(Avvenire) Staminali. Bordignon: le cellule embrionali meglio di quelle adulte?

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Il direttore scientifico del San Raffaele di Milano fa il punto sullo stato della ricerca, sugli interrogativi ancora aperti e sulle patologie che oggi è possibile affrontare utilizzando la terapia cellulare.
Spiega le potenzialità e le incognite delle nuove tecniche di intervento. Ma fa giustizia dei troppi luoghi comuni che stanno creando aspettative esagerate.
«L’insistenza sulle “embrionali” frutto di una distorsione mediatica: si focalizza l’attenzione sull’oggetto che può accendere le polemiche».
«Tra gli scienziati si fa pressante l’esigenza di regole condivise a livello internazionale sulla liceità delle singole tipologie di ricerche»

Da Milano Enrico Negrotti E Francesco Ognibene


Un cerino acceso dentro una stanza buia. È la situazione della ricerca sulle cellule staminali, dipinte come la soluzione già prontamente disponibile per curare ogni malattia, quando invece devono rivelare ancora tutti o quasi i loro segreti. E rispondere a una gran quantità di domande.
È la stupefacente verità che emerge da due ore di serrato colloquio con la massima autorità italiana in materia. Claudio Bordignon, direttore scientifico del San Raffaele di Milano e scienziato di fama mondiale, ci riceve nello studio dal quale guida la formidabile macchina di ricerca schierata dall’istituto per diradare quel buio e chiarire innumerevoli dubbi. Restìo a concedere interviste («preferisco le conferenze, ma se sulle staminali si può fare buona divulgazione accetto») Bordignon approfitta del rallentamento agostano nella sua attività, e comincia col fare giustizia di qualche luogo comune che sta prepotentemente obnubilando anche quel poco che si potrebbe scorgere. Ascoltandolo, si scopre tanto per cominciare che – al contrario di quanto molti spavaldamente dicono – «non c’è ancora alcuna evidenza scientifica che faccia preferire le cellule staminali embrionali a quelle adulte».



A che punto siamo esattamente?
«Oggi disponiamo solo di una percezione intuitiva che la cellula embrionale potrebbe fare tutto, diversamente da quella adulta, che invece è già specializzata. Ma – ripeto – si tratta di un’intuizione che deve essere ancora confermata dalla ricerca biologica».


Perché allora tanta disinvoltura nel parlare delle staminali come di una moderna panacea?
«È l’effetto dell’incredibile aspettativa riposta su questa tecnologia. Si è diffusa l’illusione che con le staminali sia possibile qualsiasi risultato, mentre la realtà è che, se conosciamo molto del loro funzionamento, sappiamo invece ancora pochissimo delle potenzialità terapeutiche. Non c’è dubbio che negli ultimi anni ci siano stati progressi interessanti, a cominciare dall’ identificazione di queste cellule che per loro natura sono molto elusive, cioè difficilmente individuabili. L’esplosione della ricerca di base ha permesso di comprendere meccanismi molecolari fino a poco tempo fa pressoché inaccessibili. I progressi sono stati evidenti nella conoscenza sia delle cellule residenti nei vari tessuti dell’adulto sia di quelle che nell’embrione cominciano a formare l’organismo. Ma queste conoscenze hanno ricadute terapeutiche a tutt’oggi pressoché nulle, o comunque molto modeste».


Dunque non c’è ancora nulla di concreto?
«Attualmente esiste solo la certezza dell’efficacia di staminali adulte che sono state identificate nel corso dello studio sui trapianti di midollo osseo, di cute e di cornea. Nel caso del trapianto di cornee, per esempio, si è scoperto che il tessuto trapiantato crea in realtà solo un supporto per le cellule staminali dell’area vicina a quella d’impianto: sono staminali che migrano nell’impianto, andando a sostituire le cellule del donatore. Il primo tessuto dal quale si è riusciti a isolare cellule staminali dimostrandone il ruolo terapeutico è stato il midollo osseo. In seguito si è arrivati alla cute e, molto più di recente, alla cornea. Per tutti gli altri organi – cuore, cervello, reni, pancreas… – siamo ancora ad attività sperimentali. Dai tre filoni della ricerca (trapianti, studi di biologia, studi di embriologia) è ragionevole aspettarsi applicazioni terapeutiche sull’uomo non prima di cinque-dieci anni».


