(l’Espresso) Le sfide di Benedetto XVI

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Benedetto XVI. Il papa, il programma

Joseph Ratzinger l’ha riproposto nell’ultima omelia prima del conclave: “essere adulti nella fede”, non “fanciulli in stato di minorità, sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina”. Voce per voce, le questioni aperte del suo pontificato

di Sandro Magister  ROMA, 20 aprile 2005 – Lo chiamavano conservatore. Ma Joseph Ratzinger ha rivoluzionato anche il conclave che il 19 aprile l’ha fatto papa, Benedetto XVI, “umile lavoratore della vigna del Signore”.

Mai nell’ultimo secolo la scelta di un pontefice è stata parlata in una lingua così schietta e tagliente. Con un crescendo che, più si avvicinava l’ora della conta, e più si faceva formidabile. Fino all’ultima conferenza sullo stato del mondo pronunciata da Ratzinger nell’ultimo giorno di vita del papa defunto. Fino, ancor più, all’ultima sua omelia proclamata in San Pietro “pro eligendo romano pontifice”, poche ore prima che si chiudessero le porte della Cappella Sistina.

Da cardinale, Ratzinger non ha fatto niente “a buon mercato”, perché lo eleggessero papa. I voti, i consensi, gli sono caduti addosso l’uno dopo l’altro, mese dopo mese, scrutinio dopo scrutinio, attratti soltanto da quel suo programma duro come il diamante. All’ultima messa in San Pietro l’ha riproposto con le parole dell’apostolo Paolo: l’obiettivo è “essere adulti nella fede”, e non “fanciulli in stato di minorità, sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina”.

Perché proprio a questo portano i tempi odierni, ha ammonito: a “una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.

Contro questo “inganno degli uomini” Ratzinger ha opposto che “noi invece abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo”, che è anche “la misura del vero umanesimo” e “il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità”.

Conclusione lapidaria: “Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo”. E non importa se “avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo”.

Le accuse di fondamentalismo si sono sprecate, negli anni, contro questo teologo tedesco che oggi è il nuovo capo della Chiesa cattolica.

Negli anni Sessanta, il giovane Ratzinger seguì il Concilio Vaticano II come perito del cardinale di Colonia, Joseph Frings. Scagliò i suoi primi dardi contro quel Sant’Uffizio “fuori dai tempi, causa di danno e di scandalo”, che molti anni dopo sarebbe andato a dirigere. Ma prestissimo, a Concilio terminato da poco, cominciò a denunciarne gli effetti “crudelmente opposti” alle attese.

Il suo tragitto fu parallelo a quello di altri due teologi di prima grandezza dell’epoca, suoi amici e maestri, Henri De Lubac e Hans Urs von Balthasar, anch’essi poi divenuti cardinali e anch’essi accusati d’aver svoltato dal progresso alla conservazione. Ratzinger non si curò mai dell’etichetta che gli venne applicata: “Non sono cambiato io, sono cambiati loro”.

Strano conservatorismo, in ogni caso, il suo. Capace di scuotere, non di tranquillizzare la Chiesa. Un modello da lui molto amato è san Carlo Borromeo: l’arcivescovo di Milano che dopo il Concilio di Trento nientemeno “ricostruì la Chiesa cattolica, la quale anche dalle parti di Milano era ormai pressocché distrutta, senza per questo esser ritornato al Medioevo; al contrario creò una forma moderna di Chiesa”.

Oggi la svolta di civiltà è non meno epocale, ai suoi occhi. La cultura che s’è imposta in Europa “costituisce la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose dell’umanità”, ha argomentato il 1 aprile a Subiaco, nell’ultima sua conferenza regnante Giovanni Paolo II. E quindi la Chiesa deve reagire col massimo del coraggio, non conformandosi al secolo, non inginocchiandosi al mondo, ma “con la santa inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo”.

