Replica al filosofo tedesco a proposito di una razionalità «postmetafisica» che si scopre debole di fronte alle sfide poste dall’etica
Habermas davanti a Socrate e Mosè
Troppo precipitosa è quella ragione che ha delegato alla scienza il monopolio del sapere: liberarsi delle radici greche del pensiero apre a eccessi di pragmatismo oppure di fideismo
Di Vittorio Possenti Il dialogo tra pensiero secolare e pensiero religioso rimane un crocevia, coniugato secondo forme che vanno dall’estremo della totale estraneità a quello di un’intima collaborazione. Da alcuni lustri sono in crescita i paradigmi di (una qualche) concordia che vedono le due ragioni chiamate a collaborare a scopo di intesa civile, nonché di freno contro il rischio di autodestituzione della ragione. Una loro espressione significativa si trova in un recente intervento di Jürgen Habermas, pubblicato in «Neue Zürcher Zeitung» (10 febbraio 2007) col titolo Contro il disfattismo della ragione moderna. Per un nuovo patto tra fede e ragione (trad. it. di Leonardo Ceppa, pubblicata parzialmente nel «Domenicale» del «Sole-24Ore», il 18 febbraio), su cui si è acutamente soffermato il cardinale Ruini nel recente Forum sul progetto culturale.
Lo scritto habermasiano include affermazioni notevoli, tra cui la difficoltà di scindere l’esistenza dei cittadini in una parte pubblica e in una privata, e l’invito che lo Stato liberale dovrebbe rivolgere ai suoi membri secolarizzati a non considerare pregiudizialmente irrazionali le espressioni religiose.
Chiaro è il tentativo di Habermas di opporsi al disfattismo della ragione moderna, rimanendo però attestati su una ragione espressamente postmetafisica, considerata definitiva per il pensiero secolare. Ciò dà luogo a un duplice invito: che «la teologia impari a fare seriamente i conti con il pensiero post-metafisico», e che quest’ultimo prenda «sul serio quell’origine comune di filosofia e religione che rinvia all’epoca assiale, ossia a quella rivoluzione della immagine-del-mondo che accadde a metà del primo millennio avanti Cristo». Ciò sarà utile alla stessa ragione secolare, che intenderà meglio se stessa quando capirà la sorgente comune delle due figure complementari della ragione e della religione. L’autore prende le distanze da «quell’illuminismo mentalmente limitato e irriflessivo che nega ogni contenuto ragionevole alla relig ione», e riconosce la forza motivante e di stimolo della religione nei confronti della coscienza della società postsecolare, senza negare suoi possibili apporti cognitivi.
Nell’intento di «mobilitare la ragione moderna contro il disfattismo che le cova dentro», rintracciato nella postmoderna dialettica dell’illuminismo e nello scientismo positivistico, Habermas ritiene che la ragione postmetafisica può farcela da sola ad uscire dal disfattismo sul piano teorico, mentre maggiori difficoltà incontra la ragion pratica. Ricostruendo una genealogia della ragione, egli cerca un accostamento al pensiero religioso che in un remoto passato scaturiva con la filosofia da una sorgente comune in cui filosofia e religione potrebbero trovare un luogo di dialogo. La prospettiva merita di essere valorizzata, ma ciò che fa problema è l’orizzonte postmetafisico che dovrebbe presiedere, in quanto adotta il metodo genealogico e non sembra disposto a relativizzarlo. L’esito della genealogia è il materialismo e un universale evoluzionismo. L’autore tenta di sfuggirvi, iniettando dosi di idealismo normativo sulla giustizia e il diritto positivo, fondati sulla morale kantiana dell’autonomia della ragion pratica.
Se acuta è la domanda sulla compatibilità di materialismo teorico e di idealismo pratico, ancor più devastante è quella sollevata dai maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud) che demistificano l’io e la sua presunta autonomia, considerata un postulato ideologico pericoloso. Dinanzi alle fratture che abitano il soggetto, dove si colloca l’autonomia? A partire da basi materialistiche non è una scommessa puntare sul prevalere di giustizia e libertà invece che di potere e denaro? La ragione postmetafisica, riconoscendo affrettatamente «il monopolio scientifico della produzione di sapere mondano», ossia riducendo l’autorità della ragione naturale ai fallibili risultati delle scienze istituzionali, allontana come impossibile la conoscenza razionale dell’essere. Il dissenso tra «partito religioso» e «partito secolare», più che frattura tra religione e secolo, è spesso un dissenso interno alla ragione filosofica stessa, chiamata a non autodestituirsi, a non capitolare con un eccesso di facilità dinanzi alla scepsi, a non autolimitarsi all’ambito di ciò che è verificabile nell’esperimento.
Ora, in questa situazione il maggior disfattismo non sta nell’ambito della ragion pratica ma in quello teoretico-metafisico. La ragione postmetafisica rigorosamente scettica non è in grado di venire a capo dei due disfattismi evocati dall’autore: la declinazione postmoderna della dialettica dell’illuminismo, e lo scientismo positivistico. Spesso all’origine di tale profonda crisi sta Kant e il suo modo di concepire il funzionamento della mente nella conoscenza. Un funzionamento non solo antirealistico e disattento verso il potenziale di intelligibilità deposto nel cosmo e di cui si occupano scienze e filosofia, ma artificioso al punto che neppure l’intelletto di Kant operava come egli andava descrivendo nella Critica della ragion pura, ossia non regolandosi sugli oggetti ma costringendo – vanamente – questi a regolarsi sulla mente.
Se nell’aldilà vi sarà una casa di salute per le distonie della ragion pura, non è improbabile che vi si troverà la ragione che pretende di funzionare come si descrive nella prima Critica. Habermas incontra il problema della deellenizzazione in rapporto al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, «che ha dato una piega sorprendentemente antimoderna al vecchio dibattito circa ellenizzazione o dis-ellenizzazione del cristianesimo. Con ciò egli ha dato risposta negativa alla domanda se i teologi cristiani debbano sforzarsi di venire a capo delle sfide suscitate da una ragione moderna e dunque postmetafisica».
Se necessario è il confronto tra teologia e postmetafisica, certo non negato a Ratisbona, non vi è motivo di escludere dal dialogo la ragione metafisica e l’istanza problematica della deellenizzazione, volta a purificare il cristianesimo dall’influsso greco, ritenuto pericoloso per la fede biblica. Anche Kant fu un deellenizzatore. Scrivendo: «Io dunque ho dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la fede», egli allude non alla fede biblica, come con scarsa cognizione di causa si ripete, ma ad una fede morale. La sua specifica deellenizzazione fu nell’aver ritenuto finito il compito della ragione teoretica e dissolta l’intesa tra Socrate e Mosé: il primo cercava la verità, il secondo ha introdotto la distinzione vero-falso nella storia delle religioni e l’idea dell’unico, vero Dio. Il significato decisivo di deellenizzazione consiste nella rottura dell’alleanza socratico-mosaica, ossia dell’accordo tra fede e ragione (e metafisica).
Avvenire 8-3-2007