(CorSera) I cristiani praticanti con Bush gli altri con Kerry

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Religione e voto negli Stati Uniti


 

La sfida Bush-Kerry: quanto conta la fede?

 


La questione finisce al centro della profana, materialista, televisiva e aggressiva campagna elettorale per la Casa Bianca



NEW YORK – Conta più la fede o contano più le opere? La questione, da San Paolo in avanti, ha diviso la Cristianità, ma non ci saremmo mai aspettati di trovarla al centro della profana, materialista, televisiva e aggressiva campagna elettorale americana del XXI Secolo. Il candidato democratico, senatore John Kerry, cattolico, accusa l’amministrazione del presidente repubblicano George W. Bush, metodista: «Le Sacre Scritture dicono, “a che ti serve, fratello, la fede senza le opere?” Guardo all’America di oggi e mi chiedo: dov’è la compassione?».
Pronta replica della Casa Bianca: «È triste vedere la Bibbia usata per la propaganda politica». La battaglia presidenziale 2004 non conoscerà quartiere e la fede, la religione, la morale saranno citate ogni giorno dal presidente Bush, un protestante che ripete «Senza Dio sarei finito in un bar, alcolizzato» e il suo sfidante, cattolico romano, che in Vietnam andava al fronte con il rosario al collo.











 
NON SARÀ COME KENNEDY-NIXON
– Lo scontro non sarà tra protestanti e cattolici, come nel 1960, quando i repubblicani di Richard M. Nixon insinuavano «il papista Kennedy obbedirà al Vaticano e non al Congresso» e John Kennedy, finora unico presidente battezzato nella fede di Roma, pronunciò lo storico discorso del 12 settembre alla Congregazione dei pastori protestanti di Houston: «Non parlo per la mia Chiesa quando parlo di politica e la Chiesa non parla per me. Da presidente farò le mie scelte secondo quanto la mia coscienza mi prescrive nell’interesse nazionale, senza preoccuparmi di pressioni religiose». Altri tempi: dominava la tradizionale discriminazione anticattolica negli Usa, che tanti dolori è costata a irlandesi, italiani e latinoamericani. Ora si parla di aborto, di cellule staminali, di nozze omosessuali, di pena di morte e parroci pedofili. Il referendum Bush-Kerry tra Casa Bianca e altare non oppone credenti a non credenti, e neppure protestanti a fedeli del papa Giovanni Paolo II. La frattura è tra il popolo che va in chiesa con regolarità, non importa se di confessione protestante o romana, e i cristiani «self service», che praticano la religione con passione, ma non accettano il verbo delle Chiese su omosessualità, aborto, divorzio, costumi sessuali. Un cattolico tradizionalista che detesta il Concilio Vaticano II e adora la versione dell a Passione di Cristo portata al cinema dal conservatore Mel Gibson voterà per il protestante Bush. Al contrario, un protestante che è favorevole alla nomina di vescovi gay e lesbiche voterà per il cattolico Kerry. La Torre di Babele delle fedi d’America arriva alle urne, con mille colori.









 
ANALISI
– Guardate ai numeri raccolti da John Green, statistico dell’Università di Akron: nel 2000 i cattolici si sono separati al voto, 47% per Bush, 50% per il democratico Gore. Ma se analizziamo più da vicino i dati vediamo che i cattolici di origine europea hanno scelto Bush in massa, mentre quelli di origine latinoamericana o afroamericana hanno scelto i democratici. Deal Hudson, editore della rivista cattolica Crisis e consigliere della Casa Bianca, condensa bene la situazione: «I cattolici che vanno in chiesa tutte le feste comandate voteranno per il presidente Bush. I cattolici non praticanti per Kerry. Sarà una sfida colossale». Hudson calcola che il 62% dei cristiani praticanti, non importa se protestanti o cattolici, conta di votare Bush, mentre la maggioranza degli elettori non praticanti ha in animo di scegliere Kerry. Le mille Americhe delle fedi si affrontano e Kerry ha già avuto qualche scaramuccia con la gerarchia cattolica, che non vede di buon occhio un candidato credente «contrario all’aborto, ma favorevole alla legge sull’aborto».









 
CHIESA CATTOLICA «AMMONISCE» KERRY
– L’arcivescovo di St. Louis, Raymond Burke, ha pubblicamente ammonito Kerry a «non presentarsi all’altare per la comunione… perché in grave e manifesto peccato». Kerry ha ricevuto la comunione dall’arcivescovo della sua città. Boston e ha avuto il suo primo matrimonio annullato dalla Sacra Rota: la minaccia del vescovo Burke ha preoccupato il suo staff, mentre il candidato non s’è impressionato troppo, presentandosi con un quarto d’ora di ritardo alla messa. Kerry vuole apparire un credente di quelli che in America i tradizionalisti bollano come «cattolici self service», persuasi di accettare solo parte dall’insegnamento ecclesiastico, ignorando i precetti che non approvano, per esempio in materia sessuale. La Chiesa di Papa Wojtyla non apprezza affatto i «cattolici self service», ma al tempo stesso è ostile a vari punti del manifesto di Bush: la pena di morte, l’uso della forza, scarsa attenzione alle politiche sociali, la pena di morte (Kerry è contrario). Alla base però, nelle parrocchie e negli oratori, spesso le regole di Roma sono apertamente ignorate e si vedono donne concelebrare la messa e fedeli divorziati o gay accostarsi ai sacramenti senza condanna del sacerdote. La pressione che la gerarchia cattolica mette oggi su Kerry ricorda le analoghe attenzioni riservate al governatore dello Stato di New York Mario Cuomo e alla candidata alla vicepresidenza nel 1984, Geraldine Ferraro, criticati dal cardinale John O’Connor sull’aborto. Ci sarà dunque una grande battaglia, perché i cattolici, assidui in parrocchia o «self service», sono un pacchetto di voti decisivo negli stati decisivi per la Casa Bianca: New Hampshire, Missouri, Tennessee, Pennsylvania, Ohio e New Mexico. Ogni predica metodista di Bush, ogni rosario di Kerry parleranno certo a Dio, ma anche ai tanti Cesari americani indecisi nel voto di novembre.

Gianni Riotta

 
Corriere della Sera 30 marzo 2004