Nel domani della Chiesa, Benedetto XVI non sogna conversioni di popoli in massa. Prevede in molte regioni un cristianesimo di minoranza, ma lo vuole “creativo”. Al timido dialogo con i non credenti e gli uomini di altre fedi, preferisce lo slancio missionario.

Pessimismo e angoscia non gli appartengono, anche qui a rovescio delle etichette correnti. La sua omelia-manifesto del 18 aprile in San Pietro l’ha chiusa invocando una terra “cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio”.

È stato così fin da bambino: “Il cattolicesimo della mia Baviera, in cui sono cresciuto, era gioioso, colorato, umano. Mi manca il senso del purismo. Sarà perché fin dall’infanzia ho respirato il barocco”. Diffida dei teologi che “non amano l’arte, la poesia, la musica, la natura: possono essere pericolosi”. Ama le passeggiate in montagna. Suona il pianoforte e predilige Mozart. Suo fratello Georg, sacerdote, è maestro di cappella a Ratisbona, una delle ultime isole di resistenza della grande polifonia sacra e del gregoriano.

E già questo è da anni uno dei suoi punti di collisione con le novità della Chiesa postconciliare. Contro la trasformazione della messa e delle liturgie “in spettacoli che abbisognano di registi geniali e di attori di talento” ha avuto parole taglienti. Altrettanto contro la dilapidazione della grande musica sacra. “Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di Lui”, ha scritto a commento della Via Crucis dello scorso Venerdì Santo. Dove Lui sta per Gesù Cristo, il dimenticato dalle liturgie tramutate in assemblee di consoci.

Benedetto XVI non ha mai nascosto le sue riserve neppure sulle liturgie di massa celebrate dal suo predecessore. Nella curia di Giovanni Paolo II nessuno più di lui è stato libero e critico. E anche per questo Karol Wojtyla ne aveva altissima stima. “L’amico fidato”: così egli definì Ratzinger nel libro autobiografico “Alzatevi, andiamo”, un elogio mai dato a nessun altro dei suoi collaboratori più stretti.

Da prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Ratzinger criticò Giovanni Paolo II su più punti, anche i più qualificanti del suo pontificato.

Al primo meeting interreligioso di Assisi, nel 1986, neppure andò. Vi vedeva un offuscamento dell’identità del cristianesimo, irriducibile alle altre fedi. Anni dopo, nel 2000, il documento che arrivò a spazzar via ogni equivoco, la dichiarazione “Dominus Jesus”, uscì con la sua firma. Scatenò una tempesta di polemiche. Ma il papa lo difese in pieno. E nel 2002, alla riedizione corretta del meeting di Assisi, anche Ratzinger andò.

Un altro punto su cui il nuovo papa non era d’accordo con Giovanni Paolo II sono stati i “mea culpa”. Anche numerosi altri cardinali dissentivano, ma in pubblico tacquero, con la sola eccezione dell’arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi, che mise nero su bianco le sue obiezioni addirittura in una lettera pastorale ai fedeli. Ratzinger espose le sue critiche in altro modo: in un documento teologico che rispondeva punto per punto alle obiezioni correnti, dove però le obiezioni erano tutte riccamente argomentate, mentre le risposte apparivano tenui e traballanti.

Da cardinale, Benedetto XVI criticò anche la serie smisurata di santi e beati elevati agli altari da papa Wojtyla: in molti casi “persone che forse dicono qualcosa a un certo gruppo, ma non dicono troppo alla grande moltitudine dei credenti”. In alternativa proponeva di “porre davanti agli occhi della cristianità solo quelle figure che più di tutte ci rendano visibile la santa Chiesa, tra tanti dubbi sulla sua santità”.

Il linguaggio politicamente corretto l’ha sempre ignorato. Nel 1984, in un documento contro le radici marxiste della teologia della liberazione, infilò una micidiale stoccata contro l’impero comunista, bollandolo come “vergogna del nostro tempo” e “schiavitù indegna dell’uomo”. In quello stesso periodo il presidente americano Ronald Reagan si scagliava contro “l’impero del male”. Circolò la notizia che il cardinale Agostino Casaroli, segretario di stato vaticano e tessitore di una politica di buon vicinato con Mosca, avesse minacciato le dimissioni, per dissociarsi dal prefetto della dottrina. Non era vero. In ogni caso cinque anni anni dopo il Muro di Berlino crollò.