Per quali malattie è lecito attendersi i primi risultati concreti?
«Oggi non c’è praticamente organo o tessuto che non venga studiato. Esistono moltissimi studi sulle malattie neurodegenerative (Parkinson, Alzheimer, sclerosi laterale amiotrofica o “Sla”, sclerosi multipla), come anche sulla rivascolarizzazione di alcuni organi – ad esempio il cuore -, o sulla rigenerazione dell’apparato endocrino e del muscolo scheletrico. Sono questi i settori sui quali la ricerca sta profondend o il maggiore impegno».


Quale le sembra la direzione di ricerca più promettente, e quale la più problematica, da un punto di vista scientifico?
«I fattori che oggi indirizzano l’uso dell’una o dell’altra cellula staminale sono di carattere etico, non scientifico. Chi fa ricerca esplora la strada che – secondo la sua esperienza o intuizione – offre maggiori probabilità di successo. Se restiamo sul piano della scienza posso dire intuitivamente che, siccome modellano tutto l’organismo, le cellule staminali embrionali dovrebbero essere in grado di formare qualunque tessuto. Ma se poi controlliamo tutte le variabili, allora la risposta si fa assai più complessa. Le cellule embrionali dovrebbero essere le più potenti, ma proprio per questo potrebbero rivelarsi anche le più soggette a trasformazioni non desiderate, ad esempio tumorali. Allo stato delle nostre conoscenze, è molto difficile dire se questo tipo di terapia possa essere considerata completamente sicura».


Perché allora tanta insistenza sulle staminali embrionali, quasi che solo loro potessero garantire risultati?
«È una distorsione mediatica: si focalizza l’attenzione sull’oggetto che può accendere polemiche. Sulle cellule adulte non c’è nulla da dibattere, e infatti non se ne parla. L’approccio scientifico porta a non escludere che le staminali embrionali siano meglio di quelle adulte e dunque a farne oggetto di ricerca per esaminare questa ipotesi. Che – lo ripeto – resta però ancora tutta da verificare».


Intende dire che le staminali potrebbero anche dimostrarsi inefficaci?
«Dal punto di vista scientifico, non possiamo ancora dire se serviranno o meno. Non sarebbe la prima volta che un filone di ricerca a un dato momento dimostra di essere stato sopravvalutato e scompare, per poi magari riaffiorare anni dopo».


Purtroppo ci sono ancora più domande che risposte…
«Stiamo facendo ricerca, che come tale non offre in anticipo nessuna certezza. Presentare le sta minali come la terapia che ci farà certamente guarire da tutte le malattie è una deformazione scientificamente fuorviante».


Da cosa nascono le tante aspettative attorno alle staminali, pur in presenza ancora di importanti aspetti irrisolti?
«Credo che dipenda dall’apparente comprensibilità della materia: la cellula madre, che forma l’embrione e lascia dietro di sé cellule figlie, che possono curare la malattia. È uno schema relativamente semplice, così che passano del tutto in secondo piano domande e controindicazioni. Parlarne – come si fa spesso – in termini sommari crea però un’attesa miracolistica, della quale diventano corresponsabili anche gli scienziati quando cedono alla pressione dei media, o al proprio ego. Il sistema della comunicazione reclama semplificazioni, annunci, promesse, ci dipinge come gli inventori di una formula che risolve tutti i problemi di salute. Per questo, quando in tivù vedo qualcuno che parla di staminali, cambio canale. Sono certo che tra un paio d’anni gli stessi media presenteranno il conto: ma come, ci avevate detto che con le staminali si guariva da tutto… Assisteremo al consueto pendolo tra ricerca e comunicazione: dopo la sbornia e la conseguente disillusione, si tornerà a fare ricerca lontano dai riflettori per arrivare – lo spero – a risultati veri. Senza dubbio infatti quella che stiamo percorrendo è una delle strade maestre della ricerca. Peraltro, è la mia scommessa professionale e del centro che dirigo. Ma non chiedetemi quando e come arriveremo a un risultato».


