Allora Jannacci, da quando ha invocato «una carezza del Nazareno» per chi è nelle condizioni di Eluana tutti si chiedono dove sia finito l’ateo, il laico, l’artista di sinistra. Quella carezza era solo un’immagine particolarmente efficace dell’autore di «La Fotografia» e di «La disperazione della pietà», oppure c’è dell’altro?
La "carezza del Nazareno" è quella che si augura chiunque consideri la vita importante, sempre. Può sembrare retorica ma non lo è. Voglio che sia chiaro: quando ho parlato di Cristo e di Eluana non era una battuta, ma esprimevo convinzioni veramente intime, come faccio di rado e come sto facendo ora. Ho cercato di descrivere quello che penso e che provo di fronte alla sofferenza e alla morte. Perché io non sono mai stato ateo, ho una concezione della vita peculiare, mi ispiro a una concezione filosofica – ad esempio a Umberto Eco – che può sembrare opposta alla religione ma non lo è. E io rifletto molto, da molto tempo, sulla fede.
Che direbbe, ascoltandola, il suo amico Dario Fo?
In verità, lui è stato uno dei primi a farmi interrogare su queste cose, inducendomi a studiare Jacopone da Todi, con Mistero Buffo; con Dario ho parlato a lungo del cristianesimo, lui è molto interessato al tema della Croce. Le stesse opere prodotte in quegli anni, inoltre, hanno un risvolto di fede. Quando diciamo al Signore: «Se sapevi che sarei finito così, limitato e sofferente, non mi dovevi creare», stiamo rivolgendoci a Lui. Del resto, qualcuno disse che non c’è persona più credente di chi insiste di non capire il significato della fede.
Enzo Jannacci lo ha capito?
Sì, leggendo la Bibbia e i Vangeli; ovviamente, è una ricerca che continua. Dopo il caso Eluana sono stato alla Biblioteca Vaticana. Volevo approfondire la conoscenza di fatti sui quali subisco una costante dialettica interna. Ho un gran bisogno di proseguire questa ricerca e non perché prima fossi ateo; semmai, da giovane ero stupito di queste cose, un po’ come Einstein era stupito di fronte alle sue stesse scoperte: dentro di me c’era il seme di questa fede ma come per il talento musicale quel seme bisogna alimentarlo. Uno non nasce con la fede dentro, in qualche interstizio della propria anima o dell’ipotalamo. Quando ha la fortuna di riconoscerla e di alimentarla, prova le stesse situazioni emotive dell’amore, vede la luce attraverso uno spettro diverso, ha voglia di parlare con gli altri, di cantare; sì, di cantare come ho fatto io la scorsa settimana, in auto, a squarciagola. Quando parlo con un prete, o con i miei familiari, che sono molto attenti a queste problematiche, sento dentro di me qualcosa di molto speciale.
Come definirebbe quello che le sta capitando?
Sto vivendo una maturazione del mio credo religioso. Vado avanti con i piedi di piombo, anche se non potrei permettermelo perché non ho tanti anni davanti. Sento di non avere più il tempo per occuparmi di cose troppo terrene; ora guardo al cielo, all’interscambiabilità degli spazi, dove andiamo a picchiare tutti prima o poi. Anche se ho scoperto di avere meno paura dell’eterno.
Cosa fa paura oggi al medico, all’artista, insomma all’uomo Jannacci?
Questa gloriosa indifferenza che ci circonda e che mio padre aborriva. Era l’opposto di quello che mi insegnava, l’altruismo. Una gloriosa indifferenza che è così comoda, un egoismo ricco, per il quale va tutto bene, anche ribaltare i clandestini in mare: invece, come ho detto nel caso di Eluana, una vita va salvata sempre, prima la si accoglie e la si rianima e poi magari si gioca con il diritto internazionale per il rimpatrio. Come medico, io dico che la vita – passatemi l’espressione – è una condanna a morte: è inevitabile, sono stato per anni intorno ai letti della terapia intensiva e dei reparti di rianimazione per averne un’idea diversa, ma sempre come medico e come uomo dico anche che salvare una vita è come salvare il mondo. E allora prima viene la vita, prima si corre, si salva l’esistenza della gente poi si analizzano i meccanismi dell’asilo politico, dell’immigrazione, ecc. Prima si fa ribattere il cuore, tirandoli fuori dall’acqua. Certo, è difficile amare il prossimo, ancor più difficile amarlo come se stessi. Ma è la via per arrivare a Dio.
Al Meeting qualcuno potrebbe parlarle dell’incontro con Cristo. L’ha mai provato?
Ho visto la sua carezza e, per quanto mi riguarda, ho visto Gesù. Ero piccolo, mi trovavo su un tram, c’era un signore che era talmente stanco che il braccio gli cadeva, una, due, tre volte. Portava gli occhiali, di quelli da vista, ma da povero, di quelli che non sono stati valutati da un oculista e neanche un ottico. Un povero operaio stanco. Gli caddero quegli occhiali e non sapevo se raccoglierglieli o meno, così nell’esitazione sono andato oltre, attratto dal tranviere che era alla guida. Quando mi sono girato quell’uomo aveva di nuovo gli occhiali ed era sveglio. Insomma, aveva un’altra faccia, come se avesse ricevuto una carezza, rincuorato. Amo credere che sia stato Lui. Altri penseranno diversamente, ma io ci credo molto. Lo cerco, parlo con Dio e non ho bisogno di dirgli nulla perché sa già cosa faccio e cosa farò, dove finirò… sa già tutto.
Stasera a Rimini incontrerà migliaia di ragazzi entusiasti della bellezza di Cristo. Perché Jannacci lo vede solo attraverso il dolore, la Croce?
È vero, le mie canzoni parlano di persone stanche sul tram, di operai che si buttano giù dalle costruzioni che hanno realizzato e disturbano il traffico, ma vedo la croce anche nei ragazzi presi a coltellate nelle strade di oggi, non vedo molta gioia anche se cerco di osservare questi fatti compenetrando amore e fede. Anche nella mia ricerca religiosa vedo il dolore del Nazareno, la tremenda sofferenza e la sua fatica prima della crocifissione, sotto quella croce enorme che viene messa addosso a uno scheletro, perché quando va verso il Golgota è ridotto così, il Nazareno. Mi sembra quasi che la crocifissione divenga una liberazione dal male, da tutti i mali.