(CorSera) Canto XI del Purgatorio: il Padre Nostro, preghiera dell’umiltà

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E per i superbi, la lezione della «preghiera perfetta»

di GIANFRANCO RAVASI



All’improvviso, a venirci incontro è un canto innico a ritmo lento quasi fosse un corale liturgico, anche perché a intonarlo sono figure piegate sotto il peso di enormi macigni, costrette ad avanzare lentamente sulla prima cornice o cengia del monte del Purgatorio. Ed è proprio quel canto a fungere da chiave interpretativa a una mirabile pagina dantesca, striata dall’autobiografismo e suggellata da versi intenzionalmente «profetici» che fanno già balenare l’esilio futuro del poeta (vv. 140-141). Ma, prima di ascoltare quel coro che si dipana per otto terzine, cerchiamo anche noi di piegarci, come fa Dante, a sogguardare i volti ansimanti sotto l’incombere di quei massi, travolti da un’oppressione fisica e spirituale, simile all’incubo «che tal volta si sogna» (v. 27). Tre sono i personaggi riconosciuti, mentre stanno (non solo simbolicamente) espiando il più grave dei peccati, quello della superbia. Esso, infatti, era alla radice della stessa colpa originale e originaria, emblematicamente incarnata in quell’illusione del serpente: Wihjîtèm ke’ lohîm , «sarete come Dio» ( Genesi 3, 5). Dal sogno di essere elevati al trono divino eccoli ora, i superbi, curvi come schiavi; dallo sguardo che si perdeva negli spazi celesti, eccoli ora con gli occhi fissi a quella polvere a cui sono votati. Il trittico che Dante disegna è intenzionalmente esemplare, capace di delineare una trilogia di modelli negativi dello stesso vizio, l’orgoglio appunto.
Il primo a entrare in scena è Umberto Aldobrandeschi, membro di una delle più antiche e nobili casate toscane: egli rappresenta l’arroganza del sangue, l’aristocratico disprezzo della classe superiore. Le sue parole sono folgoranti: dimenticando di essere carne e di avere una «comune madre» con tutte le altre creature, ossia Eva o la terra (sempre secondo la Genesi ), «ogn’uomo ebbi in despetto», una prevaricazione che alla fine costerà a Umberto la vita.
È, però, il secondo personaggio a emozionare maggiormente il poeta. Infatti è Dante stesso che si curva a scrutarne i lineamenti e a scoprirne l’identità. Il principe dei miniatori, Oderisi da Gubbio, incarna l’orgoglio smisurato dell’artista ed è per questo che tra il poeta e lui s’intesse una consonanza particolare, anche perché era forse la miniatura – che fa «ridere le carte», come si dice nel verso 82 – la tipologia artistica più cara a Dante, tant’è vero che egli altrove ne aveva evocato, affascinato, la tavolozza: «Oro e argento fine, cocco e biacca, / indico legno, lucido, sereno, / fresco smeraldo in l’ora che si fiacca…» ( Purgatorio , canto VII, vv. 73-75).
Oderisi diventa, così, la sintesi di una più sottile superbia, quella della genialità, convinta di catturare l’infinito e l’eterno nei colori e nelle parole: non per nulla Dante, oltre a Oderisi e Franco bolognese miniatori, convoca i pittori Cimabue e Giotto e «l’uno e l’altro Guido», cioè Guido Guinizelli, poeta bolognese, e Guido Cavalcanti, poeta fiorentino. La fragilità della fama artistica è descritta con immagini fragranti e malinconiche, sulle quali ritorneremo; i versi si fanno più intensi, il ritratto del celebre miniaturista è il più appassionato, proprio perché Dante lo sente idealmente come fratello e teme di condividerne l’approdo.
