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IL CARDINALE SCOLA «Un patto sulla laicità»


di Aldo Cazzullo
Corriere della Sera – 17 luglio 2005

Angelo Scola, 63 anni, Patriarca di Venezia, rettore emerito della Lateranense, vicinissimo a Wojtyla e a Ratzinger, è al lavoro nel suo studio, che si affaccia sui tetti e la basilica di San Marco. Sta preparando due testi. La relazione con cui a ottobre aprirà il Sinodo alla presenza dei vescovi di tutto il mondo, incarico affidatogli da Giovanni Paolo II e confermatogli da Benedetto XVI. E l’omelia che pronuncerà oggi al Redentore, festa religiosa e civile dei veneziani.
Di che cosa si occuperà, Patriarca?
«Della laicità. Le reazioni seguite al fallimento del referendum lasciano l’amaro in bocca.
Nessuno vuole tornare a un passato di incomprensione, né rivangare divisioni antiche. Mi domando se questo gusto amaro non dipenda dal fatto che continuiamo a ragionare su un’immagine vecchia dell’idea e della pratica della laicità».
Perché vecchia?
«Perché il 1989, con la caduta delle utopie, marca il passaggio a una nuova fisionomia dell’umanità, che ha segni clamorosi: la globalizzazione, la civiltà delle reti, le biotecnologie, l’interculturalismo, che io preferisco chiamare “processo” di meticciato di civiltà. Se a questi segni si connette l’evoluzione del rapporto tra nazioni e ordine mondiale, tra guerra e terrorismo, ci troviamo di fronte a un cambiamento radicale della democrazia e della società civile. Si tratta di attuare una pratica e di pensare ex novo una teoria della laicità. Dobbiamo impegnarci con pazienza a rivedere le cose».
I giornali se ne sono molto occupati.
«Mi pare ci sia un primo dato molto importante, ben approfondito da Habermas, che non emerge a sufficienza nel dibattito giornalistico in Italia. Habermas parte da una premessa che io non condivido: l’idea secondo cui, per giustificarsi, una democrazia costituzionale non ha bisogno di un “presupposto” etico o religioso. Habermas giunge però a considerare come inevitabile che uomini religiosi e uomini non religiosi si predispongano a un confronto permanente. Questo per me è importante. Nel dialogo con Habermas dell’inizio del 2004, l’allora cardinal Ratzinger fa suo questo tema. Di più; arriva a dire che una nuova laicità non può non passare dal confronto a 360 gradi tra tutte le forze in campo».
Quali forze?
«Noi occidentali non possiamo continuare a pensare che la nostra visione della società civile e delle istituzioni statuali, la nostra idea di razionalità, valgano anche per le altre aree culturali, dalla islamica all’induista-buddista. Asia, Africa, America Latina hanno altri parametri. All’interno di tutte le aree poi esiste una pluralità che assume talora toni marcatamente conflittuali. L’unica strada è la costruzione rapida e pacifica di un terreno comune, in cui le autorità costituite operino come garanti di una pluriforme società civile. Per fare questo, occorre il coraggio di ripensare il rapporto tra identità e differenze anche all’interno dell’Occidente. Qui il cristianesimo ha dato storicamente un grande contributo e lo può ancora dare, nel ribadire che identità e differenze sono concepibili sempre e solo in relazione. Non si può uscire dalla polarità tra questi d ue termini. Questo conduce a ripensare la genesi antropologica del concetto di potere».
In quale modo la Chiesa riformula l’idea dell’origine del potere?
