Gli errori liturgici più comuni

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 Gli errori liturgici più comuni a Messa

 Capitano anche nella vostra parrocchia?

 

Un errore frequente: recitare le preghiere proprie del sacerdote

Ci sono preghiere che sono proprie ed esclusive del sacerdote. Ad esempio “Per Cristo, con Cristo e in Cristo…”, la dossologia con cui il sacerdote chiude l’anafora (parte centrale della Messa). Solo il sacerdote può pronunciarla. Anche se il celebrante invita (dicendo “Tutti insieme!” o cose del genere), i fedeli dovranno rimanere in silenzio, immobili, e rispondere alla fine il solenne “Amen” (cfr. OGMR 151). I laici non devono neanche recitare la preghiera della pace (“Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli ‘Vi lascio la pace, vi do la mia pace’…”). Solo il sacerdote pronuncia questa preghiera.

 

Bisogna distinguere il ruolo del sacerdote e quello del laico a Messa: “Si deve evitare il rischio di oscurare la complementarietà tra l’azione dei chierici e quella dei laici, così da sottoporre il ruolo dei laici a una sorta, come si suol dire, di «clericalizzazione», mentre i ministri sacri assumono indebitamente compiti che sono propri della vita e dell’azione dei fedeli laici” (Redemptionis Sacramentum).


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Comportamento sconveniente dei fedeli

Conversazioni, rumore, danze… niente di tutto questo si adatta bene alla Messa. Ci saranno sicuramente luoghi e circostanze propizi per mostrare la gioia di essere cristiani, ma a Messa vale la “regola d’oro”: non vi si dovrebbe fare quello che non starebbe bene fare sul Calvario.

Ci troviamo di fronte al sacrificio del Figlio di Dio! Sull’altare, Gesù si offre al Padre come vittima, per i nostri peccati. Conversare con il vicino, rispondere al cellulare, battere le mani o eseguire coreografie, danze ecc. non è proprio della Messa.

Abusi commessi dal celebrante

Questa immagine, presa da Internet, è stata scattata durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Toronto nel 2002. Se la scena fosse vera, è tutto sbagliato: il sacerdote non veste i paramenti come stabilito (almeno non è presente la casula); il cappello; gli occhiali scuri; l’altare improvvisato (una scatola!). Non c’è niente, insomma, che ricordi neanche da lontano la dignità e la santità del mistero che si celebra!

Grande è la responsabilità «che hanno nella celebrazione eucaristica soprattutto i sacerdoti, ai quali compete di presiederla in persona Christi, assicurando una testimonianza e un servizio di comunione non solo alla comunità che direttamente partecipa alla celebrazione, ma anche alla Chiesa universale, che è sempre chiamata in causa dall’Eucaristia. Occorre purtroppo lamentare che, soprattutto a partire dagli anni della riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II, per un malinteso senso di creatività e di adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza per molti»” (R.S., 30).


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A seguito della riforma liturgica, infatti, conviviamo con un certo “protagonismo” del ruolo del ministro.

Il sacerdote stesso si sente in qualche modo spinto a corrispondere alle aspettative dei fedeli di avere “qualcosa sempre nuovo” nelle Messe domenicali. Da ciò derivano le sperimentazioni, gli abusi, le improvvisazioni, una vera Babele liturgica. Bisogna ricordare ancora una volta che la Messa non è il posto giusto per compiere questi esperimenti.