Ratzinger s’è sempre distinto come uomo di grandi visioni, non come uomo di governo. Amerebbe una Chiesa più snella. Le istituzioni di cui essa si riveste al centro e in periferia, la curia vaticana, le curie, le conferenze episcopali, non vuole che diventino “come la corazza di Saul, che impediva al giovane Davide di camminare”.

Anche per questo reagì con forza, nel 2000, quando un altro valente arcivescovo teologo che gli era ed è amico, il tedesco Walter Kasper, gli attribuì la volontà di identificare la Chiesa universale con il papa e la curia, in pratica di voler restaurare il centralismo romano. Ratzinger replicò confutando le tesi di Kasper. E questi intervenne di nuovo, provocando un’ulteriore replica pubblica.

Al centro della disputa, combattuta a colpi di teologia d’alta scuola, c’era il rapporto tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, locali. C’era cioé la stessa questione che, nei medesimi anni, gli esponenti dell’ala progressista discutevano in termini più istituzionali e politici, propugnando una democratizzazione della Chiesa, ossia un primato del papa bilanciato da un maggior potere del collegio dei vescovi.

La controversia sui poteri nella Chiesa ha investito anche il conclave che ha eletto Benedetto XVI, e a lui si è attribuito il rifiuto di una maggiore collegialità: rifiuto che farebbe da ostacolo anche al dialogo con le Chiese ortodosse e protestanti.

Ma la realtà è diversa. Proprio l’insospettabile Kasper, oggi cardinale, chiamò “formula Ratzinger” una tesi sostenuta dall’attuale papa sui rapporti con i cristiani separati, e la definì “fondamentale per il dialogo ecumenico”. La tesi testualmente sostiene che “Roma deve esigere dalle Chiese ortodosse per ciò che riguarda il primato del papa niente più di ciò che nel primo millennio venne stabilito e vissuto”.

Nel primo millennio il collegio dei vescovi aveva un peso di gran lunga maggiore. Sarà forse un conservatore come Benedetto XVI il papa che aprirà la strada anche a questa riforma.


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Piccola agenda del nuovo pontificato


Fresco d’elezione, papa Benedetto XVI ha davvero il conclave alle spalle. Niente lo vincola più. Regole severissime vietano ai suoi elettori di imporgli le decisioni da essi volute o le nomine a loro gradite. Ed è questa una ragione in più dell’attenzione spasmodica con cui tutti studieranno le sue prime mosse come capo della Chiesa mondiale. Di colpo, davanti al nuovo papa si apre un’agenda sterminata e tremenda, quella che Giovanni Paolo II gli ha lasciato in eredità. Eccone un campione di voci, in ordine alfabetico.

ASSISI. È simbolo indimenticabile del pontificato di Karol Wojtyla: i rappresentanti delle religioni mondiali affiancati a pregare, nella città di san Francesco. Ma è anche uno dei simboli più destabilizzanti: se ciascuna religione è via di salvezza in se stessa, la Chiesa cattolica può chiudere le sue missioni nel mondo per cessata ragione sociale. A correggere quest’esito c’è la dichiarazione “Dominus Jesus” del 2000, che riafferma la fede in Gesù Cristo unico salvatore di tutti gli uomini di ieri, di oggi e di domani. Il nuovo papa proseguirà dunque nel dialogo interreligioso, ma terrà fermissimi l’identità irriducibile del cristianesimo e il comandamento di Gesù di predicare il Vangelo a tutti gli uomini della terra. “Dalai Lama e musulmani compresi”, disse una volta il cardinale Giacomo Biffi.