«Se per dire io devo porre l’altro , immediatamente riconosco che ci sono altri soggetti oltre a me. Se io sono soggetto di dignità e diritti inalienabili, è chiaro che anche l’altro lo è. Di fatto domando all’altro di riconoscermi, gli do questo potere. Con una certa tradizione filosofica sostengo che alla genesi del potere sta il bisogno di riconoscimento insito nel singolo uomo, sempre immerso in un sistema di relazioni. È necessario ripensare il potere come riconoscimento, e la società civile come lo spazio dialogico in cui questo riconoscimento reciproco tra persone e tra comunità si esercita, regolato dalle istituzioni statuali. Il potere dello Stato non potrà non avere anche un risvolto di equa forza coercitiva, ma nascerà sempre dal riconoscimento della dignità dell’altro e dei corpi intermedi in cui l’io vive. La famiglia, la comunità, il volontariato, l’impresa&ra quo;.
E la Chiesa. Questa sua impostazione capovolge quella tradizionale. Noi pensiamo la laicità come separazione di sfere. Non come compenetrazione.
«Provo a fare mia l’ipotesi di Habermas: la democrazia costituzionale moderna si costruisce da sé e non ha bisogno di presupposti etici e religiosi; allora, affinché questa struttura dialogica di società civile possa sussistere, io devo starci dentro accettando che la mia identità sia sempre in relazione alle identità altrui. Io credo nella verità, ma voglio stare in relazione con chi non ci crede, e non per questo è mio nemico. Anzi, voglio imparare anche da lui. Non pretendo di imporre la mia visione della realtà, secondo cui Gesù Cristo è la verità vivente e personale; ma intendo, con questa precisa visione, entrare pacificamente nell’agone con quelle altrui. Sono convinto che esista la verità, ma non la voglio imporre; la voglio rischiare attraverso la testimonianza. Non posso rinunciare a mettere in campo la mia idea nel gioco democratico. Lo impoverirei».
Ecco l’idea della Chiesa in campo. Abbiamo conosciuto in questi mesi nuove forme di intervento della Chiesa: dalla tecnicalità politica, con l’invito all’astensione nel referendum in Italia, alla manifestazione di piazza, con il corteo di Madrid contro il matrimonio tra omosessuali. Questo ha generato una serie di critiche: più che una discesa in campo quella della Chiesa è stata vista come un’invasione.
«Qui noi ci muoviamo da cittadini. In questo agone io sono un “civis” che esprime la sua visione di vita buona, e la pone nel confronto valorizzando tutti gli strumenti democratici previsti dalla Costituzione, dalle leggi e garantiti dal potere pubblico costituito. Io devo proporre per intero la mia idea di “vita buona”, in competizione dialogica con le altre; altrimenti toglierei qualcosa a questa società. Sono ben consapevole che la mia ermeneutica del bene comune e della società civile può non essere condivisa, ma siccome la reputo valida dialogicamente la propongo alla libertà di tutti. Il conflitto può nascere se chi crede di non poter credere in realtà mette surrettiziamente in campo come criterio pubblico assoluto il “vietato vietare”. Se io mi permetto di esprimere la mia idea buona di famiglia, commetto forse un’invasione di campo? Io dico la mia idea, tu dici la tua; poi il popolo sovrano, d irettamente o attraverso i suoi rappresentanti, in base alla storia, alla cultura, prenderà le sue decisioni. E lo Stato non può pretendere di piegarmi a un’idea di neutralità in cui le soggettività personali e quelle dei corpi intermedi non si esprimano. Lo Stato deve garantire che queste soggettività non abbiano privilegi; ma sarebbe una diminutio della densità democratica della società chiedere a qualcuno di non far valere democraticamente la propria posizione. Altrimenti questa neutralità finisce col diventare puro formalismo. Parafrasando Hegel, “una notte in cui tutte le vacche sono nere”. Lo Stato laico, dopo il confronto tra le parti e dopo che il popolo sovrano si è espresso, è tenuto ad assumere il risultato». L’eliminazione dei corpi intermedi è un tratto dei sistemi totalitari, non delle democrazie. «Per questo bisogna giungere fino a garantire i diritti delle minoranze: penso soprattutto ai diritti fondamentali delle persone. Ovviamente in una società democratica c’è anche una componente di sacrificio. Saremmo folli se non fossimo capaci di sforzi per accelerare l’inevitabile interculturalità che ormai è in atto, ma non credo che dobbiamo farci scrupolo di chiedere a un islamico che viene in Italia di rispettare la Costituzione. Il problema dell’Occidente è la debolezza sostanziale della sua democrazia che consegue alla svalutazione dei corpi intermedi a cominciare dal principale, la famiglia. Non si può pensare la società civile come pura somma di atomi individuali. Ma, grazie a Dio, il primato della militanza, frutto di una visione della polis guidata da un’avanguardia che pensa per il popolo, è finito con l’89. Ora si deve costruire la nuova laicità, cioè nuove forme di relazione e riconoscimento tra persone e comunità intermedie. Dico con convinzione: facciamolo tutti insieme».