Sono abusi liturgici, ad esempio:

Modificare i testi liturgici

– “Si ponga fine al riprovevole uso con il quale i sacerdoti, i diaconi o anche i fedeli mutano e alterano a proprio arbitrio qua e là i testi della sacra liturgia da essi pronunciati. Così facendo, infatti, rendono instabile la celebrazione della sacra liturgia e non di rado ne alterano il senso autentico” (R.S., 59);

Chiedere che i fedeli accompagnino il sacerdote nella preghiera eucaristica

– “La recita della preghiera eucaristica, che per sua stessa natura è come il culmine dell’intera celebrazione, è propria del sacerdote, in forza della sua ordinazione. È, pertanto, un abuso far sì che alcune parti della preghiera eucaristica siano recitate da un Diacono, da un ministro laico oppure da uno solo o da tutti i fedeli insieme. La preghiera eucaristica deve, dunque, essere interamente recitata dal solo sacerdote” (R.S., 52);

Interrompere il rito della Messa per intercalare preghiere non previste

– aggiungere preghiere di cura o di liberazione a quelle previste dal Messale, suppliche libere dopo la consacrazione, ecc.;

Affidare l’omelia ai laici

– l’omelia può essere soppressa nelle Messe dei giorni feriali, ma è di rigore nei giorni festivi e “di solito è tenuta dallo stesso sacerdote celebrante o da lui affidata a un sacerdote concelebrante, o talvolta, secondo l’opportunità, anche al diacono, mai però a un laico” (R.S., 64). Sono anche pratiche abusive scambiare l’omelia con rappresentazioni teatrali, testimonianze di singoli individui, ecc.;

Approfittare dell’omelia per parlare di temi non collegati alle letture

– “Nel tenere l’omelia si abbia cura di irradiare la luce di Cristo sugli eventi della vita. Ciò però avvenga in modo da non svuotare il senso autentico e genuino della parola di Dio, trattando, per esempio, solo di politica o di argomenti profani o attingendo come da fonte a nozioni provenienti da movimenti pseudo-religiosi diffusi nella nostra epoca” (R.S., 67). Bisogna tenere a mente che “regolamentare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo Sacrae” (R.S., 14). Nessuno ha il diritto di “toccare” la liturgia, anche se mosso dalle migliori intenzioni. Ancora una volta, si raccomanda la lettura dell’Istruzione Redemptionis Sacramentum, da cui abbiamo tratto le citazioni.

“Ministri dell’Eucaristia”

Il ministro dell’Eucaristia è il sacerdote. La Chiesa raccomanda di non chiamare più i laici che aiutano il sacerdote nella distribuzione della Comunione “ministri dell’Eucaristia”, “ministri straordinari dell’Eucaristia”, “ministri speciali dell’Eucaristia” o “ministri speciali della Sacra Comunione”. La definizione raccomandata è “ministri straordinari della Sacra Comunione”.

L’immagine riportata, tratta da Internet, è un ottimo esempio di quello che non va fatto.

Il tempio è piccolo, e quindi anche il numero dei fedeli deve esserlo. I ministri straordinari sarebbero quindi superflui. Se ne ammette la presenza solo quando il numero delle persone che vogliono comunicarsi è talmente elevato che la distribuzione della Comunione ritarderebbe la Messa oltre il ragionevole. In assenza di questa condizione, basta l’accolito per ausiliare il sacerdote nella distribuzione della Comunione.

Vediamo anche il sacerdote consegnare frazioni del pane eucaristico ai laici, il che è espressamente vietato dalle norme liturgiche (cfr. R.S., 73). La frazione del pane, iniziata dopo aver dato la pace e mentre si recita l’“Agnello di Dio”, viene realizzata solo dal sacerdote, aiutato, se è il caso, dal diacono o da un altro sacerdote concelebrante.

Si deve dunque tener sempre presente che i laici possono partecipare alla distribuzione della Comunione ai fedeli solo in modo straordinario, nelle condizioni indicate in precedenza.

I ministri straordinari della Sacra Comunione devono presentarsi al sacerdote dopo che egli si è comunicato, ricevono da lui la Comunione e poi distribuiscono la Comunione ai fedeli nei luoghi indicati dal celebrante. Si devono utilizzare delle patene per evitare la perdita delle particole o di parti di queste. È abusiva la pratica di improvvisare frasi durante la distribuzione della Comunione. Si dice “Il Corpo di Cristo”, e il fedele risponde “Amen”, comunicandosi alla presenza del ministro (ordinario o straordinario).