CINA. Per la Chiesa di Roma rappresenta un allarme doppio. Il primo è l’assenza di libertà per i milioni di cristiani cinesi, siano essi clandestini o appartenenti alla Chiesa “patriottica” messa in piedi dal regime. Non solo Giovanni Paolo II non ha potuto metter piede in Cina, ma nemmeno è riuscito ad aver garantita la facoltà di nominare i vescovi. Con le autorità di Pechino il Vaticano s’è fin qui mosso come fece con l’impero sovietico negli anni più bui, come allora con scarsissimi risultati. La differenza è che per il gigante Cina non è in vista alcun crollo. Anzi. La sua ascesa come potenza mondiale sfiderà la fede cristiana ancor più di quanto faccia l’islam. Ed è il secondo allarme di cui il nuovo papa dovrà tener conto. Il credo musulmano risveglia per contraccolpo l’identità cristiana. La religiosità cinese no. Priva com’è di una fede in un Dio personale, può incoraggiarne lo spegnimento.

CURIA. È il braccio esecutivo del papa. Giovanni Paolo II se ne prese cura pochissimo, e il governo ordinario della Chiesa ne soffrì parecchio. Ma dopo un pontificato carismatico come il suo, fatto di spettacolari gesti simbolici, è naturale che il successore riprenda in pugno con più continuità il timone dell’istituzione. Tra un papa e l’altro i capi dei dicasteri di curia decadono. Le prime vere nomine, dopo le iniziali riconferme di routine, saranno il test di come il successore intende costruire la sua nuova squadra di governo.

DEMOCRAZIA. Dentro la Chiesa e fuori. Dentro, propriamente, ha il nome di collegialità. Ed è il particolare equilibrio che intercorre tra il primato del papa e il collegio dei vescovi. Giovanni Paolo II ha assunto quasi sempre da solo, e contro il parere di tanti, le sue principali decisioni. Ogni uno o due anni convocava un sinodo dei vescovi di tutto il mondo, ma poi, di nuovo, decideva da sé. Il prossimo sinodo, già convocato, è in agenda per ottobre e dal nuovo papa molti si aspettano che ne accresca il peso decisionale. Un diverso equilibrio tra papa e vescovi è anche un passo obbligato per avvicinare la Chiesa cattolica alle Chiese separate protestanti e ortodosse. Quanto alle democrazie come sistemi politici, papa Karol Wojtyla ne ha denunciati e affrontati a muso duro i “subdoli totalitarismi”. Soprattutto le leggi che toccano la vita umana dal nascere al morire saranno terreno minato anche per il suo successore.

DONNE. Sulle donne prete Giovanni Paolo II ha calato un veto totale, valido anche per i papi futuri e formulato con le parole delle proclamazioni infallibili “ex cathedra”. Ma a prescindere dagli ordini sacri, per le donne nella Chiesa lo spazio è apertissimo, in teoria. Nella pratica si vedrà. A Pechino, alla conferenza internazionale sulla donna indetta dall’Onu nel 1995, a capo della delegazione vaticana c’era una donna, l’americana Mary Ann Glendon dell’università di Harvard. E da allora altre volte è capitato così. Su questo terreno il nuovo papa è atteso alla prova e sarà giudicato da un’opinione pubblica molto esigente.

EBREI. Papa Karol Wojtyla ha compiuto gesti straordinari di riconciliazione con l’ebraismo. Benedetto XVI ha il non meno difficile compito di renderli pratica costante della Chiesa nel suo insieme. La discussione pubblica che c’è stata negli ultimi anni sulle radici “giudaico-cristiane” dell’Europa un piccolo effetto collaterale l’ha avuto, in questo senso: ha contribuito a diffondere l’idea che l’ebraismo non è per i cristiani un’altra religione, ma il fondamento della loro fede, da essa indissociabile, così come nella Bibbia l’Antico Testamento fa tutt’uno col Nuovo. A complicare tutto c’è però l’Israele politico. Il segretario di stato che il nuovo papa sceglierà e la linea che il Vaticano adotterà in Medio Oriente incideranno anche sulla pacificazione religiosa tra cristiani ed ebrei.

