QUEL PRIMO GIORNO DEL «PAPA POLACCO»
LA STORIA SI MISE A CORRERE MA IN UNA DIREZIONE INATTESA
LUIGI GENINAZZI
Avvenire 16-10-2008
Il primo sentimento fu lo stupore. Chi c’era se lo ricorda ancora quel 16 ottobre di trent’anni fa, l’emozione e lo sbalordimento per una sorpresa di carattere epocale che irrompeva nella storia della Chiesa e avrebbe cambiato il mondo: dopo oltre quattrocento anni di sommi pontefici italiani arrivava un Papa straniero. Uno slavo, un polacco dal nome impronunciabile. Perfino il cardinale Pericle Felici, cui spettava dare l’annuncio pubblico dalla loggia centrale della basilica vaticana, ebbe una piccola esitazione e dovette consultare il foglietto su cui si era fatto scrivere la dizione esatta: «Carolum… cardinalem Wojtyla». Prima degli applausi e delle grida di giubilo ci fu un attimo di silenzio tra i fedeli che gremivano piazza San Pietro. Il mondo trattenne il fiato. Chi era il nuovo Papa? E quale rotta avrebbe intrapreso la navicella di Pietro al cui timone era stato chiamato un uomo «di un Paese lontano», come di lì a poco si sarebbe presentato Giovanni Paolo II?
C’era, più o meno confusamente, la sensazione di una svolta anche se nessuno allora poteva immaginare il significato dirompente di quell’incredibile serata ottobrina. Ma la novità rappresentata da Giovanni Paolo II divenne subito evidente. Bastava guardare la sua figura di 58nne straordinariamente giovanile, piena d’energia, traboccante di umanità e ricca di humour. Bastava sentire la sua voce forte e tonante, ascoltare le sue parole che invitavano ad aprirsi a Cristo, a spalancargli le porte e a non avere paura. Bastava ripercorrere la sua biografia più avventurosa di un romanzo: fin da ragazzo aveva conosciuto lutti, povertà e sofferenze, aveva vissuto gli orrori del nazismo, della guerra e del comunismo e da tutto questo era uscito più forte nel segno della fede, granitica come quella del suo popolo. Si apriva l’era del Papa polacco, una definizione che qualche commentatore usò inizialmente in senso riduttivo, per poi ricredersi davanti al potente universalismo del pontificato wojtyliano.
Per capire fino in fondo la rottura con il passato che si consumò quel 16 ottobre dobbiamo ricordare cos’era il mondo e qual era la situazione della Chiesa alla fine degli anni Settanta. Se nell’Est dell’Europa sovietizzata tutto appariva immobile sotto la cappa di piombo della cosiddetta stagnazione brezneviana, all’Ovest invece c’era grande subbuglio, anche dentro la Chiesa. L’effetto Wojtyla che si produsse in Polonia e poi negli altri Paesi comunisti è entrato ormai nella leggenda: con Giovanni Paolo II la gente all’Est iniziò a vincere la paura e a richiedere libertà, mentre nelle stanze del potere serpeggiava il panico. Al Cremlino ebbero un oscuro presentimento. «Questo Papa ci porterà solo guai», ammonì Breznev in un incontro coi dirigenti del partito comunista polacco.
Ma anche in Occidente c’era in corso una grande sfida, meno conosciuta ma non meno difficile. L’onda lunga della contestazione stava investendo la Chiesa a tal punto che ci si chiedeva se i credenti, in quanto tali, avessero ancora qualcosa da dire in un mondo secolarizzato. Ed ecco un Papa che, diversamente da molti esponenti del cattolicesimo occidentale, non ha nessun complesso d’inferiorità di fronte al marxismo avendolo vissuto sulla propria pelle. L’avvento di Giovanni Paolo II costrinse tutti a un brusco cambiamento di prospettiva: la storia si era messa a correre ma in tutt’altra direzione rispetto a quella sognata dai rivoluzionari di casa nostra.
E lo stupore di trent’anni fa è diventato profonda gratitudine per il dono di ‘Karol il Grande’ che Dio ha voluto fare alla Chiesa e al mondo.