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I laici incaricati di questo servizio devono ovviamente vestirsi con il massimo decoro. Lo standard di condotta dev’essere la discrezione, evitando qualsiasi esagerazione o segno di protagonismo.

La distribuzione della Comunione

Ci si può comunicare in ginocchio o in piedi. Quando ci si comunica in piedi, si raccomanda, prima di ricevere il sacramento, di fare la dovuta riverenza (R.S., 90). Oltre a questo, il fedele ha sempre il diritto di scegliere se desidera ricevere la Sacra Comunione in bocca o in mano. Il modo tradizionale di comunicarsi è direttamente in bocca. Se si preferisce riceverla in mano, bisogna presentarsi con le mani aperte, sovrapposte, pronte a ricevere la Sacra Comunione. Non è corretto “prendere” la particola come se fosse un oggetto comune. Ricevuta la Comunione, chi si comunica deve consumarla immediatamente, davanti al ministro.

E ancora: “Non è consentito ai fedeli di «prendere da sé e tanto meno passarsi tra loro di mano in mano» la sacra ostia o il sacro calice” (R.S., 94). L’immagine qui a sinistra mostra una condizione flagrante di mancato rispetto nei confronti di questa norma.

Non si deve permettere che la distribuzione della Comunione sia del tipo self-service, di modo che ciascuno prenda l’ostia con le proprie mani e dia a se stesso la Comunione. Quando si distribuisce la Comunione sotto le due specie, questa sarà obbligatoriamente data direttamente in bocca a chi si comunica.

Cosa si può fare in relazione a tutto questo?

Se verificate delle infrazioni a queste regole, potete aiutare, senza mancare alla carità, parlandone con il vostro parroco, e se necessario con il vescovo.

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti per http://it.aleteia.org/2016/10/18/errori-liturgici-messa-piu-comuni/]

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Caffarra: solo un cieco può negare l’attuale confusione

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 “Solo un cieco può negare che nella Chiesa ci sia grande confusione”.
 Intervista al cardinale Caffarra

 “La divisione tra pastori è la causa della lettera che abbiamo spedito a Francesco. Non il suo effetto. Insulti e minacce di sanzioni canoniche sono cose indegne”.
 “Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è più pastorale, è solo più ignorante”. 

di Matteo Matzuzzi –14 Gennaio 2017 alle 06:00

 

Bologna. “Credo che vadano chiarite diverse cose. La lettera – e i dubia allegati – è stata lungamente riflettuta, per mesi, e lungamente discussa tra di noi. Per quanto mi riguarda, è stata anche lungamente pregata davanti al Santissimo Sacramento”. Il cardinale Carlo Caffarra premette questo, prima di iniziare la lunga conversazione con il Foglio sull’ormai celebre lettera “dei quattro cardinali” inviata al Papa per chiedergli chiarimenti in relazione ad Amoris laetitia, l’esortazione che ha tirato le somme del doppio Sinodo sulla famiglia e che tanto dibattito – non sempre con garbo ed eleganza – ha scatenato dentro e fuori le mura vaticane. “Eravamo consapevoli che il gesto che stavamo compiendo era molto serio. Le nostre preoccupazioni erano due. La prima era di non scandalizzare i piccoli nella fede. Per noi pastori questo è un dovere fondamentale. La seconda preoccupazione era che nessuna persona, credente o non credente, potesse trovare nella lettera espressioni che anche lontanamente suonassero come una benché minima mancanza di rispetto verso il Papa. Il testo finale quindi è il frutto di parecchie revisioni: testi rivisti, rigettati, corretti”. Fatte queste premesse, Caffarra entra in materia.