EUROPA. Benedetto XVI entra in carica fresco di sconfitta: il mancato riconoscimento delle radici giudaico-cristiane dell’Europa, nel preambolo della nuova costituzione dell’Unione. Ma la Chiesa stessa non appare in buona salute, nel Vecchio Continente. In molte nazioni del Centroeuropa, in Spagna, in Polonia, gli indici di adesione alla Chiesa sono in calo, qua e là molto netto. L’unica nazione in controtendenza è l’Italia. Il nuovo papa avrà molto da faticare per risalire la china.

GIOVANI. Il prossimo agosto è in calendario a Colonia la Giornata Mondiale della Gioventù, col papa atteso nel momento culminante. I precedenti meeting sono stati invenzione personalissima di Giovanni Paolo II e ne è nata una tipologia collettiva di giovani, i “papaboys”, fortemente legata alla sua persona. Benedetto XVI dovrà rapidamente decidere se imitare su questo punto il suo predecessore, oppure introdurre delle varianti, oppure archiviare le adunate giovanili di massa. Andando alla sostanza, dovrà soprattutto studiare come assicurare la trasmissione della fede cristiana da una generazione all’altra, in un ambiente culturale largamente scristianizzato.

HUMANAE VITAE. L’enciclica di Paolo VI del no ai contraccettivi artificiali ha prodotto uno dei punti di rottura più forti degli ultimi decenni tra il magistero papale e la pratica dei fedeli. Ma oggi il centro focale della predicazione della Chiesa si è spostato: più che la pillola e il preservativo, a concentrare l’interesse della Chiesa è la difesa della vita di ogni nuovo nato, a partire dall’istante del concepimento. Il risultato è che anche ai vertici della Chiesa si è ripreso pacatamente a discutere il veto dell’”Humanae Vitae”: come non definitivo né rigido ma aperto a future correzioni. Il cardinale Georges Cottier, teologo ufficiale della casa pontificia, ha dato un primo segnale autorevole di svolta un mese prima che Giovanni Paolo II morisse: ammettendo l’uso del preservativo a difesa dall’Aids, in casi speciali accuratamente descritti. Il nuovo papa è possibile che faccia ulteriori passi nella stessa direzione.

INDIA. L’immenso paese di Gandhi è terra di frontiera importante per la Chiesa nell’Asia, e preoccupa il papato di Roma per almeno tre motivi. Il primo è che i cristiani che vi abitano sono spesso vittima delle aggressioni dell’estremismo induista e dell’intolleranza delle stesse leggi civili, che in molti stati vietano e puniscono pesantemente il proselitismo, ossia l’azione missionaria della Chiesa. Il secondo timore è legato alla prevedibile ascesa dell’India come grande potenza. Il contatto tra l’Occidente cristiano e la cultura e la religiosità indiane, marcatamente politeiste e inclusive, invece che rafforzare l’identità cristiana tenderanno a depotenziarla e ad assorbirla, analogamente a quanto si teme avverrà a contatto con la cultura della Cina. La terza preoccupazione è più interna. Ampi strati della Chiesa cattolica dell’India, compresi alcuni vescovi, propugnano un’idea di dialogo tra cristianesimo e induismo che mette alla pari le due religioni e quindi svuota di senso il proposito di battezzare nuovi cristiani, dato che agli induisti basta già la loro fede. La “Dominus Jesus”, che ribadisce che Cristo è l’unica via di salvezza per tutti, è stata scritta anche per reazione a quanto avviene in India. Benedetto XVI dovrà decidere quali conseguenze pratiche trarre.

