Prolusione del 21 settembre 2009
«La Chiesa è sempre amica, ma non rinuncia a parlare»
Venerati e amati Confratelli, per crucem ad lucem: questa incontrovertibile e consolante regola della vita cristiana ha segnato con inopinata evidenza pubblica gli esordi del nuovo anno pastorale: è ancora vivo in noi infatti un passaggio amaro che, in quanto ingiustamente diretto ad una persona impegnata a dar voce pubblica alla nostra comunità, ha finito per colpire un po’ tutti noi: la gravità dell’attacco non può non essere ancora una volta stigmatizzata, come segno di un allarmante degrado di quel buon vivere civile che tanto desideriamo e a cui tutti dobbiamo tendere. La telefonata che il Santo Padre ha avuto la bontà di farmi, per raccogliere notizie e valutazioni sulla situazione contingente, e le parole di grande benevolenza che egli ha riservato al nostro impegno, ci hanno non poco confortato. Seguendo la sapienza della Croce, liberi da interpretazioni estranee alla logica della Chiesa e nel rispetto delle persone, tutto acquista una prospettiva diversa, e le tribolazioni – che pur non cerchiamo – diventano il germe misterioso di salvezza e di bene già in questa vita e poi per l’eternità. Questa consapevolezza, che è fonte di consolazione, non va però equivocata: la Chiesa è in questo Paese una presenza costantemente leale e costruttiva che non può essere coartata né intimidita solo perché compie il proprio dovere: «Quando i cristiani sono veramente “lievito”, “luce” e “sale” della terra, diventano anche loro (…) “segno di contraddizione”» (Benedetto XVI, Omelia nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, 7 luglio 2008). La coerenza tra la fede e la vita è tensione che attraversa e invera il cristianesimo, ed è in un certo qual senso la misura della sua sincerità: su questo davvero non possiamo accettare confusione, tanto meno se condotta con intenti strumentali o per perseguire obiettivi che nulla hanno a che fare con un rinnovamento complessivo della società in cui viviamo. Non ci manca peraltro la fiducia che, «facendo la nostra piccola parte, nella fedeltà alla vocazione che ciascuno ha ricevuto, contribuiremo a rendere diritte le vie del Signore e a salutare l’alba del suo Regno» (Benedetto XVI, Discorso sul monte Nebo, 9 maggio 2009). In questo orizzonte di fede, la Chiesa respira sempre – in qualunque circostanza – l’aria luminosa, serena e corroborante della Pasqua.
Ci ritroviamo come Vescovi del Consiglio Permanente per la nostra consueta sessione autunnale: temi importanti attendono il nostro esame collegiale e per questo invochiamo anzitutto lo Spirito che, mentre ci assiste nell’esercizio delle nostre responsabilità, ci abilita a quel discernimento sapienziale che è condizione per compiere le scelte più adeguate ai bisogni spirituali e morali – bisogni antichi e nuovi – del nostro popolo. Non ci lasceremo guidare da qualche «piccola finestra» del dettaglio, del pregiudizio o dell’incertezza, «ma dalla grande finestra che Cristo ci ha aperto sull’intera verità, guardiamo il mondo e gli uomini e riconosciamo così che cosa conta veramente nella vita» (Benedetto XVI, Omelia per le Ordinazioni episcopali, 13 settembre 2009). È questa «grande finestra» sull’eterno che ci dona prospettiva, impedisce qualsiasi ripiegamento, dilata la mente e il cuore per continuare con fiducia la missione stessa del Signore Gesù; ci induce nel contempo ad accogliere le sfide inedite della presente epoca. Guardare insieme da questa «finestra» significa servire l’uomo con gli occhi di Dio e ad un tempo gustare sempre meglio la grazia e la responsabilità della nostra comunione con il Successore di Pietro e tra noi.
Vogliamo da subito esprimere il nostro profondissimo cordoglio per i sei soldati italiani caduti in Afghanistan, vittime di un attentatore suicida. Altri quattro soldati sono risultati gravemente feriti. Oltre a questi, com’è noto, sono morti una decina di civili afgani e una cinquantina sono rimasti a loro volta feriti. Non è esagerato parlare di strage, tanto più assurda se si pensa ai compiti assolti dalla forza internazionale che opera in quel Paese e allo stile da tutti apprezzato con cui si muove in particolare il contingente italiano. Non è un caso che questo lutto, com’era successo per la strage di Nassiriya, abbia toccato il cuore dei nostri connazionali, commossi dalla testimonianza di altruismo e di dedizione di questi giovani quasi tutti figli delle generose terre del nostro Sud. E per questo il nostro popolo si è stretto alle famiglie dei colpiti con una partecipazione corale al loro immane dolore. Anche noi ci uniamo ai sentimenti prontamente espressi dal Santo Padre, e preghiamo il Signore perché conceda il premio eterno a questi fratelli defunti, la pronta guarigione ai colpiti, forza e consolazione ai parenti.
Partecipazione vogliamo esprimere al grave lutto che ha colpito la diocesi di Padova con l’assassinio – nella notte tra venerdì e sabato scorso – di don Ruggero Ruvoletto, missionario fidei donum impegnato nella periferia di Manaus, capoluogo dello Stato brasiliano dell’Amazzonia. Un delitto che da una parte segnala il clima di crescente violenza cui è esposta quella importante regione del Brasile, e dall’altra ci conferma sulle condizioni di pericolo alle quali è comunque esposto il lavoro missionario. Preghiamo per l’anima eletta di questo nostro Confratello e per il conforto dei suoi familiari e amici.
1. Un grandissimo dono alla Chiesa è venuto dal Santo Padre Benedetto XVI con la pubblicazione, agli esordi dell’estate, della sua terza enciclica Caritas in veritate. Com’è noto, la circostanza per così dire esterna che aveva suggerito una tale pubblicazione era il quarantennale della Populorum progressio, fondamentale enciclica del servo di Dio Paolo VI, definita ora emblematicamente «la Rerum novarum dell’epoca contemporanea» (n. 8). E non si tratta solo di un’efficace analogia storica, perché è lì evocato il filo rosso di una indefettibile continuità nel magistero pontificio che anche in questa occasione il Santo Padre non rinuncia di rilevare con argomenti preziosi (n. 12). Proprio alla fine dell’Ottocento, la dottrina sociale cristiana cominciò a costituirsi come singolare e articolato annuncio sulla vicenda umana per aiutare la stessa a non cadere in «una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori – talora nemmeno i significati – con cui giudicarla e orientarla» (n. 9). Ha cominciato così a delinearsi un corpus dottrinale che, attingendo al patrimonio della Tradizione sempre viva della Chiesa, prende espressione operativa in criteri orientativi dell’azione morale, restando aperto alle sollecitazioni dei processi storici e componendo «in unità i frammenti in cui spesso la (verità) si ritrova», secondo la «fedeltà dinamica a una luce ricevuta» (n. 12). Nessuna cesura, avverte il Papa, e nessuna categoria d’interpretazione spuria possono contrapporre tra loro stagioni diverse di questa dottrina che infatti si presenta come «un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo» (ib).
2. La Caritas in veritate ha cura di rilevare che, al pari di quanto successe con la Rerum novarum, anche per la Populorum progressio è in atto un «processo di attualizzazione» (ib) che, è ben noto, ha trovato una prima significativa tappa nell’enciclica di Giovanni Paolo II Sollicitudo rei socialis, la quale in qualche modo anticipò alcuni dei problemi che sarebbero seguiti alla caduta del Muro e dunque alla fine della contrapposizione frontale tra Est e Ovest. A quella prima esaltante stagione di superamento dei blocchi seguì un fenomeno nuovo, una progressiva «esplosione cioè dell’interdipendenza planetaria, ormai comunemente nota come globalizzazione» (n. 33). Il suo carattere niente affatto miracolistico, e all’inizio assai magmatico oltre che ambivalente, fu abbastanza presto chiaro alla Chiesa (cfr Giovanni Paolo II, Omelia per il Giubileo dei Lavoratori, 1° maggio 2000; Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze sociali, 27 aprile 2001; Discorso alla Fondazione Etica ed economia, 17 maggio 2001), che oggi, per l’analisi condotta da Benedetto XVI, chiede a tutti di abbandonare «atteggiamenti fatalistici», come se «le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana» (n. 42). Centrale appare in tutta l’enciclica la riconsiderazione della parola «sviluppo», che già per Paolo VI rappresentava il «cuore» del messaggio sociale cristiano, il termine che meglio incrocia da una parte le spinte sane dell’umanità e dall’altra l’ideale cristiano. Potente resta l’idea che lo sviluppo è vocazione indomita e plenaria dell’uomo, il quale non può non desiderare «di essere di più», ed è infatti su questa strada che egli, se vuole, incontra Cristo come colui che «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo» (Gaudium et spes, n. 22). Su questo punto avviene l’innesto più alto tra l’elaborazione montiniana e quella di Benedetto XVI, il quale scrive: «Proprio perché Dio pronuncia il più grande “sì” all’uomo, l’uomo non può fare a meno di aprirsi alla vocazione divina per realizzare il proprio sviluppo». E continua: «La verità dello sviluppo consiste nella sua integralità: se non è di tutto l’uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo» (n. 18), e forse è semplicemente «sviluppo disumanizzato» (n. 11). Di qui discende quella che il Papa stesso definisce la «centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo» (n. 47). Non è un caso che vari commentatori abbiano molto valorizzato questo passaggio, che non può ridursi però a slogan sterile, ma va assunto in tutta la sua pregnanza storico-sociale. E allora, da una parte, non sarà inutile notare come da questa asserita «centralità» della persona discenda nell’enciclica l’«apertura alla vita» che è «al centro del vero sviluppo» (n. 28), come pure l’esigenza, per gli Stati, «a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna» (n. 44). Dall’altra, bisognerà rilevare che la socialità, e dunque l’etica, non potranno più essere, nella mentalità dei credenti, lasciate in seconda fila rispetto alla politica o all’economia quali optional marginali, ma deve essere coestesa all’intera attività umana, anche a quella più arditamente complessa. Afferma il Papa: «Per questo, i canoni della giustizia devono essere rispettati sin dall’inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente» (n. 37). E altrove avverte: «Occorre adoperarsi non solamente perché nascano settori o segmenti “etici” dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche, e lo siano non per l’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura» (n. 45). In altre parole, chiamata in causa è qui l’intera l’economia, che deve poter andare «oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso» (n. 38), e in particolare il mondo del lavoro e delle imprese dove sono oggi richiesti «profondi cambiamenti» (n. 40). Non c’è dubbio infatti che si vada dilatando «la consapevolezza circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell’impresa» e che si stia sempre più diffondendo il convincimento in base al quale «la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa» stessa (n. 40). Nel contempo, e specularmente, ad ogni lavoratore deve essere offerta «la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso sappia di lavorare in proprio» (41). Insomma, la carità nella verità è «un’esigenza della stessa ragione economica» (n. 36). Parole severe l’enciclica riserva sul tema della disoccupazione (n. 25), in linea con quello che è da sempre il magistero della Chiesa.
3. È l’intero arco dell’esperienza in re sociali che passa, senza reticenze, sotto la lente della Caritas in veritate. Non c’è aspetto incluso nella dinamica sociale, infatti, che non venga considerato e, se occorre, ricollocato secondo una visione innovativa e dinamica insieme: «In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l’impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle nazioni». A partire da questo criterio fondamentale, l’enciclica si rivela un testo provvidenziale, che offre una cornice solida entro cui cercare risposte all’altezza dei grandi cambiamenti in atto, in particolare dei cambiamenti esigiti da quella crisi economico-finanziaria che nell’ultimo periodo ha investito il mondo intero. Nel momento stesso infatti in cui sembra farsi strada l’idea che questa crisi non sia poi troppo diversa da quelle che l’hanno preceduta, e per qualcuno si potrà quindi tornare senza più pericoli all’esuberanza del passato, l’enciclica assesta un opportuno scossone, affinché non si diffondano comode o improponibili illusioni. Se, come effettivamente succede, cresce la ricchezza del mondo ma aumentano le disparità, nessuno può ritenersi tranquillo. Se continua lo scandalo di un supersviluppo dissipatore a fronte di povertà sempre più desolanti, se le distorsioni gravi e gli effetti deleteri di un’attività finanziaria mal utilizzata quando non speculativa continuano a ricadere sulla fasce più indifese della popolazione mondiale, se la corruzione e l’illegalità non vengono arginate e superate, se i vari protezionismi economici e culturali non sono riconsiderati per la quota di egoismo che racchiudono, se le politiche degli aiuti internazionali non seguono una logica meno auto-referenziale e dunque più efficiente, se i piani di cooperazione intergovernativi non approdano a concrete e verificate realizzazioni, se gli organismi internazionali non recuperano uno scatto di iniziativa, se i poteri pubblici non sapranno rinnovare la loro capacità di presa sui problemi, e se proporzionatamente non crescerà una più sentita partecipazione dei cittadini alla res publica, se tutto questo e altro ancora non comincia ad accadere allora davvero questa crisi si sarà dispiegata invano, limitandosi ad impoverire il mondo. Già lo sapevamo, è una crisi di sistema che ha come inceppato gli oliati meccanismi di un’economia inadeguata alle complessità delle sfide attuali, e da essa non si esce – osserva il Papa – senza «riprogettare il nostro cammino», senza «darci nuove regole» e «trovare nuove forme di impegno», senza «puntare sulle esperienze positive e rigettare quelle negative». Deve cioè guadagnare un’evidenza maggiore la consapevolezza che solo «la via solidaristica allo sviluppo dei Paesi poveri possa costituire un progetto di soluzione della crisi globale» (n. 27). Il che include un «allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa» (Benedetto XVI, Discorso all’Università di Regensburg, 12 settembre 2006, cit. in Caritas in veritate, n. 31), per «renderla capace di conoscere e di orientare queste imponenti nuove dinamiche» (n. 33) all’interno di una nuova sintesi umanistica (cfr. n. 21). Solo se ci poniamo lungo questa strada, la crisi si rivelerà, nella sua durezza, un’«occasione di discernimento e di nuova progettualità» (cfr n. 21).
A questo riguardo, com’è noto, nello scorso mese di luglio si è svolto all’Aquila un’importante riunione dei Paesi del G8 che si è via via allargato coinvolgendo altre nazioni, fino a configurare ipotesi concrete di nuovo governo dell’economia del mondo. Si è trattato di un appuntamento importante, dal quale sono scaturite decisioni che in una certa misura già si collocano su logiche innovative, quali sono suggerite dalla recente enciclica papale. In particolare, citiamo il Fondo annunciato per fronteggiare la grave emergenza alimentare, e che attende di essere ora concretamente partecipato e quindi efficacemente distribuito. Come Vescovi italiani, nel momento stesso in cui ringraziamo con tutto l’affetto il Papa per il dono di questa enciclica, destinata alla Chiesa ma come non mai messa a disposizione all’intelligenza del mondo, non possiamo non incoraggiare queste nuove dinamiche, auspicando che il nostro Paese sia un protagonista avveduto e coraggioso dei nuovi scenari.
4. A proposito di inventiva e fervore caratterizzanti questo pontificato, un’altra iniziativa indetta dal Santo Padre sta riscontrando un largo e spontaneo consenso, come si fosse individuata un’esigenza profonda ma ancora inespressa. Mi riferisco all’Anno Sacerdotale, aperto il 19 giugno scorso, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù. Con ogni evidenza si tratta di un progetto che anzitutto coinvolge la Chiesa ad intra, e tuttavia sarebbe un errore pensare che anche ogni uomo e ogni donna del nostro tempo, per quanto distratti o estranei alla presenza del sacerdote, non ne siano in qualche modo invece i destinatari. Non è forse nella memoria delle nostre Chiese la testimonianza di preti che, inviati in situazioni pastorali difficili, in contesti aridi, con una partecipazione esternamente minoritaria, riescono a stabilire con gli abitanti di quelle comunità un piano di comunicazione asimmetrica finché si vuole ma viva, affidabile, perseverante, discreta eppure intraprendente, tale da invertire un declino che sembrava segnato? E non abbiamo forse tutti già chiaro, e così non è già per il nostro popolo, che queste figure di sacerdoti riescono ad incidere non tanto per la visione sociologica o l’indotto di costume, quanto per l’intimità della loro vita con il Signore? Noi fermamente crediamo che i giovani di oggi, quale che sia il loro stile di vita e l’ordine delle loro scelte; i ragazzi, per quanto avvolti nelle spire pervasive della cultura mediatica; le famiglie di oggi anche variamente assortite e per quanto remote all’invito della Chiesa; gli anziani soli, i poveri abbandonati a se stessi, gli ammalati, gli arrabbiati con la vita, insomma i soggetti più diversi che vivono tra noi, tutti siano magari inconsapevolmente interessati agli esiti interiori di questo appuntamento. Qui, infatti, sta il punto, come il Santo Padre l’ha esposto nella Lettera indirizzata per l’occasione ai presbiteri di tutto il mondo: l’Anno Sacerdotale «vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo d’oggi». Parole semplici o, se si vuole, piane, che fanno appello però in maniera determinante alla qualità e al contenuto dell’auto-coscienza che ogni sacerdote deve avere di sé: non ci può essere infatti una vita di dono senza un soggetto adeguato che la guida e la gestisca, senza cioè la coscienza della propria chiamata originaria e dell’incontro sorgivo con il Chiamante.
Ma si può ben illustrare l’Anno Sacerdotale anche a partire da una frase del Santo Curato d’Ars: «Il Sacerdote è l’amore del cuore di Gesù» (cfr B. Nodet, Jean-Marie Vianney, Curé d’Ars, 100), che il Papa commenta: «Come non ricordare con commozione che direttamente da questo Cuore è scaturito il dono del nostro ministero sacerdotale?». E appena prima: «Il cuore di Dio freme di compassione […] si commuove e riversa tutto il suo amore sull’umanità» (Benedetto XVI, Omelia per l’inaugurazione dell’Anno sacerdotale, 19 giugno 2009). Ed indica con parole felici un incandescente profilo di questi amici di Dio che sono indispensabili agli uomini. Mi limito ad osservare che il Santo Padre invita ad annotare e assumere non concetti astratti, o nuove elaborazioni teologiche, ma «il metodo pastorale» di San Giovanni Maria Vianney, e dal metodo pastorale ossia dalla sua concreta testimonianza risalire al senso della grandezza e dello stupore, scorgere come coincidono persona e missione, misurare il senso sconfinato della responsabilità, l’aprirsi ad un inconfondibile dialogo di salvezza con i fedeli laici, l’accendere con la presenza davanti all’Eucaristia un circolo virtuoso che può ribaltare un intero contesto pastorale, individuare preventivamente i rischi di un intorpidimento dell’anima, un vivere originalmente in mezzo al popolo i consigli evangelici, insomma un lasciar intuire e rimpiangere in quanti lo vorranno il fascino dell’amore misericordioso di Dio. Dicevo del consenso che quest’anno sta riscuotendo, e infatti le nostre diocesi si sono messe alacremente all’opera ed è un fiorire di Lettere da parte dei Vescovi e di progetti precisi, spesso articolati, da parte delle Chiese locali. Non c’è chi non veda infatti oggi un’occasione propizia per sbalzare meglio la figura del presbitero, rilanciarne il ruolo e la missione magari a fronte di qualche stanchezza, stringere relazioni presbiterali forse in qualche caso un po’ spente, rinvigorire il rapporto confidente con il Vescovo, promuovere finalmente il laicato senza per questo trascurare proprio i sacerdoti.
Un ringraziamento sentito desideriamo insieme rivolgere al Papa per la sua continua peregrinazione in mezzo al nostro popolo cristiano: in questi ultimi mesi egli ha toccato la terra di Puglia, con il viaggio a San Giovanni Rotondo, il 21 giugno 2009, la Val d’Aosta, da dove il 19 luglio ha raggiunto la diocesi di Ivrea e precisamente Romano Canavese, terra natale del Cardinale Segretario di Stato, e infine domenica 6 settembre la diocesi e la città di Viterbo. Ci rallegriamo con i Confratelli Vescovi di queste Chiese per il felice esito di questi importanti pellegrinaggi.
5. Un argomento di indubbia importanza ha solcato il dibattito estivo sviluppatosi tra un giornale e l’altro del nostro Paese, quello del nichilismo. Esso ha preso le mosse dalle parole pronunciate da Benedetto XVI prima della preghiera dell’Angelus di domenica 9 agosto. Parlava di Edith Stein e di Massimiliano Kolbe, martiri uccisi ad Auschwitz, nei lager che, «come ogni campo di sterminio, possono essere considerati simboli estremi del male, dell’inferno che si apre in terra quando l’uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di dare la vita e la morte». E continuava: «Purtroppo però questo triste fenomeno non è circoscritto ai lager. Essi sono piuttosto la punta culminante di una realtà ampia e diffusa, spesso dai confini sfuggenti. I santi […] ci fanno riflettere sulle profonde divergenze che esistono tra umanesimo ateo e umanesimo cristiano; un’antitesi che attraversa tutta quanta la storia, ma che alla fine del secondo millennio, con il nichilismo contemporaneo, è giunta ad un punto cruciale» (Saluto all’Angelus, 9 agosto 2009). Ebbene, con qualche rammarico abbiamo notato come su queste parole sia sorto subito un evidente fraintendimento, quasi che per il Papa l’umanesimo non cristiano sia automaticamente nichilista e che il nichilismo porti invariabilmente ai lager. Il suo discorso era naturalmente assai meno semplicistico, come si può facilmente evincere da una lettura serena dell’intero suo testo. Il cristianesimo non esclude ciò che è il portato di vita di ciascuno, ossia che ci possano essere persone non credenti capaci di una loro moralità forte, estranee alla tentazione nichilista. Ma bisogna fare attenzione per non edulcorare mai questo ospite inquietante del nostro tempo. Il nichilismo non è paragonabile ad una qualsiasi posizione filosofica. Se la sua sostanza, sempre identica a se stessa, è il nulla, il non senso, esso si manifesta sotto varie espressioni − dallo scetticismo esistenziale al libertarismo − che però non devono trarre in inganno, trattandosi sempre di un avversario terribilmente serio, mai da trattare con dilettantismo. Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti, e tuttavia mi sembrano utili due osservazioni. La prima: se Dio non c’è, e dunque tutto manca di fondamento, diventa arduo se non impossibile giustificare la differenza qualitativa e irriducibile dell’uomo rispetto al resto della natura, e diventa ugualmente arduo se non impossibile riconoscere la libertà intesa in senso proprio, come facoltà squisitamente umana, sottratta alla casualità. Vi è un discutere, talora, che lascia interdetti: bisognerebbe evitare che il gusto dell’azzardo intellettuale porti a tagliare il ramo stesso sul quale ci si trova a disquisire. Seconda osservazione: se, come esige il nichilismo, anche solo parlare di princìpi è considerata una deriva liberticida ed autoritaria e si ritiene lesivo dell’intelligenza qualsiasi riferimento ad un bene oggettivo che preceda le nostre scelte, allora davvero educare diventa un’impresa impossibile. Nonostante gli esiti di estraneazione e smarrimento cui è pervenuta una parte non irrilevante della nostra società, in particolare della popolazione giovanile, si ha come l’impressione che siano troppo pochi coloro che accettano di fare effettivamente i conti con questo tarlo inesorabile che polverizza ogni voglia di futuro. E per converso siano ancora troppi i maestri che lusingano i giovani indicando loro un «dio sbagliato» (ib). Si ambienta in un simile contesto culturale – a me pare – l’invito che Papa Benedetto aveva rivolto quindici giorni prima ai sacerdoti di Aosta: «Dio! Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente» (Omelia ai Vespri nella Cattedrale di Aosta, 24 luglio 2009). Questa non è, come qualcuno potrebbe pensare, un’apologetica scontata: parlare di Dio è aprire, spalancare la vita a tutte le sue positive virtualità, nessuna esclusa; offrire la bussola per non smarrire gli orizzonti dell’essere; rivelare «l’insieme di tutte le relazioni per trovare la strada, l’orientamento dove andare» (ib). Mai dimenticarlo: l’uomo rischia di non scoprirsi veramente libero fino a quando non comprende la verità di essere stato creato libero da un Altro, più grande di lui.
Ma qui cominciamo ad avventurarci in quel grande tema dell’emergenza educativa che sarà il centro del nostro prossimo piano pastorale. A questo stesso argomento è dedicato il rapporto-proposta che, curato dal Comitato per il Progetto culturale, ha visto la luce appena una settimana fa. Esso si annuncia come uno strumento stimolante di riflessione e di confronto che varrà la pena rilanciare nelle singole realtà ecclesiali, anche come degno pretesto per un dialogo con altre agenzie che sul territorio avvertono al pari di noi i morsi, appunto, dell’emergenza educativa.
6. Sempre questa estate, il Tar del Lazio accoglieva il ricorso presentato da un variegato cartello di associazioni laiciste ed esponenti di altre confessioni religiose non cattoliche, con il quale si chiedeva che l’insegnamento di religione non produca crediti aggiuntivi nella valutazione scolastica di quel 91 per cento degli studenti che liberamente scelgono di avvalersi di tale insegnamento. Le motivazioni di questa iniziativa appaiono speciose, perché in nome di una supposta non discriminazione, di fatto si finisce – e come – per discriminare la stragrande maggioranza degli studenti. Opportunamente, il Ministero della Pubblica Istruzione ha già avanzato ricorso al Consiglio di Stato, ribadendo con altro suo atto la validità della presenza dell’insegnamento di religione nel curriculum scolastico. Occorre dire che la sentenza ha suscitato immediatamente una vivace reazione che ha visto tra i protagonisti la nostra Commissione episcopale per l’Educazione cattolica, la scuola e l’università e gli stessi insegnanti di religione. Soprattutto da loro è venuta un’importante segnalazione: questa reiterata offensiva, su un punto apparentemente limitato della normativa in atto già passata al vaglio di altre sentenze, può fuorviare dal nocciolo della vera questione, depotenziando l’aspetto motivazionale legato all’interesse per la conoscenza del fenomeno religioso. Occorre osservare che la posizione italiana sull’argomento è in sintonia con i più avanzati sistemi scolastici nazionali. Fa testo la Lettera diffusa nel maggio scorso dalla Congregazione vaticana per l’Educazione cattolica, e della quale l’opinione pubblica ha avuto notizia nelle settimane scorse. Vi si legge, tra l’altro: «La specificità di quest’insegnamento non fa venir meno la sua natura propria di disciplina scolastica, con la stessa esigenza di sistematicità e rigore delle altre discipline». Non richiede cioè l’adesione di fede, ma assicura una riflessione argomentata sulle grandi domande di senso e sulla religione cattolica che offre i codici indispensabili per decodificare i segni della storia, dell’identità, dell’arte e della musica dell’Occidente, ma non solo (cfr Benedetto XVI, Discorso agli Insegnanti di religione cattolica, 25 aprile 2009). Per cui parlare in modo sbrigativo di catechismo di Stato finisce per far incespicare quell’indispensabile e prezioso dialogo interculturale, per altri versi e in altri contesti auspicato.
Ma è sullo stesso strumento concordatario che di tanto in tanto si riversano riserve e velleitarismi anche da settori insospettabili dell’opinione pubblica. Trascorsi ormai venticinque anni dalla felice riforma che ha riguardato il Concordato in vigore nel nostro Paese, risulta ulteriormente confermata l’importanza e l’attualità di quel grande accordo di libertà che accomuna Stato e Chiesa non solo nel riconoscimento della reciproca autonomia, ma anche nell’impegno condiviso di collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese. Ci rafforziamo dunque in questa convinzione: se restiamo costantemente aperti al confronto con tutte le posizioni culturali, la nostra Chiesa potrà uscirne migliorata, senza tuttavia trovarsi per ciò stesso condizionata negli orientamenti e nelle scelte da operare. La nostra comunità ecclesiale ha davanti a sé infatti una stagione fervida di incontri e impegni annunciati nel segno della sinergia intellettuale rispetto a sensibilità diverse dalla propria, e ciò non per un eclettismo fine a se stesso, ma perché approfondendo continuamente la nostra identità, e mai rinunciando ad essa, non possiamo non avvertire il vincolo che ci lega all’autentica ricerca condotta da tante persone nei vari campi dell’attività umana. In altri termini, la Chiesa pellegrina in Italia non indietreggia, e mai rinuncerà – secondo la sua tradizione – ad un atteggiamento di apertura virtuosa collaudato negli anni, e spera che altri si affaccino o continuino ad affacciarsi nell’agorà pubblica con onestà e passione, amore disinteressato per le sorti comuni, autentica curiosità intellettuale, in vista – se ci saranno – di alcune convergenti sintonie .
7. Questo ci porta a dire una parola proprio sulla nostra Chiesa, le sue aspirazioni, il suo essere lievito e luce nella storia: lievito che s’ immerge nella pasta umana come il Verbo Eterno per assumere e condividere, luce posta sul candelabro per far brillare la bellezza salvifica del Vangelo e la verità piena dell’uomo creato e redento. La Chiesa ha dunque lo sguardo fisso su Gesù; da Lui, e dalle sue sorprese divine, è incantata e innamorata. Le sue energie migliori sono indubitabilmente riversate sull’impegno apostolico perché le anime incontrino il Signore, sentano il suo amore, vivano la vita con lui, e – insieme ai fratelli – partecipino alla costruzione di una società vera e giusta. Basta pensare ai nostri cari sacerdoti che, nelle parrocchie come in ogni altro ufficio, mai danno mai scontata la fede, e si dedicano incessantemente per alimentarla e trasmetterla. A loro va la nostra gratitudine e il rinnovato affetto in questo Anno Sacerdotale. Credo valga per tutti noi ciò che Benedetto XVI diceva in particolare alla diocesi di Roma: «C’è oggi il rischio di una secolarizzazione strisciante anche all’interno della Chiesa, che può tradursi in un culto eucaristico formale e vuoto, in celebrazioni prive di quella partecipazione del cuore che si esprime in venerazione e rispetto per la liturgia. È sempre forte – continuava – la tentazione di ridurre la preghiera a momenti superficiali e frettolosi, lasciandosi sopraffare dalle attività e dalle preoccupazioni terrene» (Omelia del Corpus Domini, Santa Maria Maggiore, 11 giugno 2009). Su questo fronte c’è un esame di coscienza continuo da condurre per l’impegno di fedeltà e di amore dovuto a Cristo Gesù. L’essere noi, in Italia, una Chiesa di popolo che tale si conserva con suoi connotati e sue proprie caratteristiche, nonostante il processo di scristianizzazione in atto in tutto l’Occidente, non comporta certo alcuna attenuazione delle esigenze che si presentano a chi vuole seguire il Signore, il quale «non si contenta di una appartenenza superficiale e formale, non gli è sufficiente una prima ed entusiastica adesione; occorre, al contrario, prendere parte per tutta la vita al suo pensare e al suo volere […] (che) comporta difficoltà e rinunce perché molto spesso si deve andare controcorrente» (Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 23 agosto 2009). Vorremmo che le nostre comunità crescessero senza sosta in una fede pensata, che si concepisce nella forma della comunione ecclesiale in riferimento al Magistero ascoltato e amato. Una fede per ciò stesso capace di dare a tutti ragione della speranza cristiana (cfr 1Pt 3,15), affrontando le sfide antropologiche che caratterizzano questa stagione e che chiedono ai cattolici di essere presenti e propositivi grazie ad una ragione illuminata dalla fede. La Chiesa, quando parla di temi antropologici, lo fa non per invadere campi di competenza altrui, o ancor meno per distogliersi dal proprio Signore, ma per il dovere di trarre le conseguenze necessarie dal mistero di Cristo, che rivela all’uomo le sue reali dimensioni, esattamente come insegna il Concilio Vaticano II. L’etica evangelica non è una gabbia che si vuole imporre alla libertà, ma la via della vera umanizzazione (cfr. GS, 22). Essa è intrinseca alla fede proprio perché una fede che non diventi pratica coerente resta fuori dalla vita. La Chiesa offre questo servizio con la passione che nasce dall’amore verso Dio e verso l’umanità, senza arroganza o pregiudizio.
Inoltre, siamo ben coscienti che gli altri, guardandoci, hanno il diritto di ricevere da noi, dal tessuto della nostra vita comunitaria, una testimonianza genuinamente cristiana. E anche quando i punti di vista possono essere legittimamente diversi, non possiamo comportarci in maniera triste, come quelli che non hanno speranza (cfr 1Tess 4,13). Come non ricordare l’ammonimento del Papa, a proposito di certi atteggiamenti, confrontati con quelli dei Gàlati: c’è un «mordere e divorare» che esiste «anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata» (cfr Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica, 10 marzo 2009)? Più di recente ha puntualizzato: «Le cose nella società civile e, non di rado, anche nella Chiesa soffrono per il fatto che molti di coloro, ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità, per il bene comune […]. La prudenza esige la ragione umile, disciplinata e vigilante, che non si lascia abbagliare da pregiudizi: non giudica secondo desideri e passioni, ma cerca la verità – anche la verità scomoda» (Omelia per le Ordinazioni episcopali, cit.). E all’Angelus di ieri incalzava ancora: «Ai nostri giorni, forse per certe dinamiche proprie delle società di massa, si constata non di rado un carente rispetto della verità e della parola data, insieme ad una diffusa tendenza all’aggressività, all’odio e alla vendetta. […]. Ma per fare opere di pace bisogna essere uomini di pace» (Saluto all’Angelus, 20 settembre 2009).
8. Una parola vorremmo dire sul nostro Paese, su questa Italia che con grande dignità ha saputo fino ad oggi affrontare una crisi economica che l’ha complessivamente impoverita, chiedendo sacrifici pesanti a tutti, e soprattutto ai meno abbienti. Questa Italia ci appare ciclicamente attraversata da un malessere tanto tenace quanto misterioso, che non la fa essere talora una nazione serena e del tutto pacificata al proprio interno, perché attraversata da contrapposizioni radicali e da risentimenti. Questa stessa Italia, nostra patria, chiede a tutti e a ciascuno un supplemento di amore, un amore fiducioso anche nel coinvolgimento degli altri, un amore capace – nel discernimento sapiente – di inglobare pure le ragioni diverse dalle proprie, rinunciando innanzitutto alla polemica pur di raggiungere un consenso sulla verità più generale. In quest’ottica, non vi è dubbio che compito essenziale della politica è la giustizia, e quindi la promozione del bene comune, ossia del bene «di quel “noi tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale» (Caritas in veritate, n. 7). Dunque, un bene non impersonale né qualunquistico, ma rivolto a persone concrete: «È prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende la forma di polis, di città» (ib). Servire gli altri secondo questa «via istituzionale – possiamo anche dire politica – della carità» non è meno qualificato e incisivo «di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori dalle mediazioni istituzionali della polis» (ib). È il motivo per cui la Chiesa non cessa di raccomandare ai giovani e all’intero laicato la strada non solo del volontariato sociale, ma anche della politica vera e propria, nelle sue diverse articolazioni, quale campo di missione irrinunciabile e specifico (l’invito più recente del Papa è quello espresso a Viterbo, domenica 6 settembre 2009). Il criterio fondamentale per una onesta valutazione dell’agire politico è dunque la capacità di individuare le obiettive esigenze delle persone e delle comunità, di analizzarle e di corrispondervi con la gradualità e nei tempi compatibili. È, in altre parole, il criterio della reale efficacia di ogni azione politica rispetto ai problemi concreti del Paese.
Occorre, inoltre, che chiunque accetta di assumere un mandato politico sia consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda (cfr art. 54).
Come Vescovi di questo amato Paese sottolineiamo anche noi con il Papa «l’importanza dei valori etici e morali nella politica» ad ogni livello (Saluti all’Udienza generale, 1 luglio 2009). E invitiamo tutti – singoli, gruppi, istituzioni − a guardare avanti, a far tesoro dell’esperienza con una capacità di autocritica che sia in grado di superare un clima di tensione diffusa e di contrapposizione permanente che fa solo male alla società. È urgente e necessario per tutti e per ciascuno guadagnare in serenità. Questo oggi il Paese domanda con più insistenza. È bene in ogni caso essere consapevoli che la comunità cristiana mai potrà esimersi dal dire – sulla base di un costume di libertà che sarebbe ben strano fosse proprio a lei inibito – ciò che davanti a Dio ritiene sia giusto dire. Peraltro, anche quando annuncia una verità scomoda, la Chiesa resta con chiunque amica. Essa infatti non ha avversari, ma davanti a sé ha solo persone a cui parla in verità, dunque mai con parole che possano essere scambiate o accomunate a quelle legittimamente espresse in nome della politica o del costume. Questo servizio, che consegue alla nostra missione di Pastori, non può non essere colto nel suo intreccio di verità e carità, e rimane vivo e libero da qualsiasi possibile strumentalizzazione di parte. Esso è illuminato dalla luce di Cristo e, nel contempo, dalla consapevolezza che «la ragione e la fede collaborano nel mostragli (all’uomo) il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell’uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale» (Caritas in veritate, n. 75). D’altro canto, come Vescovi, se avvertiamo necessaria una costante e umile verifica della condotta nostra e delle nostre comunità, siamo tuttavia consapevoli di non poterci mai sottrarre al dovere di testimoniare e annunciare la verità, ed essere cioè quel «segno di contraddizione» rispetto allo spirito del mondo di cui parla il Vangelo (cfr Lc 2, 34-35). Sappiamo pure che nel cuore di ciascuno sono impressi indelebili i segni della bellezza che è Dio, e dunque della nostalgia verso le cose grandi e di una sempre rinascente volontà di bene. Sono queste attitudini a sostenere la fiducia della gente semplice, nel porre in essere ogni giorno le piccole scelte di giustizia e di carità, di impegno e di sacrificio, che spostano la bilancia del mondo.
9. Nell’agenda della vita socio-politica nazionale, sono in evidenza questioni importanti, alcune delle quali non possono – per la valenza etico-umanistica che racchiudono – non interessare il nostro ministero. Niente ci è più estraneo della volontà di far da padroni: cittadini di questo Paese, conosciamo bene i principi e le regole che reggono una democrazia pluralista, nella quale tuttavia le religioni sono presenze né abusive né sconvenienti, puntando esse in tutta trasparenza, e fuori da ogni logica mercantile, al colloquio con le coscienze e alla lievitazione della riflessione comune. La stessa memoria degli impegni solennemente assunti da ogni forza politica al momento del voto, si pone per noi su quel livello della pertinenza etica che è intrinseco ad una partecipazione vitale di tutti i cittadini alla costruzione della polis.
9.1. Sulla pillola Ru486 − su cui è stata assunta una decisione controversa, sottovalutando probabilmente, e a giudizio di molti, le notizie circa i casi avversi − noi abbiamo detto già in più occasioni quello che era doveroso dire. Ossia che è una decisione solo apparentemente rispettosa della libertà, in quanto annulla i diritti di una delle parti in causa, la più indifesa, cioè della vita appena affiorata ma già reale. E anche nei confronti della donna, il principio di precauzione poteva e doveva suggerire altre cautele. Lo stesso vincolo ad un ricorso al farmaco solamente tramite ricovero ospedaliero, al di là delle obiezioni che esso incontra e a misure sempre meno rigorose che la prassi in simili casi finisce per incoraggiare, nei fatti non determina quell’allerta adeguato che la natura del farmaco imporrebbe. Su tutto ci pare che emerga il rischio di una ulteriore banalizzazione del valore della vita, con l’incremento di una mentalità secondo cui l’aborto stesso finisce per essere considerato un anticoncezionale. Che è esattamente ciò che la controversa legge 194 nella sua prima parte esclude. Si è ora in attesa delle delibere tecniche che dovrebbero essere emesse a breve, e soprattutto si è in attesa di quel dibattito parlamentare che potrà consentire di arrivare ad una maggiore verità sul farmaco stesso, e su ciò che ha già obiettivamente causato anche in varie altre nazioni. Ci pare giusto ribadire il collegamento stretto che intercorre «tra etica della vita ed etica sociale nella consapevolezza che non può avere solide basi una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata» (Caritas in veritate, n. 15).