 

“Che cosa ci ha spinto a questo gesto? Una considerazione di carattere generale-strutturale e una di carattere contingente-congiunturale. Iniziamo dalla prima. Esiste per noi cardinali il dovere grave di consigliare il Papa nel governo della Chiesa. E’ un dovere, e i doveri obbligano. Di carattere più contingente, invece, vi è il fatto – che solo un cieco può negare – che nella Chiesa esiste una grande confusione, incertezza, insicurezza causate da alcuni paragrafi di Amoris laetitia. In questi mesi sta accadendo che sulle stesse questioni fondamentali riguardanti l’economia sacramentale (matrimonio, confessione ed eucaristia) e la vita cristiana, alcuni vescovi hanno detto A, altri hanno detto il contrario di A. Con l’intenzione di interpretare bene gli stessi testi”.

Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner, scrivendo a Francesco, hanno fatto ciò che era necessario. La fede è minacciata dalle suggestioni moderne. Serve la parola di Pietro

E “questo è un fatto, innegabile, perché i fatti sono testardi, come diceva David Hume. La via di uscita da questo ‘conflitto di interpretazioni’ era il ricorso ai criteri interpretativi teologici fondamentali, usando i quali penso che si possa ragionevolmente mostrare che Amoris laetitia non contraddice Familiaris consortio. Personalmente, in incontri pubblici con laici e sacerdoti ho sempre seguito questa via”. Non è bastato, osserva l’arcivescovo emerito di Bologna. “Ci siamo resi conto che questo modello epistemologico non era sufficiente. Il contrasto tra queste due interpretazioni continuava. C’era un solo modo per venirne a capo: chiedere all’autore del testo interpretato in due maniere contraddittorie qual è l’interpretazione giusta. Non c’è altra via. Si poneva, di seguito, il problema del modo con cui rivolgersi al Pontefice. Abbiamo scelto una via molto tradizionale nella Chiesa, i cosiddetti dubia”.

Perché? “Perché si trattava di uno strumento che, nel caso in cui secondo il suo sovrano giudizio il Santo Padre avesse voluto rispondere, non lo impegnava in risposte elaborate e lunghe. Doveva solo rispondere Sì o No. E rimandare, come spesso i Papi hanno fatto, ai provati autori (in gergo: probati auctores) o chiedere alla Dottrina della fede di emanare una dichiarazione congiunta con cui spiegare il Sì o il No. Ci sembrava la via più semplice. L’altra questione che si poneva era se farlo in privato o in pubblico. Abbiamo ragionato e convenuto che sarebbe stata una mancanza di rispetto rendere tutto pubblico fin da subito. Così si è fatto in modo privato, e solo quando abbiamo avuto la certezza che il Santo Padre non avrebbe risposto, abbiamo deciso di pubblicare”.

Due settimane dopo il concistoro sulla famiglia, il cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra, affronta con il Foglio i temi all’ordine del giorno del Sinodo straordinario del prossimo ottobre e di quello ordinario del 2015: matrimonio, famiglia, dottrina dell’Humanae Vitae, penitenza. “Se si parla del gender e del cosiddetto matrimonio omosessuale – dice Caffarra – è vero che al tempo della Familiaris Consortio non se ne parlava. Ma di tutti gli altri problemi, soprattutto dei divorziati risposati, se ne è parlato lungamente. Di questo sono un testimone diretto, perché ero uno dei consultori del Sinodo del 1980".

E’ questo uno dei punti su cui maggiormente s’è discusso, con relative polemiche assortite. Da ultimo, è stato il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, a giudicare sbagliata la pubblicazione della lettera. Caffarra spiega: “Abbiamo interpretato il silenzio come autorizzazione a proseguire il confronto teologico. E, inoltre, il problema coinvolge così profondamente sia il magistero dei vescovi (che, non dimentichiamolo, lo esercitano non per delega del Papa ma in forza del sacramento che hanno ricevuto) sia la vita dei fedeli. Gli uni e gli altri hanno diritto di sapere. Molti fedeli e sacerdoti dicevano ‘ma voi cardinali in una situazione come questa avete l’obbligo di intervenire presso il Santo Padre. Altrimenti per che cosa esistete se non aiutate il Papa in questioni così gravi?’. Cominciava a farsi strada lo scandalo di molti fedeli, quasi che noi ci comportassimo come i cani che non abbaiano di cui parla il Profeta. Questo è quanto sta dietro a quelle due pagine”.

