«Cantavamo Dio è morto»: la contestazione cattolica
Un libro di Roberto Beretta sul ruolo dei cattolici negli anni della protesta e nel movimento studentesco
Certo, che la scintilla decisiva per la contestazione sia partita dall’Università Cattolica, che Mario Capanna fosse arrivato dall’Umbria nell’ateneo milanese con lettera di raccomandazione del vescovo, monsignor Luigi Ciccutini, e del parroco (che in un’intervista descrisse il suo pupillo come «il migliore della parrocchia, una fede come pochi altri»), che Margherita Cagol detta Mara, moglie di Renato Curcio e morta da guerrigliera in un violentissimo scontro a fuoco coi carabinieri, il 5 giugno del ’75, avesse un curriculum fatto di scoutismo, gruppo missionario Mani Tese e animazione delle Messe post-conciliari, certo, sono cose note. Ma proprio per questo è curioso che gli studi sul lato prettamente cattolico del Sessantotto – e sul Sessantotto si è detto e scritto di tutto – siano assai pochi.
Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici
(Piemme, pagine 222, euro 13,50) del giornalista di Avvenire
Roberto Beretta ha il merito, in questo quarantennale di rievocazioni, di colmare un po’ il vuoto in materia. La sua è una rivisitazione dove il piano ecclesiale, con il fermento del post-Concilio, e quello politico, con l’influenza del marxismo e delle ideologie liberazioniste, si sovrappongono fino a risultare spesso inseparabili. E dove una delle varie angolature scelte, e tra le più efficaci, per comprendere il bailamme cattolico di quegli anni è quella di seguire il comportamento del Pontefice stesso. Paolo VI che osserva con attenzione i fatti della Cattolica e pensa di scendere a Milano per parlare direttamente con quei giovani surriscaldati (viene poi sconsigliato dal farlo per timore di un clamoroso oltraggio al Vicario di Cristo).
Paolo VI che il 20 dicembre del ’68 invia una lettera autografa a don Enzo Mazzi, leader della rivolta dell’Isolotto, il quartiere popolare di Firenze, invitandolo a cercare una riconciliazione con l’arcivescovo, il cardinale Ermenegildo Florit. Paolo VI che tra il dicembre ’67 e il maggio ’70 scrive ben sessantanove discorsi sulla contestazione nella Chiesa, con un crescendo di intransigenza che arriverà all’ipotesi, confidata in un colloquio a monsignor Ferdinando Antonelli, di chiudere per sempre l’Università Cattolica, e soprattutto al famoso discorso sul «fumo di Satana» entrato nel Tempio di Dio, nel giugno del ’72.
Vicende tormentate quelle del Sessantotto «bianco», i cui danni – perdita di fede di innumerevoli protagonisti, anche clericali, impazzimento dottrinale, fine tragica nella lotta armata per alcuni – furono grandi. È però anche vero, come fa notare Beretta, ed è una delle tesi portanti del libro, che il Sessantotto cattolico non fu solo apologia di Camillo Torres, il mitologico prete col mitra, ubriacatura di teologia della liberazione in salsa cinese, liturgie blasfeme e catechismo olandese. Fu anche una «rottura» da cui nacquero o maturarono realtà come Comunione e Liberazione, Bose, Sant’Egidio, numerose comunità di accoglienza, dalla Comunità di Capodarco al Ceis di don Mario Picchi, in un certo senso anche la comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi. Per cui oggi ci sarebbe lo spazio, volendo, dopo una dovuta e impietosa analisi delle derive, per una riflessione sul positivo che venne da quegli anni «formidabili ». E su ciò che si sarebbe potuto o dovuto salvare in quel vociare esaltato di «protagonismo dei laici » e «purificazione della Chiesa».
Avvenire 24-4-2008