(Avvenire) I concili ecumenici

  • Categoria dell'articolo:Chiesa

Sharing is caring!

Quando un concilio è davvero ecumenico?

Brandmüller: decisiva l’approvazione del Papa
«Al Vaticano I furono invitati anche ortodossi e protestanti. E il Vaticano II con duemila padri fu il più grande mai celebrato»

«La possibilità di formulare norme per tutta la Chiesa non può essere vanificata dal fatto che Chiese particolari si separino da Pietro»

Walter Brandmüller
presidente del Pontificio Comitato di scienze storiche

Avvenire 13 luglio 2007

Alla vigilia del concilio Vaticano II alcuni giovani storici – il cui venerato maestro fu Hubert Jedin – ebbero la felice idea di riunire in un unico volume i decreti dei precedenti concili nel testo originale. Un progetto importante, visto che l’imminente concilio non era pensabile né comprensibile senza i precedenti. Nel 1962 apparvero così – per iniziativa dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna a cura di Giuseppe Alberigo, Giuseppe Dossetti, Perikles Joannou, Claudio Leonardi e Paolo Prodi – i Conciliorum Oecumenicorum Decreta, che ebbero successive edizioni fino al 1998.

Nel 2006 è stato pubblicato da Brepols il primo volume di una nuova edizione curata dallo stesso istituto bolognese e con il titolo Conciliorum Oecumenicorum Generaliumque Decreta di cui sono previsti quattro volumi nella collana Corpus Christianorum. Questa nuova pubblicazione ha suscitato reazioni contrastanti: una recensione critica di Hermann Joseph Sieben su Theologie und Philosophie» (82, 2007, 2) e una nota pubblicata su L’Osservatore Romano» (3 giugno 2007), alla quale hanno replicato Giuseppe Ruggieri sulla Repubblica (8 giugno) e Alberto Melloni sul Corriere della Sera (9 giugno).

Salta all’occhio la modifica del titolo. Già il titolo Conciliorum Oecumenicorum Decreta induceva a chiedersi quali concili venissero presi in considerazione. Gli editori, pur consapevoli della problematica, decisero di includervi i concili abitualmente detti ecumenici a partire dalla lista di Roberto Bellarmino (1542-1621). Ora invece si distingue tra concili «ecumenici» e concili «generali», con una distinzione molto problematica e di cui non viene fornita alcuna spiegazione. Inoltre non tutti i concili definiti ecumenici – o così chiamati nella storiografia e nei documenti del magistero ecclesiastico – sono intesi come tali dagli editori. In particolare, né il Tridentino né i due concili Vaticani s arebbero da considerarsi ecumenici.

Il problema è evidente con il concilio Trullano (691-692) e i due concili foziani degli anni 869-870 e 879-880, tutti inseriti nella nuova edizione. Per il Trullano va infatti ribadito che non si può affermare pacificamente il suo carattere ecumenico. Il problema principale non sembra rappresentato tanto dai canoni promulgati (nonostante alcune eccezioni), quanto piuttosto dall’idea di fondo del concilio, che si percepisce nella lista delle sottoscrizioni e che era opposta al primato di Roma. Per quanto concerne i due concili foziani, finora era stato incluso solo il primo. Il fatto che in proposito vi sia una controversia non chiarita in modo definitivo – come appare dagli studi di Vittorio Peri e di Claudio Leonardi – avrebbe dovuto indurre a cautela o almeno a una discussione approfondita. Ciò vale anche per il concilio dell’anno 879-880, che annullò i decreti del precedente e riabilitò Fozio. Questo concilio mostra in tutto e per tutto i requisiti dell’ecumenicità: venne recepito da Roma e da tutte le sedi patriarcali, ma da nessuna venne mai definito ecumenico. Come si spiega allora la sua inclusione in questa edizione?

