A 40 anni dal Concilio un convegno traccia il bilancio dell’aspetto musicale della riforma Qualità dei testi e uniformità dei repertori i punti sui quali occorre ancora crescere
Quando il canto esalta la liturgia
Da Palermo Alessandra Buscemi
Cantare sempre, cantare bene, cantare tutti, per contribuire all’edificazione della Chiesa. Uno slogan quanto mai attuale per riscoprire la natura ministeriale della musica e del canto nella liturgia. A quarant’anni dalla Sacrosanctum Concilium, la costituzione del Vaticano II che fissa i canoni del canto sacro, e a cento anni dal primo documento sulla musica nella liturgia elaborato da Pio X, la Chiesa italiana si è confrontata a Palermo sulla «Fidei canora confessio». Al quinto convegno nazionale di musica per la liturgia i 180 partecipanti, accolti dalla Conferenza episcopale siciliana e dal cardinale Salvatore De Giorgi, hanno cercato di riscoprire le motivazioni teologiche che stanno dietro la presenza del canto nella liturgia, tenendo come filo conduttore l’intuizione conciliare che prevede «la riscoperta rituale della musica per celebrare nella bellezza», per dirla con monsignor Crispino Valenziano. Il Concilio ha dato una svolta al ruolo del canto sacro, gli ha donato il valore di «servizio ministeriale al popolo di Dio, proprio come ogni altro atto liturgico – spiega monsignor Giuseppe Busani, direttore dell’Ufficio liturgico nazionale -. L’atto del cantare coinvolge tutta la sensibilità e il vigore dell’uomo. Il cantare libera la parola dal rischio di verbosità, dal tentativo di essere ingannevole e astratta. Nel suo atto intrinseco è comunione, quindi edificazione della Chiesa».
Nel riscoprire la bellezza dell’azione rituale, il teologo Andrea Grillo, chiarisce che la musica «non è solo in funzione del rito, ma potente strumento per liberare il rito da ogni funzione, per restituirgli quella gratuità del faccia a faccia, dell’incontro e della relazione, senza la quale non vi può essere né rivelazione né fede». Ma questo obiettivo viene raggiunto solo se si riesce a sgombrare il campo dal protagonismo, dallo specialismo, «solo se ogni figura di canto si lascia plasmare dalla liturgia e si fa in modo che tutto il popolo partecipi» raccomanda monsignor Busa ni. È la scarsa partecipazione del popolo, infatti, il rischio maggiore che si registra sia in Italia che all’estero. Malgrado il tradizionale canto gregoriano abbia sempre più ceduto il posto a composizioni moderne, che si servono di strumenti alternativi all’organo e più vicini ai giovani per l’accompagnamento musicale, l’esecuzione canora nella liturgia tende a restare ancora un privilegio per pochi. Nell’analisi condotta dai relatori, in particolare dal professor Alberto Melloni di Modena, emerge che la situazione in Italia è frammentata ma non disperata; il canto è presente in tutte le comunità, magari curato da gruppi diversi all’interno della stessa parrocchia, ma la qualità lascia a desiderare. Esistono scuole diocesane di musica per la liturgia, vengono curati la formazione degli animatori e il servizio degli operatori musicali alla liturgia. Più sconfortante la situazione della vicina Francia, dove, come sottolinea Serge Kerrien «diventa spesso quasi impossibile partecipare con il canto a certe assemblee, data la così grande molteplicità dei repertori che hanno ormai preso piede». La presenza di più di diecimila canti cosiddetti liturgici «ha reso impossibile la creazione di un repertorio e difficile il canto unanime delle assemblee». Dunque, a quarant’anni dal Concilio bisogna battere proprio su questo punto: «Creare un repertorio coerente (nazionale, diocesano, parrocchiale), vario nello svolgersi delle celebrazioni liturgiche lungo l’anno e tuttavia dotato di una certa stabilità che permetta una graduale ed efficace assimilazione dell’assemblea» sottolinea monsignor Adriano Caprioli, presidente della Commissione episcopale per la liturgia, che con monsignor Domenico Mogavero, sottosegretario della Cei, ha curato l’introduzione del convegno. Una cura particolare va dedicata alla qualità delle parole dei canti, che vanno rapportate al momento rituale e ai testi sacri, affinché si possa «cantare la Messa e non nella Messa».
(Avvenire 24-10-2003)