14/11/2007 16:30
VATICANO – ORTODOSSI
Cattolici e ortodossi dopo Ravenna: tra primato del papa e collegialità necessaria
Il documento conclusivo dell’incontro di Ravenna della Commissione mista per il dialogo teologico esamina la questione principale di divisione tra le due Chiese. Si ribadisce che il vescovo di Roma è “il primo” dei patriarchi, ma resta irrisolta la questione di ciò che questo concretamente comporta.
Roma (AsiaNews) – Cattolici ed ortodossi tornano a dirsi d’accordo nel riconoscere che il vescovo di Roma – cioè il papa – ai tempi della Chiesa indivisa, fosse “il primo” dei patriarchi, e quindi dei vescovi, ma continuano a non esserlo su cosa concretamente ciò comportasse. Ridotte all’osso sono queste le conclusioni del documento che la Commissione mista per il dialogo teologico tra cattolici ed ortodossi ha elaborato nell’incontro di Ravenna dello scorso ottobre per quanto riguarda il ruolo del papa. Si tratta di un documento “di lavoro”, che perciò non indica adesione della Chiesa cattolica e di quelle ortodosse. Per queste ultime, poi, una accettazione comune è resa improbabile dalla mancanza di una autorità centrale e dalla decisione del Patriarcato di Mosca di abbandonare l’incontro di Ravenna a causa della presenza della Chiesa Apostolica estone, che essi non riconoscono.
Si tratta ugualmente, però, di un documento chiarificatore, e quindi significativo, e di un passo avanti nel cammino ecumenico. Ciò premesso, il “riconoscimento” del “primato” del vescovo della “sede” di Roma – mai seriamente contestato – non comporta il superamento della divisione tra cattolici ed ortodossi. Perché il problema, che il documento nelle sue conclusioni lascia con un punto interrogativo è come far concretamente convivere il principio della sinodalità, che necessariamente caratterizza i rapporti tra vescovi e per il quale le decisioni esigono il “consenso” di tutti i partecipanti, con quello del “primato”, che riconosce un ruolo particolare, di “presidenza”, ad uno dei partecipanti.
Il documento, una decina di pagine e diviso in 46 punti, parte dunque dal concetto di “sinodalità” o “conciliarità”, termine che, vi si afferma, riflette il ministero trinitario e in esso trova il suo fondamento ultimo. Come nella Trinità, aggiunge, la qualifica di “seconda” e “terza” persona non implica una diminuzione o una subordinazione, similmente, c’è anche un ordine tra le Chiese locali, che non implica ineguaglianza nella loro natura ecclesiale. Tra loro, i vescovi non sono uniti solo nella fede, carità, missione, riconciliazione, ma hanno in comune la stessa responsabilità e lo stesso servizio alla Chiesa: sinodi e concili sono la via principale nella quale la comunione si esercita concretamente. Ogni Chiesa locale, poi, quando è in comunione con le altre Chiese locali, è manifestazione dell’unica e indivisibile Chiesa di Dio. Essere “universale”, così significa essere in comunione con l’unica Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
In questa Chiesa c’è una dimensione sinodale che ha tre livelli: locale, regionale e universale. A livello locale della diocesi governata dal vescovo; a livello regionale di un gruppo di Chiese locali con i loro vescovi che “riconoscono chi è il primo tra loro”; e a livello universale nel quale coloro che sono i primi (protos) nelle diverse regioni, insieme con tutti i vescovi, cooperano in ciò che riguarda la totalità della Chiesa. Anche a questo livello, i protoi “debbono riconoscere chi tra loro è il primo”.
E’ in questo quadro che viene affrontata la questione dell’autorità nella Chiesa. Si parte dall’affermazione che, discendendo da Gesù ed in corrispondenza al suo mandato, l’autorità dei vescovi comprende la proclamazione e l’insegnamento del Vangelo, la santificazione attraverso i sacramenti, in particolare l’Eucaristia e la direzione pastorale di coloro che credono. Essa poi è legata alla grazia ricevuta nell’ordinazione e “non è una proprietà privata di coloro che la ricevono o qualcosa di delegato dalla comunità”: è invece “un dono dello Spirito Santo” destinato al servizio (diakonia) della comunità e non può mai essere esercitata al di fuori di essa.