Lei non si unisce al lamento sulla scristianizzazione, sul ridimensionamento della Chiesa nel mondo moderno.
«Al contrario. Per me la Chiesa non ha mai avuto una così grande possibilità di dialogare, di intercettare il desiderio dell’uomo, come ora, dopo la caduta delle utopie. Più che crisi vedo travaglio, che può sfociare nella bellezza del parto come nella tragedia dell’aborto. Viviamo nelle contrazioni e nel dolore del travaglio, ma l’uomo postmoderno ha sostituito, come categorie dominanti, a quelle di ragione e giustizia quelle di felicità e libertà. E Gesù ha detto: “se vuoi essere felice seguimi”, “chi mi segue sarà libero davvero”. Ecco perché mi rattrista che il dibattito sulla laicità non respiri atmosfere più pure di libertà. Mi consola il pensiero che Venezia sia, per storia e per vocazione, laboratorio di questa nuova laicità, perché è città dell’umanità. Venezia parla a tutti e tutti vengono a Venezia. Venezia è da sempre città orgogliosa della sua fede cattolica, ma anche dalla sua “laica” autonomia».
Quali sono le conseguenze di questa impostazione sulla politica italiana? Nel centrodestra si progetta un «partito dei moderati». La pubblicistica recente sui rapporti tra religione e cosa pubblica, dal saggio di Massimo Franco a quello di Stefano Jesurum, sostiene che la Chiesa non ha affatto nostalgia di un partito cattolico, preferendo rivolgersi «tous-azimuts», in ogni direzione, in difesa dei propri valori. È così?
«Innanzitutto è riduttivo sostenere che i cristiani debbano limitarsi a proporre il crocifisso, per cui qualunque giudizio sulle implicazioni sociali della fede sarebbe un’invasione di campo da parte della Chiesa. Questa è una riedizione della vecchia teoria della diaspora dei cristiani, che andava di pari passo con la tesi della secolarizzazione; ma oggi sono i più avveduti tra i laici a parlare di società post-secolare. Non solo la religione non è sparita, ma il sacro ritorna in maniera selvaggia. Guai se la Chiesa anzitutto non annunciasse la bellezza del Cristo morto e risorto come luogo del compimento del desiderio umano; ma noi siamo figli di un Padre il cui Figlio si è incarnato. Il Dio cristiano si è compromesso con la storia. Rispettando una sana concezione di laicità, il cristiano non può non mettere in gioco la sua visione integrale di vita buona. Chiediamoci poi cosa sarebbe la società civil e in Italia senza la capillare presenza delle parrocchie e delle aggregazioni, che da secoli contribuisce a tenere insieme il tessuto popolare del nostro Paese. Anche dopo il referendum, non avverto l’esigenza né di trionfalismi né di steccati».
E neanche di un partito cattolico?
«In questo momento non ne vedo la necessità. Poi, la storia è la storia. Se ci sono uomini direttamente impegnati in politica che accettano questa visione di vita buona, lo apprezzo. Certo devono muoversi nel presente democratico, che per me non esige partiti con speciali etichette. La caduta delle utopie ci ha liberato dall’ossessione dell’etichette. Non si tratta di applicare schemi alla realtà, ma di accompagnarla nella giusta direzione».
