risolto nella sostanza indifferente del Tutto, trasportatovi dal movimento dell’Idea che sale incessantemente di grado in grado per realizzare la sintesi superiore dello spirito nello Stato etico (Fenomenologia dello Spirito).
Ma per Kierkegaard, che fa sua la critica ad Hegel dell’aristotelico Trendelenburg 3, mettere il movimento nelle idee, è voler mettere in esse qualcosa che non può in alcun modo esservi messa, che è contraria alla loro natura; voler introdurre il movimento nella logica, come ha fatto Hegel, è un confondere ogni cosa: il movimento è ciò che urta contro tutti i principii della logica, per cui il movimento e lo sviluppo, come Hegel li concepisce, nulla hanno da fare con il movimento e lo sviluppo reali. Hegel, si sa, ricorre al superamento della «Aufhebung» per la quale l’individuo e l’immediato «passano» nell’universale e nel mediato e vengono perciò superati. Metodo vano e ridicolo, nota Kierkegaard, perché la prima «realtà reale» è l’individuo e i componenti l’universo sono gli individui soltanto; metodo impossibile, perché la mediazione, ammesso che sia possibile, ha senso solo se si appoggia e fa capo all’immediatezza. Se il singolo alle volte è sconcertante e presenta aspetti vari od anche contraddittori, non c’è nulla da fare, bisogna accettarlo così com’è: vuol dire allora che la contraddizione, il «paradosso» dice Kierkegaard, è la struttura stessa della realtà.
Salvare il singolo dal livellamento della moltitudine, difendere i diritti della persona di fronte allo sfruttamento della società e dello stato, ecco la crisi ed il tema dominante della nuova filosofia che, almeno nella sua prima forma avuta dal Kierkegaard, voleva essere la ribellione in atto alla cultura ufficiale dell’800 europeo. Kierkegaard poi, per suo conto, voleva con essa rivendicare un ritorno al Cristianesimo genuino del Nuovo Testamento che l’idealismo hegeliano aveva polverizzato ed il Protestantesimo sfigurava «adattandolo» allo spirito del secolo.
L’esistenza perciò non si definisce, non si trova né si comunica per concetti. L’esistenza è ciò che il singolo trova e prova vivendo nella «sfera di essere» che a lui, come singolo, compete (la «situazione» dirà K. Jaspers); e la filosofia dell’esistenza si attua come una «chiarificazione dell’esistenza».
L’essere dell’esistente allora, che è l’oggetto di questo filosofare concreto, è lo stesso essere dell’uomo, essere primario e fondante che sta al centro di tutti i problemi: essere inteso come «possibilità» illimitata, inesauribile. Non si deve credere quindi che l’insistenza da parte degli esistenzialisti sull’esistente singolo, voglia dire un fermarsi al fatto bruto, un accontentarsi del dato: tutt’altro, la filosofia dell’esistenza afferma la «problematicità» radicale di tutto l’esistente rispetto all’essere. In altre parole, volgendosi propriamente all’essere dell’esistente come possibile e non al fatto empirico o all’idea astratta; o, se si vuole, cercando d’interpretare l’esistente in funzione dell’essere come «possibilità», l’esistenzialismo si propone di comprendere l’essere dell’uomo certamente nella sua realtà effettuale, non però isolata, ma proiettandola nella sfera più ampia, anzi infinita possiamo dire, delle sue possibilità di essere.
L’esistenza allora, di cui si fa questione quando si parla di una filosofia che è una «chiarificazione» dell’esistenza, è la consapevolezza delle infinite possibilità di essere offerte alla coscienza del singolo che ha da realizzare per sé l’«essere dell’uomo». Il sapere vero, per gli esistenzialisti, è il sapere della possibilità; non però di una possibilità astratta, ma di quella possibilità che è propria dell’uomo il cui movimento interiore di coscienza non è mai necessariamente fissato in una forma che non possa di lì ad un istante assumerne un’altra, e poi una terza e così via. Può dire di avere una comprensione dell’esistenza non colui che s’indugia sul singolo contingente e si lascia sedurre dalla sua singolarità, ma solo chi partendo dal singolo, anzi da se stesso.
vede l’essere stesso «aperto» verso un’infinità di possibilità molteplici, varie, contraddittorie e come immerso in un ambiente fluido in cui ha da muoversi e prendere l’iniziativa.
A questo modo non v’è alcuna realizzazione concreta dell’essere che sia un punto fermo: fin quando l’uomo vive, ha sempre davanti a sé, a sua disposizione, illimitate possibilità di essere, di bene e di male, nessuna esclusa. Per la filosofia dell’esistenza allora quello che maggiormente interessa non è tanto ciò che è stato finora realizzato, quanto la situazione sua fondamentale o, più esattamente, l’essere profondo dal quale tale realizzazione è scaturita; non è il risultato frammentario, quanto lo sfondo ed il passaggio e ciò per cui si è prodotto il passaggio. In una parola: ciò che conta non è l’accadere amorfo, ma la decisione che plasma la persona nei suoi compiti in vista del futuro imminente.
