Noi dell’America profonda
di Giorgio Ferrari
WASHINGTON – “Mi richiami il 3 novembre”, mi aveva detto Willis Anthony. Sinceramente non avrei pensato di farlo. Invece poi l’ho fatto. Perché aveva ragione lui.
Avevano ragione lui e sua moglie Rachel, quando in quel salottino di St. Peters nel Minnesota, sepolto fra i silos di grano che torreggiavano nel vasto nulla delle terre del nord, con quella casetta linda come uno specchio e quell’atmosfera di esatta semplicità spiegavano con qualche imbarazzo il loro credo.
Avevano ragione quando alla mia incredulità di fronte al loro tiepido interesse rispetto ai grandi temi internazionali – la guerra in Iraq, il terrorismo, la sicurezza – replicavano che il loro era un “social conservatism”, un conservatorismo sociale simile ma insieme diverso da quello “compassionevole” di George W. Bush. Che pure avrebbero votato, ammisero con pudore una settimana prima delle elezioni.
Come la famiglia di Willis Anthony, farmer a tutto tondo ma con una cattedra di economia agraria alla Minnesota University, milioni di americani del profondo sud, della Bible Belt, la cintura della Bibbia, della Corn Belt, la cintura del grano, delle tante Chiese cristiane, delle sinagoghe, hanno dato il voto a Bush.
Me ne viene in mente un altro, Rinaldo Macero, conosciuto a Miami a Little Havana, il grande insediamento dei cubano-americani. Anche lui ha votato per Bush, anche lui in nome di una terra di mezzo, di un’America scarsamente rappresentata dai grandi mezzi di comunicazione, eppure, come si è visto, maggioritaria.
“Gli yanqui – mi disse – non avranno mai il mio voto. Perché poi lo sprecano, lo fanno a pezzi. Gli yanqui non hanno moralità”. Gli “yanqui” (yankee) per Macero e per decine di milioni di americani sono gli anglosassoni della costa orientale, dove Kerry ha fatto messe di voti ma non messe di cuori, ha raccolto consensi ma forse non ha seminato valori.
Ed è proprio sui valori che Bush, o se vogliamo il suo straordinario stratega elettorale Karl Rove, ha centrato il bersaglio. Non sulla guerra, non su Osama Bin Laden, non soltanto, ma sulla difesa di un qualcosa di profondamente americano, difficile da comprendere per noi europei quanto altrettanto facile da denigrare: quel “Dio, patria, famiglia” che ha ispirato centinaia di irridenti luoghi comuni sull’America becera del West e delle grandi pianure contrapposta a quella sofisticata ed evoluta delle due coste oceaniche, che fa colazione nei sushi bar, legge libri francesi, veste italiano e ovviamente vota democratico.
Un esempio su tutti è l’Ohio, lo stato in cui una massa record di disoccupati ha votato Bush tradendo Kerry e dove perfino gli Amish (quella comunità religiosa ben raccontata in un celebre film con Harrison Ford, “Il testimone”) si sono spinti con i loro calessi fino alle urne, proprio loro che vivono senza luce elettrica, senza telefono, senza televisione, senza veri contatti con la società. Mentre attraversavo in automobile le pianure infinite del Midwest capitava di fermarsi in piccoli centri rurali. E anche qui uno stereotipo molto europeo crollava miseramente.
Il redneck (l’uomo dal collo arrossato per il sole e la fatica sui campi), il cracker (il povero uomo bianco raccontato dallo Steinbeck di “Furore”), lo hobo (il girovago che viaggia sui treni-merci delle ballate di Woody Guthrie), figure un tempo emblematiche della società americana extraurbana, non ci sono più. Al loro posto, una generazione di giovani che al mito kennediano della nuova frontiera hanno sostituito una dimensione etica di tale cristallina semplicità da poterla quasi scambiare per una moralità domestica. Domestica, ma soprattutto condivisa.
Qualcuno li definisce sbrigativamente “cristiani rinati”, qualcun altro neocon, qualcuno ancora teocon, ma nessuna definizione è davvero appropriata, perché troppe componenti vi si mescolano. Certamente, all’interno di questo grande ventre elettorale c’è posto per la moral majority come per la rivolta antievoluzionistica e la guerriglia contea per contea per il ripristino della preghiera in classe. Ma altrettanto certamente si coglie una spinta trascendente che attraversa trasversalmente differenti confessioni, da quella protestante a quella cattolica, passando per quella ebraica: potremmo chiamarlo il senso rinnovato di una necessità morale, talmente implicita che se glielo domandi fanno fatica a spiegartelo.
“Non mi ero mai posta il problema dell’aborto, della clonazione, dell’ambiente, delle cellule staminali, dell’eutanasia, finché mi sono resa conto che qualcuno voleva forzare dal retro la porta di questo steccato. E allora ho riflettuto. Bush mi garantiva che questa porta sarebbe rimasta chiusa”. Non lo dice, questa ragazza di Altona, in Virginia, ma lo pensa: i democratici, gli aristocratici filoeuropei dell’est quella porta gliela stavano spalancando di nascosto dietro le spalle.
Due sera fa stavo gomito a gomito con una marea di ragazzi che trascorrevano la notte nel Ronald Reagan Building, il quartier generale repubblicano a Washington in attesa dei risultati elettorali. Mi chiedevo come si potesse essere repubblicani a vent’anni, guardavo quelle splendide ragazze che agitavano gli striscioni del Grand Old Party, quei giovanotti nei loro abiti troppo seriosi che finivano poi per abbandonarsi alle giravolte del rock and roll con quell’assenza di malizia profondamente, terribilmente americana, un atteggiamento che noi europei facciamo fatica a concepire.
A posteriori, credo di aver capito. Non stavano inneggiando al rush finale di Bush, o non solo. Esultavano di fronte a una carta geografica degli Stati Uniti che si andava colorando di rosso, il colore dei repubblicani. E anche qui, non era un’esultanza di tipo calcistico, “noi” contro “loro”, ma un’esultanza di appartenenza.
Quel rosso che macchiava la mappa continentale dalla Virginia fino al Nevada, dalla Florida fino al Texas era il confine del loro recinto, quello in cui sentirsi nuovamente a casa, quel recinto che la ragazza di Altona – che ha 19 anni, non 80 – non voleva che fosse aperto.
Guardatela bene quella carta elettorale: c’è un’America dentro l’America, non si può non vederla. Un’America che aveva messo l’Iraq solo al terzo posto nelle priorità nazionali, nonostante continuino a morire giovani americani in Medio Oriente, giovani come quegli stagisti della Casa Bianca che piangevano mentre cantavano “Amazing Grace”, il più bell’inno religioso che gli americani conoscano. Un inno che forse a Boston, a New York, a Los Angeles, nelle roccheforti democratiche, avrebbero cantato con molta minor convinzione, o non avrebbero messo affatto in agenda.
Nell’agenda dei giovani repubblicani invece, come in quella dei loro genitori, dei loro compagni, nelle scuole sparse nell’America delle campagne e delle piccole città, la prima priorità era la difesa di un sistema di valori. Per non “sbullonare” ciò che – con un percorso durato più di duecento anni – la società americana aveva faticosamente modellato.
“Abbiamo bisogno di un leader ‘macho’ che possa opporsi a Castro”, aveva detto un po’ ingenuamente la sigaraia che avevo intervistato dieci giorni fa in Florida. Milioni di elettori devono essersi inconsciamente detti qualcosa di analogo: abbiamo bisogno di un leader forte che difenda i nostri valori. E quel leader non era e non poteva essere l’algido, tiepido John F. Kerry.
Avvenire 5-11-2004