Quanto è importante la coerenza personale di chi è impegnato in politica?
«Per me è decisiva. La vita buona è insieme sociale e personale. Penso ancora ad Habermas e alla sua idea per cui le democrazie occidentali devono costruire luoghi di virtù, in cui avviene l’incontro tra uomini religiosi e uomini che non si ritengono tali». Alcuni di loro vengono denominati polemicamente «atei devoti». Si imputa loro di cercare nella Chiesa quel grumo di pensiero, di cultura, di valori che manca alla destra italiana. «Qui c’è un equivoco di fondo. Cos’è la Chiesa, cos’è il cristianesimo? Il cristianesimo non è altro che la pienezza dell’esperienza elementare dell’uomo. Ciò spiega la convergenza di questi laici su taluni beni comuni. Ogni uomo vive di affetti e di lavoro; elementi che trovano equilibrio nel riposo. Barthes dice che l’uomo dovrebbe ritrovare il senso vibrato del tempo, una nuova versione dell’ ora et labora dei benedettini. Ora contrapporre credenti e non credenti significa rinunciare a questa esperienza elementare comune. Bisogna lavorare insieme e superare, da una parte, la tentazione di concepire malamente la verità, dall’altra quella di far ricorso all’assoluto del “vietato vietare”».
Alla luce di questa visione, perché la Chiesa esita ad aprire il fronte della legge sull’aborto? Tanto più che la legge 40, confermata dal referendum, è in contrasto con la 194, laddove obbliga l’impianto di embrioni che quattro mesi dopo potranno essere legittimamente soppressi.
«Noi consideriamo l’aborto un atto intrinsecamente cattivo; quindi diciamo, con grande chiarezza e forza, di essere contrari in ogni modo. Su questo non verremo mai meno. Per quanto riguarda l’assetto legislativo del nostro Paese, qui occorre essere capaci di quel confronto appassionato, di quella nuova laicità di cui l’Italia ha bisogno e che può essere un segno per l’Europa. Si sottolinea di continuo il momento di difficoltà che il nostro Paese attraversa, e non si mette abbastanza in evidenza la sua forza di popolo che può essere paradigmatica per gli altri Paesi europei. Facciamo un altro esempio: i Pacs. Io dirò che non è questo il modo migliore per venire incontro alle questioni sollevate dagli omosessuali. Potrò dirlo senza essere tacciato di andare contro qualcuno? Discutiamone, troviamo la strada per garantire i diritti – se e quando sono diritti – di tutti senza inficiare un istituto fondamentale come il matrimonio e la famiglia».
Patriarca, il matrimonio tra omosessuali non è nell’agenda della politica italiana, ma i Pacs sì. Sono una cosa diversa, non attengono alla sfera religiosa, spirituale, ma a quella giuridica, civile.
«Ma io non vedo separazioni tra queste due sfere. Vedo continuità nella distinzione. Pur rispettando sino in fondo l’attuale prevalenza del diritto positivo, non voglio dimenticare l’insegnamento di Aristotele e di Tommaso secondo cui la funzione della legge è in ultima analisi, volenti o nolenti, quella di educare. Per questo mi preme che il legislatore salvi i diritti fondamentali di tutti senza intaccare, neanche indirettamente, il bene comune essenziale che è la famiglia fondata sul matrimonio tra l’uomo e la donna e aperta alla vita».
Tra Habermas e Tommaso alla fine lei sceglie Tommaso.
«Non sono di quelli che dicono sempre: Tommaso l’aveva già detto. Sono convinto che antropologia ed etica vanno verificate tutti i giorni. Sono di quelli che vogliono costruire una società civile in cui io posso testimoniare la mia visione delle cose, e tu la tua. Ma se io non impongo assoluti, tu non mettere in campo assoluti, come il “vietato vietare”. Io dico la mia idea, tu la tua, il popolo giudichi qual è la migliore e lo Stato laico la assuma. La democrazia mi pare funzioni così».