Eppure le critiche sono piovute, anche da confratelli vescovi o monsignori di curia: “Alcune persone continuano a dire che noi non siamo docili al magistero del Papa. E’ falso e calunnioso. Proprio perché non vogliamo essere indocili abbiamo scritto al Papa. Io posso essere docile al magistero del Papa se so cosa il Papa insegna in materia di fede e di vita cristiana. Ma il problema è esattamente questo: che su dei punti fondamentali non si capisce bene che cosa il Papa insegna, come dimostra il conflitto di interpretazioni fra vescovi. Noi vogliamo essere docili al magistero del Papa, però il magistero del Papa deve essere chiaro. Nessuno di noi – dice l’arcivescovo emerito di Bologna – ha voluto ‘obbligare’ il Santo Padre a rispondere: nella lettera abbiamo parlato di sovrano giudizio. Semplicemente e rispettosamente abbiamo fatto domande. Non meritano infine attenzione le accuse di voler dividere la Chiesa. La divisione, già esistente nella Chiesa, è la causa della lettera, non il suo effetto. Cose invece indegne dentro la Chiesa sono, in un contesto come questo soprattutto, gli insulti e le minacce di sanzioni canoniche”. Nella premessa alla lettera si constata “un grave smarrimento di molti fedeli e una grande confusione in merito a questioni assai importanti per la vita della Chiesa”.

In che cosa consistono, nello specifico, la confusione e lo smarrimento? Risponde Caffarra: “Ho ricevuto la lettera di un parroco che è una fotografia perfetta di ciò che sta accadendo. Mi scriveva: ‘Nella direzione spirituale e nella confessione non so più che cosa dire. Al penitente che mi dice: vivo a tutti gli effetti come marito con una donna che è divorziata e ora mi accosto all’eucarestia, propongo un percorso, in ordine a correggere questa situazione. Ma il penitente mi ferma e risponde subito: guardi, padre, il Papa ha detto che posso ricevere l’eucaristia, senza il proposito di vivere in continenza. Io non ne posso più di questa situazione. La Chiesa mi può chiedere tutto, ma non di tradire la mia coscienza. E la mia coscienza fa obiezione a un supposto insegnamento pontificio di ammettere all’eucaristia, date certe circostanze, chi vive more uxorio senza essere sposato’. Così scriveva il parroco. La situazione di molti pastori d’anime, intendo soprattutto i parroci – osserva il cardinale – è questa: si ritrovano sulle spalle un peso che non sono in grado di portare. E’ a questo che penso quando parlo di grande smarrimento. E parlo dei parroci, ma molti fedeli restano ancor più smarriti. Stiamo parlando di questioni che non sono secondarie. Non si sta discutendo se il pesce rompe o non rompe l’astinenza. Si tratta di questioni gravissime per la vita della Chiesa e per la salvezza eterna dei fedeli. Non dimentichiamolo mai: questa è la legge suprema nella Chiesa, la salvezza eterna dei fedeli. Non altre preoccupazioni. Gesù ha fondato la sua Chiesa perché i fedeli abbiano la vita eterna, e l’abbiano in abbondanza”.

