La stepchild adoption è già consentita dalla Cirinnà

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Il ministro Enrico Costa (NCD – popolari – Alfano), M. Cirinnà e Lo Giudice (PD) trionfanti dopo l’approvazione delle nozze gay.

Il 6 luglio scorso il Tribunale dei Minorenni di Bologna ha dichiarato l’adozione di un minore da parte del genitore sociale, moglie della madre biologica del bambino. Nulla di nuovo sul fronte giuridico, se non fosse per il contenuto delle motivazioni: il giudice bolognese ritiene infatti che la stepchild adoption sia consentita dalla legge Cirinnà, la quale si è limitata a recepire l’orientamento giurisprudenziale prevalente, favorevole alla adozione coparentale, in caso di coppie same sex. Sì, avete capito bene: la stepchild adoption è legge!

Quale è il ragionamento del Tribunale? Partendo dalla spiegazione della diversità tra adozione legittimante (art.7 legge n.184/1983) e adozione in casi particolari (art.44), e dopo avere richiamato le sentenze di merito e di legittimità che fino ad oggi ha riconosciuto il diritto alla adozione da parte delle coppie omosessuali, i giudici evidenziano che tale giurisprudenza si è formata proprio con riferimento all’art. 44 lett. d), il quale prevede l’adozione nel caso di impossibilità di affidamento preadottivo (il minore non è in stato di abbandono, ma ugualmente, per una sua maggior tutela, si ritiene opportuno procedere con l’adozione).

Ecco allora che, sulla base di questa norma, il bambino può essere adottato anche dalla moglie della madre se con lei (moglie) il minore ha un rapporto stabile e duraturo, ciò perché il riconoscimento di quel rapporto corrisponde sicuramente al best interest del minore stesso.

Il Tribunale arriva così alla conclusione che proprio questo indirizzo giurisprudenziale è «stato anche confermato dalla L. n.76/2016 » (Legge Cirinnà), che ha equiparato le coppie same sex, «ove sussistenti vincoli affettivi», alle famiglie, «così offrendo all’adozione in casi particolari, un substrato solido, sicuro, giuridicamente tutelato».

Se è vero – si legge- che l’art. 1 comma 20 della ridetta legge pone una eccezione alla clausola generale di equivalenza tra coppie etero e coppie omo («le disposizioni contenenti le parole coniuge e coniugi …si applicano anche alle parti delle unioni civili») relativamente alle adozioni (non si applicano agli uniti civilmente le disposizioni della legge sulle adozioni), è altrettanto vero che quell’articolo chiosa con «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione delle norme vigenti».

Ciò significa che, grazie a questa precisazione, che «non può essere interpretata in nessun altro modo se non come clausola di salvaguardia», il legislatore ha inteso aprire «possibilità di un’applicazione alle unioni civili delle disposizioni in materia di adozioni…nei limiti del diritto vigente».

Diversamente, ove non fosse stata introdotta quella clausola, il legislatore avrebbe sancito la “inefficacia” di tutta questa giurisprudenza, impedendo così «agli omosessuali di continuare a fruire di un istituto già esistente», quale appunto la adozione coparentale. Il Tribunale infine rimarca che «la funzione (di detta clausola) è quella di chiarire all’interprete che la mancata previsione legislativa….non deve essere letta con un segnale di arresto o di contrarietà rispetto all’orientamento consolidatosi negli ultimi anni in giurisprudenza».

Con tutta sincerità, mi è difficile trovare un qualche appiglio per confutare questo ragionamento: in effetti, dire che agli uniti civilmente non si applica la legge sulle adozioni ma che comunque restano ferme le norme vigenti in materia di adozione significa consentire anche agli uniti civilmente di adottare nei limiti di quelle norme.

E poiché le norme – dizionario alla mano- sono «le regole di condotta, stabilite d’autorità o convenute di comune accordo o di origine consuetudinaria», le quali formano il diritto, è indubbio che nell’inciso finale dell’art. 1 comma 20 della legge Cirinnà vi rientrino proprio i provvedimenti giurisdizionali, favorevoli alla adozione coparentale da parte degli omosessuali.

Che dire, allora? Che di fronte a sentenze come questa in commento, non possiamo più parlare di giurisprudenza creativa, trattandosi di pronunce a tutti gli effetti “conformi” alla legge.

Simona Muzzo, per lanuovabq.it del 18-09-2017

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