ISLAM. Agli attacchi sferrati dall’islamismo estremista contro la cristianità e l’Occidente, la Chiesa di Roma ha sin qui reagito con molta cautela. Tra le sue finalità prime c’è quella di proteggere le minoranze cristiane nei paesi musulmani. E tra i mezzi adottati ci sono quelli del dialogo amichevole con esponenti islamici anche radicali e dell’accettazione realista delle dittature che dominano in molti di quei paesi. Questa linea, tuttavia, ha prodotto risultati deludenti ed è sempre più in discussione. Il nuovo papa dovrà necessariamente andare oltre il gesto simbolico compiuto da Giovanni Paolo II con la sua visita alla Grande Moschea di Damasco. Sia sul terreno religioso che su quello geopolitico.

LITURGIE. Le grandiose celebrazioni di massa care a papa Wojtyla non potranno essere ripetute tali quali dal suo successore. E questo modificherà la percezione visiva della Chiesa che i media mondiali trasmetteranno. Un altro nodo critico, ancor più importante, riguarda il modo di celebrare la messa in tutte le chiese piccole e grandi del mondo, atto centrale del culto cristiano e parametro classico sul quale si misura l’adesione dei fedeli alla Chiesa. Il prossimo ottobre un sinodo mondiale dei vescovi discuterà assieme al nuovo papa proprio su questo. A giudizio di molti, le novità introdotte nei sacri riti dopo il Concilio Vaticano II si sono concretizzate in forme in parte devianti, che hanno a loro volta influito negativamente sui contenuti e le pratiche della fede. Le decisioni che il sinodo e il papa prenderanno per riqualificare la celebrazione della messa saranno quindi decisive nel rimodellare il volto concreto della Chiesa nei prossimi anni e decenni. La musica e l’arte sacra fanno parte integrante di questo capitolo dell’agenda.

MEA CULPA. Le riserve che hanno sempre accompagnato, ai vertici della Chiesa, le richieste di perdono pronunciate da Giovanni Paolo II per le colpe della cristianità nella storia fanno prevedere che Benedetto XVI si distaccherà su questo punto dal predecessore. L’interessante sarà vedere come. Un’ipotesi da molti auspicata è che il nuovo papa concentri l’attenzione sulle colpe dei cristiani d’oggi, e per queste chieda perdono. La differenza è sostanziale. Il passato può essere bollato d’infamia, ma non più modificato. Il presente sì. Un “mea culpa” relativo al presente sarebbe vuota retorica se non accompagnato da atti di effettiva riforma, nei campi che il nuovo papa riterrà prioritari.

PACE. All’opposto di tanti giudizi correnti, Giovanni Paolo II non fu affatto un pacifista. Approvò lo spiegamento dei missili nucleari in Europa contro la minaccia sovietica; disapprovò la prima guerra del Golfo; ingiunse di “disarmare l’aggressore” che infieriva contro la Bosnia; si dissociò dai bombardamenti di Belgrado; appoggiò l’intervento militare in Afghanistan; contrastò la seconda guerra in Iraq; definì infine “operatori di pace” i soldati rimasti in quello stesso paese a dar sicurezza alla nascente democrazia. E ancora: ha beatificato Marco d’Aviano, la guida spirituale della difesa di Vienna dall’assalto ottomano, fino alla “vittoria di Dio”. Insomma, il penultimo papa ha lasciato in eredità un modello d’iniziativa geopolitica molto dinamico, ma perfettamente in linea con la dottrina classica della Chiesa sulla guerra. È impensabile che il successore se ne distacchi.

RUSSIA. Il fatto che il nuovo papa non venga più dalla Polonia, avversaria storica di Mosca, ha rimosso un grosso ostacolo. Ma il veto che ha impedito a Giovanni Paolo II di metter piede in Russia resta lontano dal cadere. I perché li ha ridetti con parole quasi brutali il patriarca ortodosso di Mosca, Alessio II, in un’intervista pubblicata dieci giorni dopo la morte di papa Wojtyla. Il suo primo capo d’accusa riguarda la campagna di conversioni in Russia con la quale vescovi e preti della Chiesa di Roma porterebbero via i fedeli alla Chiesa ortodossa. E il secondo riguarda la Chiesa cattolica di rito orientale dell’Ucraina, vista da Mosca come un patriarcato rivale proiettato alla conquista di un territorio storicamente ortodosso. Benedetto XVI avrà molta difficoltà a tranquillizzare il patriarca di Mosca, soprattutto sulla questione dell’Ucraina. Qui, infatti, il papa si troverà sottoposto a due fortissime pressioni uguali e contrarie: quella di Mosca e quella della potente Chiesa cattolica ucraina, forte di milioni di fedeli.

