RITRATTANO I TRE GIOVANI PER I QUALI DON TURTURRO SAREBBE STATO PEDOFILO
Accuse inventate ad arte.
Far fuori un prete scomodo
ANTONIO MARIA MIRA
Avvenire 24-1-2008 « N on è vero », «è tutto falso», «non l’ho mai detto». Ieri sono cadute come pietre nell’aula del tribunale di Palermo le parole di tre giovani, testimoni d’accusa nel processo contro don Paolo Turturro, ex parroco di Santa Lucia, nel difficilissimo quartiere di Borgo Vecchio, accusato di violenze sessuali contro alcuni ragazzini. Non è la prima volta. Già il 27 novembre un altro testimone, questa volta oculare, aveva pronunciato la stessa frase «è tutto falso », e così la madre che, nel corso dell’inchiesta aveva raccolto e riferito il suo racconto. Crolla l’accusa? Tutta un’invenzione? È presto per tirare conclusioni giudiziarie, ma non per riflettere. Resta, come scrisse l’Arcidiocesi di Palermo, la «piena fiducia nell’operato della magistratura», ma anche una richiesta pressante che non si perda ulteriore tempo. Sono passati, infatti, ben cinque anni dall’apertura dell’inchiesta e addirittura due anni e nove mesi dall’inizio del processo che, ricordiamo, è ancora al primo grado. Nessuna sentenza, dunque, ma un risultato comunque è stato raggiunto. Don Paolo è rimasto tre anni lontano dalla sua parrocchia, lontano da Palermo, dal suo impegno per i giovani e contro la mafia. Lo ha fatto in silenzio. Divieto di soggiorno fu la decisione del gip palermitano il 17 settembre 2003 (da sette mesi è tornato ma si occupa, con discrezione, di assistenza spirituale agli anziani). Niente arresto, ma forse qualcosa di peggio. Si interrompeva un lavoro, una presenza che andava avanti da più di quindici anni.
Presenza scomoda, spesso rumorosa e alcune volte sovraesposta, ma certamente efficace. Carica di valore simbolico come i falò delle armi giocattolo. Forse era troppo. Così erano arrivati i proiettili lasciati nel confessionale, i danneggiamenti e gli altri atti di intimidazione sia contro la parrocchia che contro l’associazione ‘Dipingi la pace’ fondata dal sacerdote.
Un classico. Poi l’obbligo della scorta, quella che, purtroppo, nessuno decise di assegnare a don Pino Puglisi, ucciso così facilmente da Cosa nostra il 15 settembre 1993. Proprio quel giorno don Paolo disse: «Abbiamo pensato di superare lo smarrimento e di prendere nelle nostre mani e nelle nostre gambe la fede di padre Puglisi e portarla avanti». E così era stato, per lui e per tanti sacerdoti della Chiesa siciliana, sulla scia del dirompente monito ai mafiosi lanciato da Giovanni Paolo ad Agrigento il 9 maggio 1993: «Dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Impegno difficile, insidioso, tra ostacoli prevedibili e imprevisti. Come l’inchiesta aperta nel dicembre 2002 su presunte violenze ai minori commesse nella parrocchia. I racconti dei piccoli riferiti da un’insegnante e poi suffragati da altri piccoli testimoni, gli stessi che oggi ritrattano seccamente. Certo ci vuole prudenza, ma come non ricordare che dopo la morte di don Puglisi vennero fatte circolare voci, anche per lui? E, ugualmente, che, dopo l’uccisione il 19 marzo 1994 di don Peppe Diana da parte della camorra, alcuni giornali campani in odore di collusione parlarono di «storie di donne»? L’arma della diffamazione assieme o al posto di quella fatta di acciaio e piombo. Calunniate, calunniate, qualcosa resterà, recita il vecchio detto. Forse le ritrattazioni potrebbero essere frutto della nuova aria che si respira in Sicilia. Forse. Di una mafia che ha perso parte del suo asfissiante controllo.
Forse. La certezza è quel tarlo che in questi cinque anni ha accompagnato la vita di un sacerdote apprezzato, amato, seguito come esempio da tante gente. No, non si può perdere altro tempo per onorare la giustizia e fare definitiva chiarezza.
Si usa l’arma della diffamazione al posto di altre. Calunniate, calunniate, qualcosa resterà, recita il detto