La filosofia adunque ha da essere una conoscenza vissuta dell’esistenza che è l’essere dell’uomo, colto e proiettato nell’orizzonte delle sue possibilità. Queste possibilità rimangono celate per l’uomo ordinario: preso dagli interessi immediati della vita e dalle convenzioni sociali, egli non fa a tempo ad accorgersi di esse, o, se appena se ne accorge, s’affretta subito a sfuggirle o a negarle perché gli possono apparire d’inciampo alla realizzazione dei suoi fini utilitari. La consapevolezza dell’esistenza nella sua «autenticità», perusare il termine di Heidegger, si trova solo nell’uomo interiore che si affida all’essere per l’essere, che consente e si tiene aperto a tutte le possibilità e si decide per esse senza riserve, costi quel che costi.
La ricchezza di tali possibilità, e quindi il significato autentico dell’esistenza non è da cercare pertanto nell’individuo disperso nella folla anonima, la filosofia non può essere democratica, ma nel «singolo» d’eccezione.
Kierkegaard considerava se stesso un «singolo d’eccezione», ed erano per lui individui di eccezione, oltre a Cristo Salvatore, personalità divina incomparabile e «scandalo» per la ragione speculativa, Socrate che con l’ironia sollevò l’esistenza dal piano estetico a quello morale; Giobbe l’eroe della ripetizione, straziato sull’immondezzaio nell’anima e nel corpo, e pur certo della divina giustizia; Abramo, che alza il coltello per colpire il figlio della promessa e non dubita che Dio la realizzerà egualmente; la eletta fra tutte le donne, la benedetta Vergine Maria che, all’annunzio angelico, si proclama umile «Ancella del Signore» ed accetta le angosciose incognite di una maternità tanto singolare con incrollabile fortezza 4.
L’opera di Kierkegaard rimase per quasi un secolo quasi obliata: bisognò aspettare che l’idealismo e il positivismo si consumassero a vicenda perché il richiamo del solitario filosofo danese trovasse ascolto e comprensione.
Oggi l’esistenzialismo può dirsi la corrente più caratteristica del secolo, per gli sviluppi della Kierkegaard-Renaissance iniziatasi in Germania. Era appena passata la bufera della guerra mondiale che nel 1919 apparivano il
«Commento alla Lettera ai Romani», di Karl Barth e «La Psicologia delle filosofie» di Karl Japers nelle quali si delineavano già le due direzioni principali dell’esistenzialismo contemporaneo: l’una teologica, innestata sulla mentalità luterano-calvinista; l’altra filosofica, laica e mondana, che inseriva il tema kierkegaardiano nel pensiero dei plasmatori dello spirito tedesco: Kant, Hegel, Nietzsche. La seconda tappa è segnata dall’apparizione contemporanea nel 1927 di «Essere e Tempo» di Martin Heidegger e del «Journal Métaphysique» di Gabriel Marcel; il primo svolgeva i tempi esistenziali con l’ausilio dell’analisi fenomenologica, mentre il secondo, seguendo una propria via di evoluzione spirituale, arrivava a sua insaputa ad elaborare in clima latino i principi di un esistenzialismo che vuol essere schiettamente cattolico.
Una tappa decisiva secondo alcuni interpreti sarebbe segnata dall’apparizione nel 1932 della massiccia Philosophie di Karl Jaspers, che è certamente dal punto di vista sistematico l’opera più compiuta; anche se poi resta da vedere che questa sistematicità non sia proprio un tradimento del genuino spirito esistenziale.
Attualmente in Germania l’esistenzialismo si muove secondo le direzioni principali accennate di Barth, Jaspers, Heidegger; in Francia ed in Italia i lineamenti della nuova filosofia hanno tonalità meno chiare quando non dànno l’impressione di espedienti di compromesso. Negli ambienti d’ispirazione cattolica e spirituale ci si rivolge di preferenza al Marcel il quale dopo la sua conversione (1929) ha dato in Etre et Avoir (1935) più che una promessa d’istradare la nuova filosofia nella via maestra del realismo e dell’ortodossia.
Nelle pagine che seguono si è pensato soprattutto ai temi e alle esigenze fondamentali in Kierkegaard, ed alle elaborazioni speculative più accreditate di Jaspers e Heidegger onde cogliere lo spirito originale di un pensiero espresso in forma ardua e sibillina ed anche per vedere se resti aperta qualche possibilità di rivivere con il Marcel, i temi esistenziali che altrimenti sono votati al fallimento.