Seguono i primi quattro concili Lateranensi, i due Lionesi e quello di Vienna. Sui primi tre Lateranensi, vengono sollevate domande sulla loro ecumenicità, ma essi sono tradizionalmente annoverati tra i concili ecumenici e hanno stabilito norme giuridiche cogenti per la Chiesa intera. Eppure da essi non sono emanate decisioni o affermazioni di carattere magisteriale. D’altra parte a questi concili furono inviati numerosi delegati anche dall’Oriente. Non è dunque semplice definire il loro carattere canonico. E ancora una volta si pone la domanda: che cosa è un concilio generale?
A sorpresa è incluso nella nuova edizione anche il concilio di Pisa del 1409, un concilio di cui non può essere affermata la legittimità. Seguono il concilio di Costanza e quello di Pavia-Siena, che come il Pisano non figu rava – questa volta a torto – nelle precedenti edizioni. Significativo e molto problematico è poi che del Basileense siano state incluse nella nuova edizione anche tutte le sessioni tenute dai partecipanti rimasti a Basilea dopo il trasferimento del concilio a Ferrara a opera di Eugenio IV. Chiuderanno la serie il Tridentino e i due concili Vaticani nel terzo volume intitolato The General Councils of the Roman Catholic Church (e ci si può domandare perché si sia scelta l’aggiunta, restrittiva, «of the Roman Catholic Church»).

Vi sono dei quesiti ineludibili. In base a quali criteri avviene questa scelta? Cosa rende ecumenico un concilio? E se un concilio è ecumenico in cosa si distingue da un concilio generale? Rispondere a queste domande non è affatto facile, perché bisogna tenere conto almeno di due livelli argomentativi – quello storico e quello canonico – se non si vuole trattare anche quello ecclesiologico.

Storicamente bisogna ricordare che il concetto di ecumenicità dei concili si è formato, modificandosi, nel corso dei secoli. In questo processo si sono però mantenute delle costanti. In origine si chiamavano ecumenici i concili i cui partecipanti provenivano dall’ecumene, cioè dai territori dell’impero romano; in seguito, quando questi territori progressivamente si ridussero, il termine «ecumenico» si riferì alla Chiesa nella sua totalità. Fino ad allora i due ambiti erano quasi coincidenti, prescindendo però dalle Chiese esistenti in Oriente fuori dall’impero. In seguito ecumene è stato ed è inteso come sinonimo di Chiesa universale. Di conseguenza i concili ecumenici sono riunioni del collegio episcopale finalizzate all’esercizio collegiale del ministero magisteriale e pastorale della Chiesa, i cui decreti sono obbligatori per tutta la Chiesa e, nel caso di quelli dottrinali, infallibili e perciò irrevocabili. È questo, dunque, l’elemento che definisce l’essenza di un concilio ecumenico, a prescindere da ogni trasformazione storica.

Su questo c’è unanime accordo. Va registrato invece un certo dissenso quando si tratta dei requisiti che devono essere soddisfatti affinché un concilio possa essere definito ecumenico. Deve in primo luogo essere considerata non tanto l’istanza attraverso cui avviene la convocazione – per lungo tempo compito degli imperatori d’Oriente – ma piuttosto quanto esteso fosse l’invito: invitati dovevano essere i vescovi di tutta la Chiesa. Se erano presenti e in quale numero, è invece meno rilevante. Di un certo peso, per quanto non di importanza decisiva, è altresì la ricezione dei decreti, soprattutto da parte delle Chiese particolari assenti o non rappresentate. La ricezione e la conferma avvengono essenzialmente attraverso il Papa. Senza il capo del collegio dei vescovi e senza il suo consenso un’azione del collegio episcopale non è pensabile, e l’approvazione papale sostituisce quella delle Chiese particolari non presenti. La ricezione attraverso il Papa venne a suo tempo giudicata essenziale anche da chi aderiva alla visione ecclesiologica pentarchica, fondata cioè sulle cinque grandi sedi episcopali (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme).

Peri ha scritto che al tempo di Damaso I (366-384) per tutti i vescovi un concilio plenum et generale supponeva, per essere tale, «anche il qualificato concorso del vescovo di Roma o dei suoi plenipotenziari» e che tra i due concili Niceni (325-787) «tale tipo di concili rimase semplicemente impensabile senza un concorso del vescovo di Roma». Questo significa che l’approvazione papale non solo è indispensabile per un concilio generale, ma sostituisce l’efficacia e l’approvazione degli altri vescovi; e questo non è stato sostenuto per nessun altro vescovo, se non per quello di Roma.

Cosa accade invece, se un concilio si riunisce senza Papa? Questa situazione si verificò una sola volta nella storia: quando, dopo l’elezione di Clemente VII (20 settembre 1378) , scoppiò il grande scisma d’Occidente e la sede papale si ritrovò di fatto vacante. Questa situazione insostenibile dovette essere risolta con un concilio, un concilio dunque senza Papa. In questo caso non si poteva certo contare sulla convocazione da parte dei due (e poi tre) pretendenti al papato, e ancor meno c’era da aspettarsi la loro partecipazione al concilio. Fu infatti il tentativo dei cardinali che per la maggior parte avevano abbandonato i loro «Papi» e si erano uniti per convocare un concilio a condurre all’assemblea di Pisa. E questo concilio figura nella nuova edizione.

Era questo un concilio ecumenico? Certo, alcuni pretendevano per Pisa l’ecumenicità, in considerazione della situazione di scisma. Ne conseguirebbero però la validità dell’elezione di Alessandro V da parte di questo concilio e la dichiarazione di invalidità dell’elezione di Gregorio XII e Benedetto XIII. Ma sorge un problema grave. Se, tenuto conto dell’incerta situazione canonistica, si doveva partire da una sede di fatto vacante (e si tratterebbe perciò di un concilio senza Papa), allora si poneva il quesito decisivo, non si sa se mai effettivamente formulato: chi o cosa poteva sostituire il Papa, elemento costitutivo per un concilio ecumenico? Sarebbe stato necessario in quel caso che le «obbedienze» in concorrenza tra loro fossero in modo indubbio riunite o rappresentate a Pisa. Ma non fu così e questo non sanò la frattura, anzi la inasprì e acuì. Per questo è incomprensibile come alcuni abbiano potuto definire questa assemblea «concilio ecumenico» e come gli editori della raccolta abbiano potuto definirla «concilio generale».

Solo il rex Romanorum Sigismondo, più tardi imperatore, al di sopra delle parti come advocatus ecclesiae, riuscì a organizzare il concilio di Costanza, cinque anni dopo il fiasco di Pisa. E bisognò attendere l’estate inoltrata del 1417 – quando anche quasi tutta la «obbedienza» di Benedetto XIII aderì al concilio – p erché ci fosse la sua ecumenicità di fatto e con essa la legittimazione del risanamento dello scisma con l’elezione di Martino V.

È interessante poi come hanno proceduto gli editori con il successivo concilio di Pavia-Siena (1423-1424). Benché dopo il concilio di Costanza fosse stato convocato a Pavia da Martino V un concilio ecumenico, previsto dal decreto Frequens, sotto la guida di presidenti designati dal Papa, benché questo concilio abbia approvato quattro decreti e benché Martino V lo abbia confermato con una bolla, il concilio di Pavia-Siena ha sorprendentemente trovato posto solo in quest’ultima edizione dei decreti conciliari.

Altrettanto stupisce – ma per il motivo opposto – l’inclusione delle sedute e dei decreti approvati dal «mezzo concilio» di Basilea, che persisteva nello scisma dopo il trasferimento del concilio a Ferrara voluto da Eugenio IV. Gli editori pensano davvero che sia possibile un concilio senza il Papa o addirittura contro il Papa legittimo? Il vero concilio, in ogni caso, si tenne a Ferrara, e poi a Firenze e Roma, sotto la presidenza del Papa, e fu un concilio che più di tutti quelli fino ad allora convocati merita l’appellativo di «ecumenico». Vi presero parte infatti, oltre ai vescovi latini e al Papa, il patriarca di Costantinopoli, l’imperatore e numerosi gerarchi bizantini, ma anche delegazioni delle Chiese armene, copte, sire, caldee e maronite, che sottoscrissero poi i rispettivi decreti d’unione. Eppure questo concilio dagli editori non è definito ecumenico.

Un problema particolare è rappresentato dalla definizione «concili generali della Chiesa Romana Cattolica» attribuita ai concili di Trento, al Vaticano I e al Vaticano II. Perché questa definizione, con la quale si intende evidentemente distinguere questi concili dai «concili generali» del medioevo? Il decreto del Tridentino sulla sua conclusione e la bolla di conferma di Pio IV definiscono l’assemblea sacra oecumenica synodus ed oecumeni*censura* concilium. Perché quindi «concilio generale della Chiesa cattolica romana»? Lo stesso vale per il Vaticano I, ecumenico già solo perché l’invito a parteciparvi fu rivolto non solo alle Chiese ortodosse, ma anche ai protestanti, oltre che per la partecipazione di oltre seicento vescovi cattolici. E il Vaticano II – il più grande mai celebrato con i suoi duemila padri provenienti da tutto il mondo – non sarebbe stato ecumenico?

Già la definizione usata per denominare il Vaticano II evidenzia il rapporto contraddittorio degli editori con questo concilio. La sua storia, edita in cinque volumi dall’istituto bolognese, testimonia quale idea ne abbiano i curatori: da un lato lo ridimensionano, dall’altro lo dipingono come un nuovo inizio della vita della Chiesa, con un’implicita rottura con il passato. Ne deriva anche l’ermeneutica secondo la quale i curatori interpretano il concilio, distinguendo addirittura tra la lettera dei testi e il cosiddetto «spirito del concilio». Di fronte a questo la storiografia più equilibrata e lo stesso Benedetto XVI hanno più volte ribadito con decisione che il Vaticano II, come ogni altro concilio, va collocato e interpretato nella tradizione della Chiesa.

A questo punto si pone la domanda fondamentale: in base a quali criteri è stata realizzata questa nuova edizione? In proposito ci sono state discussioni tra i collaboratori, e il prospetto editoriale afferma esplicitamente che, oltre ai concili poi scelti, all’origine erano state prese in considerazione altre assemblee. Con ogni probabilità – con le eccezioni rilevate – ci si è però decisi per la lista abituale, risalente in sostanza a Bellarmino, senza ulteriori discussioni. Nella lista bellarminiana tuttavia non si riscontra alcuna differenza tra concilio «ecumenico» e concilio «generale» e non vi sono compresi né il concilio dell’879-880, né il Pisano del 1409, né quello di Pavia-Siena, né le fasi del Basileense successive al 1436.

Sembra quindi che gli editori abbiano voluto definire ecu menici solo i concili compatibili con il modello bizantino della pentarchia. Ma questo criterio non è sostenibile. A prescindere dalla problematicità fondamentale e dall’insostenibilità di questa concezione ecclesiologica – che non ha riscontro né nella Scrittura né nella tradizione apostolica – la sua scelta significherebbe che tutte le Chiese che non riconoscono il concilio di Calcedonia sarebbero escluse dall’ecumene cristiana. E se si afferma che l’atteggiamento delle Chiese non calcedonesi non tocca l’unità della Chiesa – e che perciò concili ecumenici sono possibili anche senza di loro – non si può ritenere al tempo stesso che non siano più possibili concili ecumenici dopo la separazione della Chiesa bizantina.

Va al contrario ribadito con forza che anche dopo il consolidamento dello scisma d’Oriente, la una sancta catholica et apostolica Ecclesia sussiste e può celebrare concili ecumenici autorizzati a promulgare affermazioni dottrinali e norme canoniche cogenti per la Chiesa ecumenica, cioè per la Chiesa tutta. Questa possibilità non può essere vanificata dal fatto che Chiese particolari si separino dal corpus ecclesiae e dal titolare del ministero petrino, costitutivo per l’unità ecclesiale.
Monsignor Walter Brandmüller, autore di questo articolo, dal 1998 è il presidente del Pontificio Comitato di scienze storiche. Professore ordinario emerito di storia della Chiesa all’università di Augsburg, è anche fondatore e direttore della collana «Konziliengeschichte» e della rivista «Annuarium Historiae Conciliorum». Istituito da Pio XII nel 1954, il Pontificio Comitato di scienze storiche rappresenta la Santa Sede nel «Comité international des sciences historiques». Oltre a partecipare a iniziative di ricerca scientifica internazionale e a offrire consulenza all’attività dei dicasteri vaticani, organizza propri convegni di studio e pubblica una collana di «Atti e documenti» presso la Libreria editrice vaticana.