SANTI. Una prima decisione di Benedetto XVI riguarderà proprio il predecessore: se dar corso o no a un suo processo di beatificazione accelerato. Ma poi, più in generale, egli dovrà decidere se porre un freno, e come, al ritmo frenetico di proclamazioni di nuovi santi e beati inaugurato da Giovanni Paolo II: che da solo ne ha portati agli altari più di tutti i papi degli ultimi quattro secoli sommati, da quando cioè le cause di santità hanno preso la forma canonica oggi in uso.

SCOMUNICHE. Il pontificato di Giovanni Paolo II è stato uno dei più miti, sotto questo profilo. Tra i professori di teologia, il solo che incorse in una temporanea scomunica fu un oscuro sacerdote dello Sri Lanka, Tissa Balasuriya, reo d’aver negato la verginità di Maria e d’aver dubitato della divinità di Gesù, ma poi ravvedutosi e perdonato. L’unica grossa scomunica, tuttora in vigore, per la quale papa Wojtyla è passato alla storia è quella comminata nel 1988 contro il vescovo supertradizionalista Marcel Lefebvre e i suoi seguaci. I tentativi di riportare i lefebvriani all’ovile sono in corso da anni e il nuovo papa farà sicuramente altri sforzi per sanare la piaga.

VESCOVI. La Chiesa cattolica si regge sul papa e sui vescovi. Ma questi ultimi, già messi sotto choc da uno straripante Giovanni Paolo II, patiscono da qualche tempo un vincolo in più: quello delle conferenze episcopali nazionali. Alcune di queste, specie nel Centroeuropa e nel Nordamerica, sono diventate negli ultimi decenni macchine burocratiche ipertrofiche, che producono commissioni e documenti in dosi sempre più massicce e il più delle volte inutili. Se vorrà riprendere in pugno il governo ordinario della Chiesa, tanto trascurato dal predecessore, Benedetto XVI dovrà incidere col bisturi in queste nuove burocrazie ecclesiastiche. I suoi migliori alleati saranno i vescovi migliori.

VITA. È parola entrata nel titolo delle encicliche più famose e discusse di Paolo VI e di Giovanni Paolo II: l’”Humanae Vitae” del 1968 e l’”Evangelium Vitae” del 1995. Ma anche per Benedetto XVI sarà parola capitale. Anzi, lo sarà ancora di più, perché nel frattempo le bioscienze hanno fatto passi giganteschi e sono diventate il nuovo verbo della modernità. Verbo onnipotente, perché non solo interpreta l’uomo, ma decide su di esso, e lo trasforma, e si appropria della sua stessa generazione. Teologia e filosofia, politica e diritto, fede e costume: tutto entra in gioco. Per la Chiesa è la sfida del secolo e il nuovo papa lo sa.

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L’omelia pronunciata da Joseph Ratzinger nella “missa pro eligendo romano pontifice” del 18 aprile, in pdf nel sito del Vaticano:

> “In quest’ora di grande responsabilità…”

Il suo messaggio del 20 aprile letto al termine della messa con in cardinali elettori nella Cappella Sistina, nell’originale latino e in italiano, in pdf nel sito del Vaticano:

> “Grazie e pace in abbondanza a tutti voi…”

La conferenza tenuta da Joseph Ratzinger a Subiaco il 1 aprile 2005, presto in libreria in un volume edito da Cantagalli:

> L’Europa nella crisi delle culture