Corriere della Sera 9-4-2003
MEMORIA Yves Ternon ricostruisce l’odissea di una comunità e di una cultura condannate dall’indifferenza del mondo
di Ettore Botti
Agli armeni è toccata nei secoli una storia tra le più tormentate. Oggi i rappresentanti di questa gente di antichissima cultura sono circa sei milioni: tre milioni nella Repubblica armena e gli altri nelle comunità della diaspora, costretti a sparpagliarsi agli angoli del mondo per sfuggire alle persecuzioni, all’emarginazione, alla miseria. È singolare la maniera, quasi una forma di predestinazione, con la quale la sorte di un popolo possa apparire segnata dalla sua origine. Trasferendosi dalle steppe russe e dalle pianure del basso Danubio, tra il nono e il settimo secolo avanti Cristo e attraversando il Bosforo per raggiungere la Frigia, gli armeni finirono per stabilirsi esattamente nel crocevia di ogni futura conquista e scorreria. Non ci fu invasione dall’Asia verso l’Europa e dall’Europa verso l’Asia che non coinvolse la loro roccaforte montuosa, ambita da tutti per la posizione dominante verso le grandi vie del Tigri e dell’Eufrate. Attacchi, saccheggi, distruzioni, occupazioni. E dopo la cruciale scelta geografica, il destino riservò loro un’altra primazia carica di conseguenze. Convertiti da Gregorio all’inizio del 300, gli armeni diedero vita, in anticipo rispetto all’editto di Costantino, al primo regno cristiano. Il che li portò, più tardi, a trovarsi accerchiati dall’Islam con un sanguinoso corollario di intolleranza e violenza, fino alla contromigrazione, ai tentativi di fuga e allo smembramento tra impero russo e ottomano.
In un ampio saggio ora pubblicato da Rizzoli lo storico francese Yves Ternon, che da quasi trent’anni si occupa del tema, racconta con accorata partecipazione le tappe di questa durissima vicenda collettiva e si sofferma in particolare sull’ultima, che è la più atroce: lo sterminio sofferto da parte dei turchi tra il 1915 e il 1916. A quasi un secolo di distanza il numero delle vittime è ancora oggetto di discussioni, ma v’è certezza circa l’enormità dell’accaduto: diverse centinaia di migliaia di morti, forse addirittura un milione e 200 mila, due terzi dell’intera popolazione. Pretesto e paravento per il massacro fu la Grande guerra che nel clima di scontro, cadute le residue regole di convivenza e allentati i controlli internazionali, consentì efferatezze prima impossibili.
Il conto con gli armeni, accusati di essere riottosi e infedeli, era aperto da tempo. Il vertice del partito Unione e Progresso, salito al potere a Costantinopoli, li considerava nemici dell’ordine interno e approfittò della discesa in campo della Turchia, al fianco di Austria e Germania, per lanciare contro di loro il sospetto generalizzato di tradimento. «Fanno causa comune con gli armeni russi, passano informazioni ai franco-inglesi, ostacolano le attività del nostro esercito», è scritto in numerosi rapporti, peraltro privi di documentazione probante.
La caccia ai traditori e i piani di deportazione, ufficialmente necessari per allontanarli dalle zone d’operazione, seguirono analogo rituale nelle province più lontane. Si cominciava chiedendo la consegna delle armi tanto ai musulmani che ai cristiani. Chissà perché la quantità di armi consegnate dagli armeni era sempre insufficiente. Venivano chiamati a renderne conto i notabili (capi politici, preti, insegnanti), torturati in modo da estorcere confessioni di qualche connivenza con il nemico o proposito di rivolta, condotti lontano dal Paese e uccisi. A quel punto scattava l’ordine di deportazione per tutta la comunità con l’obbligo di lasciare case e beni. Radunati i disperati per la partenza, era il momento di separare i maschi validi dal gruppo e giustiziarli. Restavano vecchi, donne e bambini da organizzare in disumani convogli e avviare sulla strada del deserto. Teoricamente la meta delle carovane era la Mesopotamia, ma la fame, la lunghezza e le condizioni dei viaggi provvedevano a un’automatica decimazione, senza contare la licenza di attacco concessa a turchi e curdi che stupravano le donne e rapivano i bambini, sottoponendoli poi a conversioni forzate. Un eccidio senza scampo.
In un caso fu possibile la resistenza, seguita da miracolosa salvezza: il caso del Mussa Dagh, la «montagna di Mosè», che Flavia Amabile e Marco Tosatti rievocano in una appassionante ricostruzione pubblicata dall’editore Guerini. Cinquemila persone si rifugiarono sopra le alture, a picco sul litorale, per sottrarsi a una retata. Stretti da ogni lato, respinsero più volte l’assedio dei soldati. Al cinquantatreesimo giorno, stremati e senza viveri, stavano per arrendersi quando una nave francese notò i flebili, quasi ormai rassegnati, segnali di aiuto lanciati dal Mussa Dagh. I 4200 superstiti furono raccolti e portati fuori dall’inferno, a Porto Said.
Per un lieto fine tantissimi epiloghi tragici. Considerando la feroce uniformità dei rastrellamenti, la pregiudiziale invenzione del complotto antipatriottico e gli intenti criminali di pianificazione e depistaggio, Yves Ternon punta l’indice con decisione: non fu un coacervo più o meno casuale di rappresaglie, ma l’annientamento premeditato e sistematico degli armeni. In una parola un genocidio, il primo del terribile ventesimo secolo; programma di pulizia etnica e religiosa scatenato dall’ideologia panturchista ai danni di quel popolo reso sventurato dalla geopolitica. Tutti i governi turchi, compresi gli ultimi, hanno respinto l’infamante accusa, anche con l’appoggio della storiografia nazionale. Ma comunque lo si voglia definire, resta l’orrore di un immane, ingiustificabile massacro. Il console tedesco ad Aleppo, Rossler, scrisse: «Costantinopoli si avvale di mezzi barbari e indegni di un governo alleato della Germania». Bastarono pochi anni, purtroppo, perché la Germania cambiasse idea. Si sa che il male trova spesso emuli pronti a trasformarlo in peggio.
I libri: Yves Ternon, «Gli armeni», Rizzoli, pp. 428, 20;
Flavia Amabile e Marco Tosatti, «La vera storia del Mussa Dagh», prefazione Vittorio Messori, Guerini, pp. 158, 14