Abortire o non abortire è scelta «individuale » della sola donna, e non un confronto con l’altro (il nascituro) e gli altri (il padre, la società, la comunità che attende di essere arricchita da un figlio). Continuare a vivere o decidere di morire, ricorrendo al suicidio, è una scelta sulla quale nessuno può interferire e che anzi, a giudizio di taluni, la società dovrebbe non solo non impedire ma favorire attraverso il «suicidio assistito» e così via.
È su questo sfondo che suscita non poche perplessità – almeno in chi si sente erede ed in qualche modo interprete della tradizione personalista – sentire parlare di «riscoperta del personalismo» (secondo quanto recentemente affermato da Vannino Chiti su Europa) a proposito di posizioni che appaiono di chiara marca individualistica, come individualistico è il «principio di autodeterminazione » quando sia fondato sulla tesi secondo cui ciascuno è responsabile soltanto di fronte a se stesso, e non anche di fronte agli altri ed alla società (e, per il credente, anche a Dio).
La questione merita di essere sviluppata ed approfondita in sedi ben più qualificate di quanto non siano le colonne di un giornale. Ma chi si ispira al personalismo comunitario non può non provare un segreto brivido nel constatare quanta parte della cultura «di sinistra Emmanuel Mounier » – un tempo fortemente legata ad una visione solidaristica della vita e per questa ragione oggetto di penetrante attenzione da parte del personalismo comunitario – si sia fatta invischiare nelle secche di quello che Mounier chiamava lo «spirito borghese» (come borghese, appunto, è il principio dell’assoluta e indiscriminata autoreferenzialità, sul piano degli affari come su quello della vita).
Non è questo lo spirito della Costituzione, fortemente impregnata della cultura del personalismo comunitario, quando tesse attorno alla persona umana (pur se essa è espressamente invocata con sobrietà) una fitta rete di relazioni che vanno dalle «formazioni sociali » (art. 3), alle autonomie locali (art. 5) alla famiglia (art. 29). «Riscoprire il personalismo» non può significare accettare l’esclusiva autoreferenzialità del singolo ma recuperare la relazionalità strutturale della persona, come un «io» che si rapporta sempre, anche nelle situazioni più drammatiche della vita, a un «tu» che lo fronteggia e insieme lo trascende. Rompere l’estrema solitudine dell’io, anche alle frontiere della vita, non è un’invasione di campo di un presunto «Stato etico» (impropriamente evocato da uno degli eredi di questa metafisica scuola di pensiero) ma un riaffermare la dimensione comunitaria dell’esistenza. L’uomo non è mai solo, anche nell’apparentemente solitudine della morte.