La divisione cui si riferisce il cardinale Carlo Caffarra è originata innanzitutto dall’interpretazione dei paragrafi di Amoris laetitia che vanno dal numero 300 al 305. Per molti, compresi diversi vescovi, qui si trova la conferma di una svolta non solo pastorale bensì anche dottrinale. Altri, invece, che il tutto sia perfettamente inserito e in continuità con il magistero precedente. Come si esce da tale equivoco? “Farei due premesse molto importanti. Pensare una prassi pastorale non fondata e radicata nella dottrina significa fondare e radicare la prassi pastorale sull’arbitrio. Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è una Chiesa più ignorante. La Verità di cui noi parliamo non è una verità formale, ma una Verità che dona salvezza eterna: Veritas salutaris, in termini teologici. Mi spiego. Esiste una verità formale. Per esempio, voglio sapere se il fiume più lungo del mondo è il Rio delle Amazzoni o il Nilo. Risulta che è il Rio delle Amazzoni. Questa è una verità formale. Formale significa che questa conoscenza non ha nessuna relazione con il mio modo di essere libero. Anche se la risposta fosse stata il contrario, non sarebbe cambiato nulla sul mio modo di essere libero. Ma ci sono verità che io chiamo esistenziali. Se è vero – come Socrate aveva già insegnato – che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che compierla, enuncio una verità che provoca la mia libertà ad agire in modo molto diverso che se fosse vero il contrario. Quando la Chiesa parla di verità – aggiunge Caffarra – parla di verità del secondo tipo, la quale, se obbedita dalla libertà, genera la vera vita. Quando sento dire che è solo un cambiamento pastorale e non dottrinale, o si pensa che il comandamento che proibisce l’adulterio sia una legge puramente positiva che può essere cambiata (e penso che nessuna persona retta possa ritenere questo), oppure significa ammettere sì che il triangolo ha generalmente tre lati, ma che c’è la possibilità di costruirne uno con quattro lati. Cioè, dico una cosa assurda. Già i medievali, dopotutto, dicevano: theoria sine praxi, currus sine axi; praxis sine theoria, caecus in via”.

La seconda premessa che l’arcivescovo di Bologna fa riguarda “il grande tema dell’evoluzione della dottrina, che ha sempre accompagnato il pensiero cristiano. E che sappiamo è stato ripreso in maniera splendida dal beato John Henry Newman. Se c’è un punto chiaro, è che non c’è evoluzione laddove c’è contraddizione. Se io dico che s è p e poi dico che s non è p, la seconda proposizione non sviluppa la prima ma la contraddice. Già Aristotile aveva giustamente insegnato che enunciare una proposizione universale affermativa (e. g. ogni adulterio è ingiusto) e allo stesso tempo una proposizione particolare negativa avente lo stesso soggetto e predicato (e. g. qualche adulterio non è ingiusto), non si fa un’eccezione alla prima. La si contraddice. Alla fine, se volessi definire la logica della vita cristiana, userei l’espressione di Kierkegaard: ‘Muoversi sempre, rimanendo sempre fermi nello stesso punto’”.

Il problema, aggiunge il porporato, “è di vedere se i famosi paragrafi nn. 300-305 di Amoris laetitia e la famosa nota n. 351 sono o non sono in contraddizione con il magistero precedente dei Pontefici che hanno affrontato la stessa questione. Secondo molti vescovi, è in contraddizione. Secondo molti altri vescovi, non si tratta di contraddizione ma di uno sviluppo. Ed è per questo che abbiamo chiesto una risposta al Papa”. Si arriva così al punto più conteso e che tanto ha animato le discussioni sinodali: la possibilità di concedere ai divorziati e risposati civilmente il riaccostamento all’eucaristia. Cosa che non trova esplicitamente spazio in Amoris laetitia, ma che a giudizio di molti è un fatto implicito che rappresenta nulla di più se non un’evoluzione rispetto al n. 84 dell’esortazione Familiaris consortio di Giovanni Paolo II.

“Il problema nel suo nodo è il seguente”, argomenta Caffarra: “Il ministro dell’eucaristia (di solito il sacerdote) può dare l’eucaristia a una persona che vive more uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, e non intende vivere nella continenza? Le risposte sono solo due: Sì oppure No. Nessuno per altro mette in questione che Familiaris consortio, Sacramentum unitatis, il Codice di diritto canonico, e il Catechismo della Chiesa cattolica alla domanda suddetta rispondano No. Un No valido finché il fedele non propone di abbandonare lo stato di convivenza more uxorio. