Il Papa e i monasteri di clausura Oasi ossigenanti il nostro mondo arso Marina Corradi
Chi abbia varcato almeno una volta il portone di un convento di clausura sa come già nel parlatorio, tra le pareti bianche dominate dal Crocefisso e davanti alla grata spessa che separa lo spazio delle monache da quello dei visitatori, possa succedere di essere presi da un sentimento diviso tra l’attrazione, e una sottile paura. Paura, nell’ospite di passaggio, per quel grande e improvviso silenzio, così inconsueto ormai fuori da quelle mura, che quasi ti sommerge, molto più forte del nostro quotidiano rumore. Per quel portone massiccio che ti si è chiuso pesantemente alle spalle, con un tonfo sordo che pure non ti è sfuggito, come avesse scandito la cesura fra due diversi mondi. E l’attrazione, invece, o addirittura il fascino, di quello stesso silenzio. Della pace che leggi in faccia alla suora oltre la grata, senza le rughe di fatica e di rabbia che vengono a tutti, fuori, invecchiando. Per quel Crocefisso nero e incombente nel parlatorio, che ti immagini sui muri in ogni cella, muta presenza, assoluto signore della casa.
«Oasi», ha definito Benedetto XVI i monasteri di vita contemplativa nell’Angelus di domenica, in vista della giornata Pro Orantibus di oggi. Dove anche oggi, ricorda il Papa, uomini e donne vanno, abbandonando studio e carriere, per quelle celle austere. Testimoni come santa Teresa d’Avila che «Todo se pasa, Dios no se muda». Che la roccia, nei millenni, resta unica e uguale.
Ma, è la domanda tipica di un cristianesimo anch’esso toccato dall’attivismo, dall’urgenza del “fare”, se non dal calcolo dei costi e benefici, perché rinchiudersi in un monastero e chiudere dentro a quelle mura anche le proprie capacità, e i talenti? Benedetto XVI si è fatto carico di questa domanda, come già Giovanni Paolo II nel 1980, in visita al convento di Lisieux. Già allora il Papa aveva sollevato la questione dell'”anacronismo”, agli occhi del mondo, della clausura. Rispondendo però in modo radicale: «Ricambiate la sfida del mondo d’oggi, vivendo più radicalment e che mai il mistero stesso della vostra condizione, che è follia agli occhi del mondo». Follia per il mondo, vivere per Cristo e, riconoscendoli fratelli in lui, per tutti gli uomini. Per tutti quelli che non sapranno mai che qualcuno prega per loro. Per quelli che – essendo la preghiera una faccenda non misurabile, non quantificabile, e tantomeno scientificamente dimostrabili i suoi effetti – delle preghiere sorridono, superiori.
Oasi i conventi, dice il Papa, isole di silenzio tanto più preziose oggi quanto più, fuori, è disperatamente aumentato il rumore. Misteriose miniere di grazie che bisogna avere occhi per vedere. Ma, non solo. Quel loro stesso sussistere, la scelta di uomini e donne, di ragazzi che testimoniano come Dio riempia tutta la loro vita, è più che mai, nei nostri giorni svagati, provocazione e domanda: come può un fratello, un amico andarsene così, lasciarsi indietro lavoro, soldi, carriera, se ciò che trova è solo una stanza nuda? Che cosa avrà mai riconosciuto, in quel silenzio, nelle ore scandite da lodi e compieta, in quella croce infine che per tanti ormai è una vecchia cara cosa innocua? “Folli”, davvero, o capaci di vedere ciò che altri non vedono? Il numero crescente di visitatori che si ferma per qualche ora nelle oasi della clausura – forse divisi anch’essi fra paura, e seduzione – dice di un dubbio inconfessato, che pure sfiora più persone di quanto si creda, in questo nuovo millennio in cui – avevano detto – Dio doveva esser morto.
Avvenire 21-11-2006