Vita da mogli dentro il Gulag
A partire dal 1937 Stalin fece costruire lager per le donne sposate a uomini del partito caduti in disgrazia. Ecco la loro storia
Pare siano state almeno diciottomila: madri con bambini piccoli, o incinte, vennero deportate coi figli
Fatiche e vessazioni ebbero la meglio su molte, ma la loro femminilità mutò i luoghi di detenzione
Pare siano state almeno diciottomila: madri con bambini piccoli, o incinte, vennero deportate coi figli
Fatiche e vessazioni ebbero la meglio su molte, ma la loro femminilità mutò i luoghi di detenzione
Pigi Colognesi
Avvenire, 16 novembre 2007
L’approfondirsi delle ricerche storiche consente di conoscere sempre nuovi dettagli sul gigantesco sistema di repressione attuato in Unione Sovietica, che va sotto il nome di Gulag. Uno di essi viene ampiamente dettagliato nell’ultimo numero de «La Nuova Europa» (che è in gran parte dedicato all’anniversario del ‘grande terrore’ staliniano del 1937). Si tratta di un lager ‘speciale’ pensato e realizzato appositamente ed esclusivamente per le mogli dei ‘traditori della patria’. Già dal 1934 in Urss si considerava una colpa l’essere moglie, madre, sorella o semplicemente amante di un condannato per motivi politici; il minimo di cui queste donne potevano venir accusate era di non aver denunciato i loro congiunti, di non aver vegliato sulla correttezza della loro linea politica. Ma è con il 1937 che il fenomeno diventa così massiccio da necessitare l’istituzione di campi di detenzione appositi. L’ordinanza operativa dell’Nkvd numero 00486 del 15 agosto dà il via all’arresto delle mogli di coloro che erano stati condannati alla fucilazione a partire dal primo agosto dell’anno prima. Il numero complessivo delle donne coinvolte non è stato ancora ricostruito, ma la cifra più attendibile sembra quella di diciottomila. Effettuati gli arresti e gli interrogatori, si passa alla deportazione in uno dei tre campi speciali appositamente costruiti in Mordovia, a Tomsk oppure ad Akmolinsk, in Kazachstan. Proprio di quest’ultimo campo (noto con l’acronimo Alzir, cioè Lager di Akmolinsk per le mogli dei traditori della Patria) si occupa in particolare l’articolo di Ilaria Mancastroppa, che, oltre a raccogliere i dati statistici disponibili, offre anche stralci delle memorie di alcune detenute.
Attraverso queste memorie veniamo a conoscenza delle specificità della vita di quel lager, che si accompagnano agli aspetti che tragicamente lo accomunano a tutti gli altri dell’immenso ‘arcipelago’. Il fatto che tutte le detenute fossero donne (e donne di una qualche levatura sociale, in quanto normalmente compagne di alti funzionari del partito caduti in disgrazia) delinea fin dall’inizio un certo tono speciale alla convivenza. Commovente il racconto degli stratagemmi usati nell’estenuante viaggio di trasferimento dalle città della Russia europea fino in Kazachstan per trovare tutti i mezzi al fine di sfamare i bambini piccoli che erano stati ‘arrestati’ assieme alle loro mamme. Benché infatti l’ordinanza dell’Nkvd vietasse l’arresto di donne incinte e prevedesse che i bambini piccoli finissero in orfanotrofio, gli zelanti esecutori non ebbero scrupolo di spedire nella desolata steppa asiatica sia le prime che i secondi.
Molti di questi non avrebbero potuto sopportare gli stenti del trasferimento se le loro madri non fossero state coadiuvate dalle altre prigioniere nella difficile impresa di trovare un po’ di zucchero da far sciogliere nell’acqua e da dare, con la connivenza di qualche sensibile guardia, ai piccoli.
Anche la vita del lager di Akmolinsk assume ben presto un ‘tocco’ squisitamente femminile. Sia nelle inedite problematiche che si pongono, come nel caso delle prigioniere georgiane che si rifiutano fieramente di farsi tagliare, come prevede il regolamento, le lunghissime chiome; sono il simbolo stesso della loro femminilità e le georgiane, spalleggiate dalle compagne, si opposero talmente che riuscirono ad evitare la rasatura. Sia nel tipo di lavoro: le prigioniere dell’Alzir si sono infatti specializzate in sartoria o nella produzione di giocattoli di stoffa, colorata con essenze estratte dalle verdure. Certo, questo tipo di attività si è potuta instaurare solo dopo il consolidamento del lager.
Nei primi mesi l’unico problema era quello della pura sopravvivenza. Akmolinsk (antico nome dell’attuale capitale kazacha Astana) è un posto climaticamente infame: passa dal quaranta gradi estivi agli altrettanti sotto zero in un inverno sferzato da perenni venti gelati. Le baracche approntate dall’amministrazione del lager prevedevano posti per due-trecento persone e ne accoglievano oltre cinquecento. Ma le prigioniere (almeno quelle che hanno superato i rigori del primo inverno) si sanno organizzare. C’è addirittura qualcuna di loro che ha il dono di saper raccontare in modo avvincente i romanzi che ha letto; così le serate si passano ascoltando
Anna Karenina o Il conte di Montecristo. Molte non reggono alle fatiche e alle vessazioni. Una tenta il suicidio per congelamento; un’altra perde il senno. Le più forti riusciranno a sopravvivere e, dopo la chiusura del lager, avranno anche il coraggio di raccogliere e tramandarci le loro memorie.
C’è un ultimo particolare che rende unica la vicenda dell’Alzir. Come abbiamo detto, le detenute erano tutte mogli di personaggi importanti del partito, colpiti dalle purghe staliniane. Molti dei loro mariti rivestivano ruoli importanti nell’organizzazione sovietica e alcuni di essi erano stati a loro volta accaniti persecutori dei ‘nemici del popolo’. Alcune prigioniere continuavano a rimanere persuase di essere andate soggette ad un ‘errore’ degli organismo repressivi, mentre le altre erano state arrestate giustamente. Tutte avevano goduto dei privilegio riservati alla casta del partito ed ora erano travolte dallo stesso ingranaggio di cui fino ad allora avevano goduto. È possibile immaginare che nelle lunghe sere kazache quelle donne, se avevano ancora un po’ di forza dopo la spossante giornata di lavoro, potessero riflettere su quanto grondasse di sangue il regime che avevano sostenuto.