Il trittico ha, però, un’ultima tavola, affidata a poche pennellate: è la volta dell’orgoglio politico, impersonato dal capitano dei Senesi nella battaglia di Montaperto (1260), il ghibellino Provenzan Salvani, «presuntuoso» di dominare sulla sua città senza rivali, travolto da quell’ hybris che afferra il cuore di chi gestisce il potere. Ma se il giudizio divino non si è completamente e duramente scagliato su di lui, ciò è dovuto a un eroico atto di umiltà compiuto dal Salvani in vita: per redimere un amico prigioniero del re Carlo d’Angiò, egli non aveva esitato a farsi mendicante per le vie di Siena così da raccogliere i fondi necessari per il riscatto.
È di fronte a questa triplice tipologia della superbia – l’aristocratica, l’artistica e la politica – che ora è possibile decifrare il significato ultimo di quel canto, risuonato in apertura alla nostra pagina. Come è facile intuire ascoltando quel coro, siamo in presenza di una parafrasi della preghiera insegnata da Cristo, il Padre Nostro , illustrato da Dante sulla filigrana del testo offerto dal Vangelo di Matteo, la versione più comune (6, 9-13; un’altra resa, più breve, è presente in Luca 11, 2-4). Perché l’Alighieri ha scelto proprio l’ oratio dominica , «l’orazione del Signore», anzi, l’ oratio perfectissima , come la definiva San Tommaso d’Aquino nella sua Summa Theologiae , o ancora il breviarium totius evangelii , la «sintesi dell’intero Vangelo», per usare l’espressione del primo scrittore latino cristiano, Tertulliano (II sec.), come preghiera dei superbi?
Proprio perché essa è per eccellenza l’invocazione della fiducia in un Altro che ti trascende, proprio perché è celebrazione di un Nome che è sopra ogni altro nome, proprio perché è esaltazione della Volontà divina che supera ogni progetto umano, proprio perché è inno alla Grazia divina, sorgente di pace verso la quale noi creature «non potem da noi», sia pure «con tutto nostro impegno», indirizzarci «s’ella non vien» incontro a noi (vv. 8-9). Senza «la cotidiana manna» – non più il semplice pane ma il dono misterioso e celeste del cibo spirituale – vanamente ci sforziamo di avanzare nell’«aspro diserto» della vita, disperatamente affannandoci (vv. 13-15). All’autosufficienza sprezzante del superbo si contrappone nel Padre Nostro il sereno affidarsi a Dio che non guarda «lo nostro merto» (v. 18), tanto esile e insufficiente.
È per questo che il canto XI del Purgatorio è percorso da un senso vivissimo della caducità e della debolezza umana, espresso in immagini e versi frementi. «Oh vana gloria dell’umane posse!», si esclama di fronte alla fama artistica, comparata a una foglia verdeggiante che ben presto si dissecca e cade («com poco verde in su la cima dura», vv. 91-92). Evocando il biblico Qohelet-Ecclesiaste e il suo havel , «vanità, vuoto, fumo» che si disperde al vento, Dante compara la fama al turbinio inconsistente dell’aria: «Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi…» (vv. 100-101). E, infine, riesumando un’altra immagine biblica cara al Salmista (90, 6) e al profeta Isaia (40, 6-7), ricorda all’umanità che «la vostra nominanza è color d’erba, / che viene e va» ed è discolorata dal Creatore (vv. 115-116).
Un messaggio severo e aspro, dunque, destinato a spazzar via ogni illusione e arroganza, nella convinzione che «Dio resiste ai superbi e dà la grazia agli umili», per usare le parole di San Pietro nella sua Prima Lettera (5, 5). Come scriveva Julien Green nel suo Diario , «non potendo fare di noi degli umili, Dio fa di noi degli umiliati» e l’Aldobrandeschi, Oderisi e Salvani ne sono una testimonianza viva e incisiva. Ma la redenzione è possibile, la purificazione è affidata a quel canto di fiducia, alla preghiera di Cristo. Essa svela anche la radicale distanza tra la fede di Dante e la nostra società che spesso ha il suo emblema in un’altra parafrasi del Padre Nostro, quella più tragica che blasfema pronunziata dal protagonista di uno dei 49 racconti di Hemingway (1938), parafrasi tutta ritmata sul Nada, il Nulla: «O Nada che sei nel Nada, sia Nada il tuo nome, venga il tuo Nada…».

CorSera 16-7-2004