INTERVISTA
Nuovi documenti sul padre della Cattolica e il fascismo. La storica Bocci: «Negli armadi non ci sono scheletri»
Modernità, la sfida di Gemelli
Di Giacomo Scanzi
Studiare Gemelli a tutto campo costituisce un grande gesto di coraggio. Studiarlo andando a consultare le carte, rimaste inspiegabilmente per molti anni dentro i faldoni degli archivi, aggiunge coraggio a coraggio. Maria Bocci ha superato quella sorta di timore accademico durato decenni, timore che ha fatto sì che quasi ci si accontentasse del già detto, nel bene e nel male, e ha affrontato il fondatore dell’Università Cattolica de visu, indagando il nodo, il suo rapporto col fascismo, offrendo uno straordinario spaccato della complessità gemelliana. Il risultato sono oltre 700 pagine pubblicate dall’editrice bresciana Morcelliana con il titolo «Agostino Gemelli. Rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia».
Docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica, allieva di Giorgio Rumi, Maria Bocci offre di Gemelli un ritratto inedito, scava dentro le ragioni delle scelte e dei rapporti del “magnifico terrore”, portando alla luce verità poco note. «In realtà Gemelli – ci spiega Maria Bocci – è stato un grande e abilissimo manovratore, che giocava su mille piani e su mille piazze, riuscendo sempre a divincolarsi dalle morse troppo strette – per esempio – del regime. Ha saputo “giocare di equilibrio” nelle pieghe del regime fascista, giostrando abilmente tra vertici e periferia, tra Milano e Roma, tra partito, duce, gerarchi e Ministeri…»
Un esempio?
«Il suo rapporto con Farinacci è chiaramente strumentale. In certe fasi sembra che Gemelli punti sul fascismo più intransigente per salvaguardare l’autonomia dell’università, e il gioco alle volte riesce. Farinacci e Gemelli, infatti, si usano reciprocamente, ciascuno per i propri scopi. La questione ha dei costi, e pesanti. Le carte dimostrano che probabilmente dietro il discorso di Bologna, additato come prova dell’antisemitismo di Gemelli, ci sono le minacce di Farinacci, in un periodo difficilissimo per l’università e per la Chiesa, quello che precede di poco la guerra e ch e lascia la Cattolica priva del suo nume tutelare di sempre, Pio XI. Bisogna dire, comunque, che molti documenti dimostrano che gli orientamenti dell’università, per volontà esplicita del rettore, non sono né razzisti né antisemiti, come ci sono decine e decine di lettere di ebrei italiani e stranieri aiutati da Gemelli a fuggire, a trovare un posto di lavoro, in America, in Brasile, in Canada, a Parigi. Medici, scienziati, professionisti, come Enzo Bonaventura, Mario Donati, Carlo e Piero Foà, Alfred Manoil, Rudolf Aller, Willy Dub, Carla Zawisch, Gino Sacerdote… Lo stesso Cesare Musatti si avvale dell’aiuto del rettore. E tutto ciò avviene proprio negli stessi mesi, addirittura negli stessi giorni del discorso di Bologna.
Un altro episodio: l’accusa a Gemelli di aver denunciato due studenti della Cattolica in quanto antifascisti. La storiografia ha dato per assodato – penso al volume «Delatori» di Mimmo Franzinelli – che la denuncia venisse direttamente dal rettore. In realtà i delatori – lo si scopre se si guardano tutti i documenti che riguardano questo episodio – sono altri, ce lo dicono le carte. E Gemelli, che si barcamena tra la Questura che gli chiede conto della propaganda antifascista diffusa anche nel suo ateneo, da una parte, e i propri giovani tra i quali spesso il fascismo non è apprezzato, dall’altra, trova il modo di impedire che l’inchiesta si allarghi…»
Perché un libro su Gemelli e il fascismo?
«Perché affrontare questo problema significa liberarsi di una sorta di macigno. Perché Gemelli è stato affrontato quasi sempre attraverso quelle che sarebbero – a priori – le sue “colpe” fasciste, e questo molto spesso ha impedito di capirlo. Credo che il libro sia utile non solo per dimostrare che probabilmente negli armadi non ci sono scheletri, ma per valutare meglio il progetto culturale di Gemelli e la sua capacità di confrontarsi con la storia, per liberare una parte della cultura cattolica da un forte senso d’inferiorità, da un’ident ità velata, dalla tentazione di pensare che i propri antenati siano diversi da quello che sono stati, quasi desiderando altri padri».
Abbiamo accennato sopra al grande tema del rapporto di Gemelli con la modernità…
«Innanzitutto va detto che anche il fascismo – per Gemelli – è un frutto della modernità e questo pone evidentemente dei grossi problemi, che il rettore ha affrontato. Ma Gemelli amava la modernità, nonostante ne condannasse la genesi filosofica e immanentistica. E la modernità per il rettore aveva innanzitutto il volto della scienza. In età fascista, Gemelli è uno dei pochissimi bastioni della psicologia italiana, bandita dal regime. Ci sono psicologi che lo ringraziano perché la Cattolica durante la guerra è stato l’unico luogo in cui si è potuto parlare di psicologia liberamente, senza vincoli o preoccupazioni politiche. Lo stesso “medievalismo” non deve essere inteso come un ritorno al passato, ma come la conservazione di un tesoro da proiettare verso il futuro. Gemelli ha un progetto per l’avvenire. In questo senso la sua prospettiva è forse un po’ diversa da quella di altri segmenti del mondo cattolico (penso alla Fuci che prende le distanze dalla modernità, lasciando aperti però importanti varchi dialogici). No, Gemelli nel moderno ci si butta a capofitto. Per lui fede e scienza dialogano già intrinsecamente. Il destino di credente del rettore si gioca insomma in laboratorio. Anche dal punto di vista politico, Gemelli ha in mente un’Italia molto moderna. La classe dirigente che ha in mente non è l’élite fucina, è la classe dirigente dell’età delle masse, compresa l’età del secondo dopoguerra. Ci troviamo di fronte ad un’identità forte e ad un grande desiderio di sperimentazione, che non può non sporcarsi le mani. Non c’è semplice confronto con la modernità, c’è la sua assunzione piena, con la fiducia di poterne non solo denunciare mali e difetti, ma anche svelare gli aspetti cristiani».
Avvenire 19-9-2003