In ogni caso, l’esercizio dell’autorità, in tutte le sue forme ed a tutti i livelli, deve essere un servizio (diakonia) d’amore, come è stato per Cristo. L’autorità della quale stiamo parlando, dal momento che esprime l’autorità divina “non può esistere nella Chiesa se non nell’amore tra colui che la esercita e coloro che ne sono soggetti”. E’, poi, un’autorità senza dominio, senza coercizione fisica o morale, radicalmente diversa da quella dei leader delle nazioni e dei grandi di questo mondo, in quanto il suo esercizio e la sua efficacia spirituale sono assicurati attraverso il “libero consenso e la volontaria cooperazione”. L’autorità, infine, è legata alla “essenziale struttura” della Chiesa, che è di essere orientata verso la salvezza.
In concreto, l’autorità si esercita a tre livelli, che corrispondono a tre livelli di istituzioni ecclesiali: locale, regionale e universale. A livello locale l’autorità è esercitata dal vescovo e la sua Chiesa è universale, comprende tutti i fedeli, ne esalta i carismi, opera per la loro salvezza ed è in comunione con le altre Chiese che confessano la stessa fede apostolica.
Si passa poi al livello regionale per il quale i vescovi di ogni provincia (ethnos) debbono riconoscere colui che è il primo (protos) fra loro e considerarlo come il loro capo (kephale) e non devono fare nulla senza il suo consenso (gnome); ogni vescovo può fare solo ciò che riguarda la sua diocesi (paroikia) ed i territori da essa dipendenti. Ma il primo (protos) non può fare nulla senza il consenso di tutti. Attraverso questa strada la concordia (hoimonoia) prevarrà.
Si giunge così al livello universale. Nel documento, grande spazio è dedicato ai Concili ecumenici che riunivano vescovi di tutte le regioni ed in particolare quelli delle cinque sedi principali: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, secondo l’ordine antico (taxis). I concili della Chiesa indivisa hanno preso “solenni decisioni dottrinali” e formulazione della fede comune, specialmente su punti cruciali. Essi sono vincolanti per tutte le Chiese e tutti i fedeli, di tutti i tempi e luoghi.
Cattolici ed ortodossi che hanno preso parte ai lavori concordano sul fatto che quell’ordine (taxis) era riconosciuto da tutti nell’epoca della Chiesa indivisa. Inoltre essi concordano che Roma, come Chiesa che “presiede nell’amore”, secondo la frase di Sant’Ignazio di Antiochia (Ai Romani, Prologo), occupava il primo posto in questa taxis e che il vescovo di Roma era conseguentemente come protos fra i patriarchi. Non sono invece d’accordo sulla interpretazione delle prove storiche del tempo riguardanti le prerogative del vescovo di Roma in quanto protos, materia che era già intesa in modi diversi nel primo millennio.
Insieme invece riconoscono che la conciliarità a livello universale, esercitata nei concili ecumenici, implica un ruolo attivo del vescovo di Roma, in quanto protos dei vescovi delle maggiori sedi, nel consenso dei vescovi riuniti.
In conclusione, il primato e la conciliarità sono reciprocamente interdipendenti. Questa è la ragione per cui il primato a differenti livelli della vita della Chiesa, locale, regionale e universale, deve sempre essere considerato nel contesto della conciliarità, ad a sua volta la conciliarità nel contesto del primato.
Per quanto riguarda il primato ai diversi livelli, il documento affermare che:
1. Il primato a tutti i livelli è una pratica fortemente radicata nella tradizione canonica della Chiesa.
2. Mentre il fatto del primato a livello universale è accettato sia dall’Oriente che dall’Occidente, ci sono differenze nella comprensione per ciò che riguarda la maniera nella quale va esercitato, ed anche riguardo il suo fondamento testuale e teologico.
Resta da studiare, conclude il documento, la questione del ruolo del vescovo di Roma nella comunione con tutte le Chiese. Quale è la specifica funzione del vescovo della “prima sede” in una ecclesiologia di koinonia ed in vista di ciò che abbiamo detto sulla conciliarità e l’autorità nel presente documento? Come può l’insegnamento dei Concili Vaticani primo e secondo sul primato universale essere compreso e vissuto alla luce della pratica ecclesiale del primo millennio? Queste sono questioni cruciali per il dialogo. (FP)