(AsiaNews) Appello del premier tibetano al mondo

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22/04/2008 11:40 INDIA – TIBET – CINA

Premier tibetano: la Cina ha fatto del Tibet una trappola per distruggerci

di Nirmala Carvalho

Samdhong
Rinpoche, primo ministro del governo tibetano in esilio, analizza per
AsiaNews le provocazioni del governo cinese e la campagna denigratoria
contro il Dalai Lama, tesa a far peggiorare ancora di più la situazione
della popolazione tibetana. Un appello alla comunità internazionale:
Pechino vi ignora da 30 anni, fate qualcosa prima della distruzione del
Tibet.

haramsala (AsiaNews) – In questo
momento “una campagna di rieducazione politica del Tibet non serve a
nulla. Continuare questa campagna denigratoria contro il Dalai Lama
ferisce in profondità il popolo tibetano, che davanti a queste
provocazioni non riesce a stare calmo e crea le condizioni per essere
dipinto come violento. È una trappola”. È il commento sulle nuove
politiche tibetane di Pechino rilasciato ad AsiaNews dal primo ministro del governo in esilio, Samdhong Rinpoche.
La Cina, spiega il politico, “sa che attaccare il nostro leader
farà perdere le staffe alla popolazione. L’emarginazione economica, il
disastroso stato della sanità pubblica, la mancanza di scuole adeguate
sono situazioni con cui il Tibet ha imparato a convivere: denunciare il
Dalai Lama è l’unico modo con cui i comunisti possono provocare i
tibetani, facendoli apparire violenti”.
È chiaro a tutti, riprende Rinpoche, “che il governo comunista ha
uno scudo enorme: quello del mercato internazionale, che lo ripara da
tutto. Le ‘pressioni verbali’ della comunità internazionale non creano
problemi al regime, che continua con le sue violazioni esattamente come
prima. Negli ultimi 30 anni, la Cina ha dimostrato di non tenere in
alcun conto le opinioni della comunità internazionale, ed il mondo lo
sa”.
Proprio per questo, il governo tibetano in esilio ha pubblicato un
appello urgente alla comunità internazionale, che deve intraprendere
misure immediate ed efficaci per fermare la repressione brutale della
popolazione tibetana ed interrompere il genocidio culturale del Tibet
operato da Pechino.
Riportiamo di seguito il testo completo dell’appello (traduzione a cura di AsiaNews):
Dal 10 marzo 2008, vi sono state numerose proteste nelle province
tibetane di U-Tsang, Kham e Amdo, così come in molte delle città cinesi
in cui vivono dei tibetani. Queste proteste derivano
dall’insoddisfazione e dal risentimento profondo provocato dalla
repressione eccessiva operata contro alcuni monaci che, nel Tibet,
celebravano il 10 maggio.
Questa è una data storica per la popolazione tibetana [che ricorda
l’insurrezione anti-cinese del 1959, conclusa con un bagno di sangue e
l’esilio del Dalai Lama ndr]. Ogni anno si celebrano delle
manifestazioni pacifiche, che finiscono il giorno stesso. Questo anno
le proteste sono continuate, per manifestare contro l’uso non
necessario di misure repressive e violente. Se il vero obiettivo delle
autorità cinesi era quello di mantenere la pace e l’ordine in Tibet,
avrebbero potuto raggiungerlo in poche ore. Ma la normalità non è
tornata neanche dopo cinque settimane, ed ogni giorno che passa
continuano proteste e repressioni.
Questo fa venire dei sospetti sulle vere intenzioni delle autorità
cinesi. Fra gli altri, si sono verificati alcuni episodi molto dubbi:
a) Il 14 marzo le autorità di Lhasa hanno permesso molte ore di scontri, senza intervenire in alcun modo.
b) Molti di coloro che erano
coinvolti in quegli scontri erano degli sconosciuti alla popolazione
locale. In particolare, alcuni testimoni dicono di aver visto
poliziotti cinesi vestiti da monaci che guidavano le proteste.
c) Le autorità cinesi hanno
dichiarato di aver trovato pistole e proiettili all’interno di alcuni
monasteri buddisti. Queste accuse si basano sul ritrovamento di spade
finte e pistole fatte in casa: le offerte agli dei che proteggono i
monasteri, i Gonkhang. In altri casi, sono stati gli stessi soldati a
lasciare le armi nei monasteri, per poi dichiarare di averli “scoperti”.
d) Senza alcuna prova, le autorità
cinesi accusano le “forze indipendentiste del Tibet” di voler lanciare
degli attacchi suicidi, ed hanno denunciato alcuni monaci per aver
fatto esplodere una bomba che ha danneggiato un edificio di Chamdo, nel
Tibet orientale. Anche questa accusa non è stata sostenuta da alcuna
prova.
e) Il governo ha lanciato una
campagna di rieducazione, imponendo a monasteri e case private di
esporre la bandiera cinese [fino ad oggi era permesso ai luoghi di
culto di non esporre alcun simbolo politico ndr]. Nel contempo, viene portata avanti una campagna di offese al Dalai Lama tesa a provocare la popolazione.
f) La Repubblica popolare cinese
sta cercando di creare uno scontro fra la popolazione tibetana e quella
cinese, facendo riferimento alla “cricca del Dalai” per istigare chi
non ci conosce.
Queste azioni non aiutano a ristabilire la pace e l’ordine in
Tibet. Al contrario, vengono considerate altamente provocatorie dalla
popolazione, che ne viene colpita in profondità. Questi avvenimenti
sembrano invece indirizzati alla distruzione della tolleranza dei
tibetani, che vengono provocati a reagire in maniera violenta. Siamo
molto preoccupati dalla repressione, che continua con pestaggi,
torture, omicidi, privazioni di cibo ed acqua: tutte cose che
condurranno alla disperazione i tibetani. Abbiamo paura che questa
situazione continui per molti altri mesi.
Inoltre, il Tibet è stato isolato dal resto del mondo. A breve, i
cinesi distruggeranno ogni prova, condannando tibetani innocenti per
cose che non hanno fatto nulla. La comunità internazionale deve
intervenire immediatamente per convincere la Cina a fermare queste
atrocità. La leadership comunista chiede al Dalai Lama di usare la sua
influenza per riportare la normalità, ma non consente la creazione di
alcun canale che possa portare la voce del nostro leader in Tibet.
Pechino si rifiuta di capire le cause del profondo malcontento del
Tibet, e non cerca di risolverle. Al contrario, aggravano la situazione
con tutte queste procedure. Questo è un messaggio chiaro: la Cina non
vuole un Tibet pacifico e stabile.