L’arcivescovo Caffarra: molti intellettuali oggi hanno un’idea antiquata della verità
La ragione e i suoi nemici
Da Bologna Stefano Andrini
Avvenire 19 Maggio 2004
«L’università è il luogo in cui il giovane viene educato a estinguere il debito della verità che l’uomo ha verso la realtà. La sua incomparabile missione è allora quella di educare il giovane a pensare non soltanto con un frammento di verità, ma con tutta la verità». Lo afferma l’arcivescovo di Bologna monsignor Carlo Caffarra che abbiamo intervistato in occasione del suo primo incontro ufficiale con l’Alma Mater avvenuto ieri alla presenza del Magnifico Rettore Pier Ugo Calzolari, del corpo docente e degli studenti nel corso del quale ha affrontato il tema: «L’università: servire la verità e la libertà dell’uomo».
Nella cultura di oggi trova ancora spazio la ricerca della verità?
«Indubbiamente. Senza questa ricerca infatti non ci può essere neanche la cultura. Un’idea espressa molto bene in un testo del grande filosofo Michele Federico Sciacca, il quale dice che “vi è per l’uomo un problema massimo che tutti gli altri condiziona, orienta e unifica: quello che è l’uomo a se stesso. Il problema di sé che l’uomo pone a se stesso, della sua destinazione, del senso totale, integrale e assoluto della sua esistenza. Questo problema”, continua il professor Sciacca, “sottostante, anche se implicitamente e inconsapevolmente, ad ogni ricerca, costituisce l’umanità profonda di tutto ciò che è umano, dunque anche della cultura”. La misura, il criterio per giudicare una cultura è proprio la forza con cui pone la domanda antropologica e la risposta che dà a questa domanda. Una cultura senza la ricerca della verità mi sembra una contraddizione in termini».
Qualcuno, anche tra gli accademici, sostiene che la verità non esiste e che è inutile perdere tempo a cercarla. Chi avanza questa posizione ha rinunciato – secondo lei – a utilizzare lo strumento della ragione?
«Non mi voglio addentrare qui nella problematica filosoficamente assai complessa riguardante lo scetticismo e il relativismo. Alla sua domanda mi limito a rispondere che non è che chi sostiene questo, rinunci allo strumento della ragione. Oggi normalmente si limita l’uso della ragione all’interno di un ambito del reale, affermando che la ragione non può andare oltre questo ambito stesso. La Fides et ratio parla, al contrario, di una audacia che la ragione deve avere, affermando che deve passare dai fenomeni al fondamento. Ora, è proprio questo ciò che da non poche persone oggi viene negato alla ragione, ritenendola incapace di questo passaggio».
L’educazione, in particolare quella accademica, sembra avere ridimensionato il proprio obiettivo. Per costruire buoni uomini, si dice, bisogna trasmettere loro semplicemente delle regole…
«Credo che la riduzione del rapporto educativo a trasmissione di regole di comportamento equivalga a snaturare il rapporto educativo stesso. Perché esso non è prima di tutto trasmissione di regole di comportamento, ma è la testimonianza di un senso della realtà che viene testimoniato appunto dall’adulto, dall’educatore, perché chi è educato lo verifichi e liberamente poi faccia la sua scelta. Dunque si tratta di un rapporto che è molto più profondo che la trasmissione di regole di comportamento: il rapporto educativo è un rapporto interpersonale. Come conferma una delle icone più chiare del rapporto educativo: l’incontro della Madonna con la cugina Elisabetta, che in realtà è l’incontro di Gesù con Giovanni il Battista. C’era una nuova persona umana, il Battista, che è entrato nel mondo e come ogni persona umana, è un mendicante di beatitudine. Quand’è che sussulta di gioia nel seno di sua madre? Quando avverte una presenza che in quel caso le è testimoniata e portata da Maria stessa. Perché in quel momento il bambino comprende che è entrato dentro una realtà nella quale abita un Mistero, nella quale c’è una Presenza che dà un senso alla nostra ricerca di beatitudine in quanto è la risposta a questa stessa ricerca. Si vede bene, quindi, che il rapporto educativo è qualche cosa di straordinariamente grande che va ben al di là di trasmissione di regole di comportamento».
Secondo un’opinione alimentata anche all’interno delle Università il dialogo tra il mondo della ricerca e la Chiesa è difficile perché quest’ultima sarebbe nemica della scienza e del progresso. Le cose stanno davvero così?
«Voglio sperare che quanti pongono ancora il problema del rapporto tra ragione e fede in questi termini appartengano ad una specie ormai in via di estinzione. Il problema è molto più serio. Da una parte non dimentichiamo che la fede formalmente è un atto della ragione. Da ciò deriva che la fede cristiana esige una ragione sana, una ragione forte. Parlare di una fede non ragionevole è come dire circolo quadrato. Quindi la Chiesa non può non essere la custode e la difesa della ragione. Dall’altra una ragione che vuole essere fedele a se stessa fino in fondo giunge a un punto in cui sente il bisogno di una luce e di una risposta che essa non è più capace di dare. Una ragione fedele a se stessa, ho detto; non una ragione già illuminata dalla fede. La prova l’abbiamo dal fatto che il primo ad avvertire la necessità morale di una rivelazione divina è stato Platone. Il quale fedele fino in fondo alla ragione ha capito che, per attraversare il mare della vita, c’è bisogno di un naviglio ben più sicuro che la piccola zattera della nostra ragione, cioè una rivelazione divina. La scienza e la tecnica si trovano ad affrontare problemi che riguardano l’uomo stesso, la sua dignità. La scienza non è capace di rispondere alle domande che sorgono in questa situazione spirituale. Ha bisogno di un uso della ragione metascientifico che a sua volta poi ha bisogno di una rivelazione divina. Ricordo inoltre che cosa ha significato per la ragione umana la rivelazione biblica. La ragione alla luce di questa rivelazione ha elaborato (faccio solo un esempio) il grande concetto di persona che è la colonna portante di tutta la nostra civiltà occidentale. È la miglior risposta a coloro che sostengono che la fede è nemica della ragione».
Il discorso che ha fatto al recente convegno del Csi ha avuto molta risonanza sui media e tra gli intellettuali. Ci sono state reazioni che l’hanno particolarmente colpita?
«Mi hanno colpito soprattutto due tipi di reazioni. In primo luogo quelle dei non credenti. Ho ricevuto diverse lettere da persone che, pur dichiarandosi atee, ringraziavano la Chiesa cattolica per aver richiamato l’uomo alla realtà. E poi le lettere di tanti giovani che mi hanno ringraziato, dicendomi che sentono profondamente il bisogno di avere vicino delle persone adulte che li guidino dentro l’enigma della realtà».
C’è stato chi ha colto una sorta di pessimismo nella sua idea di educazione. Cosa ne pensa?
«A questo rispondo semplicemente citando ciò che dissi in quell’ormai famoso intervento sull’educazione. “Solo se si pensa che possa esistere un rapporto dell’uomo colla realtà: un rapporto reso possibile e dalla costitutiva apertura della persona alla realtà e dalla originaria intelligibilità e bontà della realtà. Solo se questo è il rapporto fra persona e realtà, è pensabile, e quindi praticabile, un rapporto educativo”. Mi chiedo se può essere qualificato pessimista uno che dice che la realtà possiede una originaria intelligibilità e bontà e che la nostra ragione è originariamente capace di cogliere questa intelligibilità e di amare questa bontà».