Perché il principio di precauzione, che ad esempio detta legge in tema di organismi geneticamente modificati (gli Ogm), non viene evocato in materia di staminali, dove il buio è assai più fitto?
«Come quello sulle staminali, anche il dibattito sugli Ogm in Italia è deformato, con paladini di ipotesi sostenute a priori reinventando una scienza che non esiste. In medicina vale solo la valutazione del rapporto tra rischi e benefici: su un nuovo antibiotico non ci si può esporre a troppi pericoli, ma se sperimento una terapia per malattie sinora incurabili posso rischiare molto di più».


Per definire i rischi accettabili è inevitabile parlare di regole…
«Oggi possiamo decidere di arginare la ricerca per motivi etici, non per motivi tecnici. Quest’anno ho partecipato a due congressi mondiali, entrambi negli Stati Uniti, e ho verificato che nell’ambiente scientifico si va facendo sempre più pressante l’esigenza di regole certe e condivise a livello internazionale sulla liceità delle singole tipologie di ricerche. Ogni Paese, viceversa, sembra orientarsi verso una propria normativa. Ne consegue che quel che è lecito al di qua di un confine pochi chilometri più in là può costare la galera. E questo è lo scenario peggiore per i ricercatori».


Vede una via d’uscita?
«Non è immaginabile che la società nella quale la tecnologia consente di far dirigere un laboratorio da migliaia di chilometri di distanza si affidi in sede normativa al criterio del luogo fisico nel quale viene svolto un dato esperimento. Per istinto, lo scienziato desidera la più grande libertà possibile. Ma nessuno rifiuterebbe un buon compromesso che mettesse tutti sullo stesso piano, fatta salva la libertà individuale anche di non fare ciò che la regola consente. La mia proposta è un accordo sui parametri già oggi comunemente accettati, da raggiungere attraverso una conferenza scientifica internazionale».


Uno dei temi più delicati da normare è l’utilizzo degli embrioni congelati.
«La maggior parte degli scienziati è convinta che oltre un certo limite di tempo l’embrione congelato va tecnicamente considerato inutilizzabile per l’impianto. Dunque ha le stesse caratteristiche che si ravvisano nel caso della donazione di organi da cadavere. In entrambe le circostanze, è materiale organico dal quale non scaturirebbe alcuna forma di vita: nel secondo caso perché è sopraggiunta la morte cerebrale, nel primo perché dopo alcuni anni di congelamento l’embrione non può far sviluppare alcunché».


Lei cosa propone?
«Di accordarsi sul limite di tempo superato il quale un embrione congelato può essere messo a disposizione della scienza, ad esempio cinque anni. In questo modo ci si assicurerebbe di non generarne altri per ricerca».


Mercoledì la Gran Bretagna ha autorizzato la clonazione a scopo terapeutico. Cosa ne pensa?
«La strada proposta è scientificamente corretta, ma i problemi aperti dalla creazione per finalità utilitaristiche di embrioni umani (anche se artificiali, anche se per pochi passaggi, anche se nobilitata dall’obiettivo di vincere malattie oggi incurabili) non possono essere risolti se non su un piano etico e a livello internazionale».


Sulle staminali sappiamo così poco che ogni passo potrebbe costarci caro…
«Qualsiasi norma fotografa lo scenario di oggi, ma tra pochi mesi potrebbe già essere obsoleta. La verità è che stiamo affrontando un oggetto con un potenziale enorme ma del tutto virtuale: oggi non c’è nessun paziente curato con cellule staminali embrionali, per il semplice motivo che non esiste ancora nessuna applicazione terapeutica sull’uomo».

(C) Avvenire, 13-8-2004