Il Paese è cambiato: rivendica il secondo posto nell’economia globale e se la crisi sta minando i successi degli ultimi due decenni, la Cina rimane comunque la speranza più forte per la ripresa mondiale. I giovani, a causa della censura e del silenzio del regime, non sanno nemmeno che cosa sia accaduto 20 anni fa; gli studenti di oggi studiano e lottano per vincere la concorrenza nella corsa a un posto di lavoro, e hanno dimenticato Tienanmen. Ma proprio questa Cina modernissima e internazionale, nel bene e nel male, è frutto di quel massacro. L’’accelerazione delle riforme’, lanciata da Deng Xiaoping nel ’92, è stato il tentativo di far rinascere nella gente la stima per il Partito che aveva ucciso i loro figli. Il tentativo di rendere ‘ricchi e gloriosi’ i cinesi doveva servire da sedativo, così che il benessere cancellasse il ricordo di quella notte di sangue e il popolo tornasse a onorare l’imperatore garante di stabilità e consumismo. Deng e Jiang Zemin sono arrivati perfino a giustificare il massacro come «un male minore», il prezzo pagato per garantire la «stabilità» e raggiungere lo sviluppo che ne è seguito.
Ma, all’indomani di Tienanmen, le adesioni al Partito sono crollate fino al 70% e la gente ha compreso che i ‘liberatori’ dall’invasione giapponese e i ‘timonieri’ dell’unità e delle riforme sono soltanto un’oligarchia che domina il popolo a proprio vantaggio. La disillusione verso il regime è andata crescendo. Mentre i leader attuali predicano la «società armoniosa », le dissonanze divengono insostenibili: il divario fra ricchi e poveri (un esercito di circa 900 milioni) ha raggiunto livelli da Terzo mondo; i segretari di Partito e i capi-villaggio depredano terre e case di contadini per rivenderle e operare speculazioni edilizie; i migranti che hanno fatto bella la Pechino delle Olimpiadi non hanno salario, né sanità, né istruzione per i propri figli; lo sviluppo selvaggio di questi 20 anni ha reso la Cina il Paese più inquinato della Terra, dove ogni anno muoiono 400mila persone per malattie respiratorie.
La nazione di oggi è frutto di quanto il massacro ha fermato. Al Partito che aveva operato le 4 modernizzazioni economiche, i giovani chiedevano la ‘quinta modernizzazione’, la democrazia, senza di cui la società sarebbe stata ingoiata dalla corruzione e dall’ingiustizia. I continui scandali alimentari (il latte alla melamina), quelli finanziari che coinvolgono pezzi grossi del Partito (a Shanghai, Xiamen, Guangzhou…), quelli delle scuole del Sichuan, crollate nel terremoto come ‘budini di tofu’ uccidendo 8mila bambini, mostrano che la Cina di oggi è ancora più corrotta di quella dell’89 e continua a produrre massacri. Nonostante ciò, il governo di Pechino mette a tacere gli scandali, annacqua le sentenze e vieta alle vittime di cercare giustizia per vie legali.
La Cina di oggi, senza democrazia né libertà di parola, è il frutto incompiuto del movimento di Tienanmen. Ma in questi 20 anni quel movimento si è diffuso in modo capillare, generando una società civile più consapevole: attivisti per i diritti umani, avvocati che difendono i poveri, giornalisti e internauti che diffondo l’informazione negata. La massa di operai sfruttati, di contadini defraudati, di famiglie avvelenate genera ogni giorno un fiume di petizioni, dimostrazioni e richieste che mettono in crisi la stessa capacità di governo del Partito.
Secondo il ministero della Sicurezza, vi sono almeno 87mila «incidenti di massa» (scontri fra polizia e manifestanti) ogni anno; le cause di lavoro – per salari non pagati o licenziamenti – nel 2008 sono state un milione. Davanti alle richieste della società civile, il governo-Partito si trova, come ai tempi di Tienanmen, davanti a un crocevia: deve decidere se seguire un sentiero di dialogo e democrazia o la via della repressione. Nessuno degli attivisti cerca oggi di rovesciare il sistema o di condannare il Partito comunista: chiedono giustizia e dialogo all’interno della risicata cornice legale disponibile. Molti di coloro che sollecitano le riforme sono membri del Partito e personalità dell’intellighenzia statale.
Eppure, la risposta del regime è la stessa di 20 anni fa: silenzio, arresti, divieti di associazione e di pubblicazione via Internet o sui giornali di riflessioni su scandali, corruzione e democrazia. Nessuno sa fin quando potrà durare questo contenimento fatto di controlli polizieschi e militari. Ma certo un confronto aperto sul massacro di 20 anni fa e il riconoscimento delle colpe aiuterebbe alla riconciliazione. Purtroppo, la Cina sembra dirigersi in modo pericolosissimo verso una ripetizione amplificata di quel massacro. Vale anche la pena mettere in luce il legame fra movimento democratico e libertà religiosa. Nei primi anni dopo l’89, il braccio di ferro fra i dissidenti e il Partito è rimasto troppe volte a livello di rivendicazione economica o di libertà individuale.
Ma ormai in Cina si diffonde sempre più una cultura che mette al centro la persona e i suoi diritti inalienabili, rispettando il potere dello Stato, ma criticando la sua dittatura autoritaria. Ciò è avvenuto ‘grazie’ a Tienanmen: diversi dissidenti, espulsi o imprigionati, hanno avuto contatto con comunità cristiane. Personalità come Gao Zhisheng, Han Dongfang, Hu Jia hanno scoperto la fede quale base del valore assoluto della persona, fondamento della difesa dei diritti umani. Questo innesto fra impegno civile e libertà religiosa è uno dei frutti che fa più sperare per un futuro di giustizia.