Escono le lettere che lo scienziato-teologo scrisse per i figli dal 1916 al 1925. La tragedia di un’epoca tra fede e repressione
Il tempo ritrovato di Florenskij, sacerdote sovversivo
di Elisabetta Rasy
Nel 1939 Anna Florenskij invia alle autorità sovietiche una richiesta per la sospensione della pena al marito Pavel, condannato definitivamente al gulag nel 1933 «per propaganda antisovietica e partecipazione a organizzazione controrivoluzionaria». Ma la richiesta viene respinta perché la motivazione della condanna è ancora in piedi: il condannato si rifiuta di deporre il suo ufficio presbiteriale. La famiglia non si dà pace. Ma è solo nel 1990, dopo la perestroika di Gorbaciov, che viene a sapere che nel ’39 era davvero impossibile sospendere la pena: Pavel Florenskij era già morto, fucilato a cinquantacinque anni l’8 dicembre 1937, in un bosco ai margini di Leningrado dove più tardi sarebbero state rinvenute molte fosse comuni. Così, con una estrema bugia, si concludeva la vicenda umana di un uomo che alla verità e alla sua ricerca aveva dedicato tutta la sua instancabile attività di scienziato, filosofo, teologo. Nel 1911 Florenskij era stato consacrato sacerdote ortodosso: insieme alla irriducibilità delle sue idee, la fedeltà fino alla fine al suo magistero sacerdotale configurerà per le autorità sovietiche quel reato di sovversione antirivoluzionaria che, dopo gli anni di campo di concentramento, pagherà con la morte. Il primo arresto era avvenuto nel 1928, anche se la censura lo teneva d’occhio da quando nel ’22, negli Immaginari della geometria , aveva difeso con la teoria della relatività la concezione spaziale della Divina Commedia . Nel 1933 la condanna a dieci anni di lavori forzati: dopo sei mesi alla Lubianka era cominciato il suo viaggio in Siberia che si sarebbe concluso nel settembre del ’34 nelle isole Solovki, nel Mar Bianco.
Ma se non è che un numero nella sterminata folla delle vittime dello stalinismo, Florenskij riesce a essere una vittima speciale perché lascia dietro di sé la traccia precisa della parola. Censurate e imprigionate per decenni, da quando negli anni Settanta le sue opere hanno cominciato a riaffiorare in Occidente l’interesse per questa singolare figura di mistico-scienziato del Novecento ha continuato a crescere. Ma la vita stessa di Florenskij è straordinaria come la sua opera, una sorta di parabola incarnata non tanto dell’intellettuale nella Russia sovietica quanto del pensiero libero, prima ancora che dall’astrattezza e dalla convenzionalità omicida dello sguardo totalitario, dal mondo, dall’epoca, dal suo stesso ambiente. Fin dall’inizio, come raccontano i ricordi dedicati ai figli, che ora vengono pubblicati in edizione italiana da Mondadori.
Padre Pavel cominciò a scriverli la notte del 7 novembre 1916, «dopo aver preparato la liturgia, sul leggio della chiesa, alla luce della lampada sacra». A quell’epoca viveva già da tempo con la moglie Anna e i figli presso il monastero della Trinità e di San Sergio a Sergev Posad, dove si era trasferito quando, dopo la laurea in matematica, si era iscritto all’Accademia teologica. Ma il lavoro che pazientemente porta avanti settimana dopo settimana fino al novembre del ’25, quando il potere sovietico comincia a mostrare i muscoli della repressione, non è solo una raccolta di ricordi familiari e infantili. Florenskij non crede che il passato sia davvero passato («esso si conserva eternamente da qualche parte»), crede anzi che nel passato sia contenuto «il seme del futuro», è convinto che la memoria coincida con la vita interiore stessa e soprattutto che «il rapporto tra ciò che riluce e ciò che traluce, tra cosa e scorza» non è esteriore.
Descrive minutamente ai figli la genealogia della propria famiglia, ma anche «l’aria, il vento, le nuvole» della sua infanzia, le pietre della povera spiaggia del Mar Nero a Batumi dove è cresciuto, i fiori, gli alberi, le infinite variazioni di colore del mare, i cristalli della montagna, i versi di Puskin, certe forme di conversazione, Mozart e Beethoven prima della scoperta di Bach, vero evocatore di quell’ultima nota che l’orecchio umano non può cogliere. Anche la conversione, che si fa strada lentamente dopo un’educazione non religiosa, è incarnata in un ricordo preciso, in una notte particolare. Ci sono, in queste memorie, il ritratto di un mondo scomparso e la storia di una formazione, ma anche le illuminazioni intellettuali che faranno di lui uno scienziato apostata e un credente irriducibile non meno che il brillante maestro che, nel fervore dei primissimi anni postrivoluzionari, coniugava la teologia con le grandi scoperte della scienza moderna e spiccava nell’orizzonte culturale con le sue lezioni alla scuola d’arte sperimentale sorta a Mosca nel 1920 con un’impostazione simile al Bauhaus. «Quel che coglievo – scrive – era soprattutto la forma»: la forma senza la quale l’ignoto, che è la vita vera del mondo, non si rivela. Florenskij rivendica coerentemente lungo questa singolare ricerca del tempo perduto la sua ferma convinzione «nell’”essere” mistico contrapposto all’empirico “apparire” e nella realtà sostanziale dei simboli, quelli liturgici per primi».
Di tutte le persecuzioni subite, la più grave per Florenskij fu il sequestro dei suoi libri e dei risultati dei suoi studi in seguito alla condanna del ’33. Del resto, al contrario della sua mite persona, quei libri e quegli studi per l’ideologia sovietica erano davvero sovversivi e inauditi. «La cultura – scrive padre Pavel nella sua Autobiografia – è la lotta consapevole contro il livellamento generale… è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo… è la contrapposizione all’eguaglianza, sinonimo di morte».
Il libro: Pavel Florenskij, «Ai miei figli», a cura di Natalino Valentini e Lubomir Zak, traduzione di Claudia Zonghetti, Mondadori, 396 pagine, 19 euro
Corriere della Sera 16-4-2003