9.2. Riguardo al “fine-vita” – tema sul quale abbiamo dovuto purtroppo registrare in questi ultimi giorni un pronunciamento quanto meno ambiguo – attendiamo una legge che possa scongiurare nel nostro Paese altre situazioni tragiche come quella di Eluana. È ora alla Camera l’articolato di legge già approvato al Senato, che attende di essere discusso in sede di Commissione. Nel rispetto delle prerogative del Parlamento, ci limitiamo ad auspicare che un provvedimento, il migliore possibile, possa essere quanto prima varato a protezione e garanzia di una categoria di soggetti tra i più deboli della nostra società, senza lasciarsi fuorviare da pronunciamenti discutibili. In questo senso, il lavoro già compiuto al Senato è prezioso, perché dice la volontà di assicurare l’indispensabile nutrimento vitale a chiunque, quale che sia la condizione di consapevolezza soggettiva. Osserva il Papa: «Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratterizza persino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è?» (Caritas in veritate, n. 75).
9.3. Ho lasciato volutamente per ultima la questione immigratoria, che è fenomeno che impressiona per il numero di persone coinvolte, per i drammi cui dà vita, per le problematiche di vario ordine che solleva, per le sfide che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale. Confermati dalle valutazioni che il Papa offre nella sua ultima enciclica, dobbiamo qui ripetere ciò che è già nella convinzione di molti e su cui ci siamo già soffermati in occasione dell’ultima Assemblea episcopale di maggio, ossia che si è di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, da inquadrare in una vigorosa e lungimirante politica di cooperazione internazionale (cfr Caritas in veritate, n. 63). Infatti, allorché si tenta di dirimere il fenomeno entro parametri più ristretti, di fatto esso sfugge da ogni parte. E d’altro canto, l’appello a procedere celermente attraverso soluzioni internazionali e multilaterali non può rappresentare una via di fuga solo dialettica rispetto alle emergenze concrete e lancinanti che nel frattempo si avvicendano. A più riprese l’Italia ha cercato negli ultimi lustri delle risposte alle questioni provenienti dai flussi migratori, e ultimamente ciò è accaduto con il varo delle disposizioni in materia di sicurezza pubblica, sulle quali in verità non sono mancate da parte cattolica riserve variamente espresse. Ora, tenuto saldo il criterio esposto nella Caritas in veritate (al n. 9), secondo cui «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende minimamente di intromettersi nella politica degli Stati», bisogna osservare che vi è la necessità di soluzioni in grado di contemperare esigenze diverse ma, a guardare bene, non antitetiche. Il rispetto della legalità e della sicurezza dei cittadini non può essere disgiunto dalla garanzia dei diritti umani riconosciuti nell’ordinamento nazionale e internazionale, né può portare a trascurare stati di necessità e doveri da sempre radicati nel cuore della nostra gente. L’esclusione dal circuito della legalità può dar luogo infatti a non previste situazioni di ulteriore auto-emarginazione delle persone, indotte per la paura a nascondersi e a ritirarsi definitivamente dalla fruizione di servizi essenziali che le strutture pubbliche fino a ieri garantivano a tutti. In altre parole, i problemi che si tenta di risolvere per una certa via fatalmente ritornano, riproponendo l’esigenza di dispositivi meglio calibrati, come opportunamente è stato fatto per le badanti. È illuminante ricordare il criterio di recente enunciato: «Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione» (Caritas in veritate, n. 62)
10. Termino segnalando come la vicina ricorrenza dei 150 anni dall’Unità dell’Italia debba trasformarsi in una felice occasione per un nuovo innamoramento del nostro essere italiani, dentro l’Europa unita e in un mondo più equilibratamente globale. Storici ed esperti vari hanno discusso negli ultimi mesi sul carattere dei festeggiamenti e sulle opere da lasciare a ricordo. Noi pensiamo che ci sia qualcosa di importante da far succedere nelle coscienze, il riflettere cioè sulla base secolare del nostro essere – alla radice – italiani, segnati da confini così caratteristici che è impossibile guardare sulla carta geografica l’Italia e non pensare ad una sua naturale vocazione unitaria. Certo, la storia e il costume ci hanno insegnato ad apprezzare le articolazioni, i diversi territori, le città, ma tutto questo ormai in un invincibile processo di coesione per valorizzare le appartenenze confluenti nell’unità della nazione, a sua volta inserita in processi di cittadinanza sempre più ampi. Servono visioni grandi, non per fare della retorica, ma per nutrire gli spiriti e seminare nuovo, vitale ottimismo. Ha ragione chi dice che l’anniversario deve alimentare la cultura dello stare insieme, di questo c’è oggi bisogno, abbassare le difese e gettarci maggiormente nell’incontro con gli altri. In questo, le nostre comunità cristiane distribuite a reticolo continueranno a fare la loro parte. L’Italia sa che può contare sempre sulla Chiesa, sulle sue risorse e sulla sua leale dedizione, sul suo spirito di sacrificio e la sua volontà di dono.
Cari Confratelli, grazie per il vostro generoso ascolto e grazie per il confronto che da esso scaturirà, e che sarà importante quanto l’avvio. La nostra Conferenza è unita, unita a Pietro, suo primate, e unita al proprio interno dai vincoli che scaturiscono dall’ordinazione episcopale ma anche dalla profonda stima e dalla considerazione in cui ciascuno tiene l’altro. Di questo sento di dovere a voi, e a tutti i confratelli un grazie speciale. Ci assistano in coro i Santi Patroni delle nostre Chiese, ci assistano San Francesco e Santa Caterina. Maria Santissima, così venerata dal nostro popolo, ci ottenga dal Figlio le grazie di cui abbiamo bisogno.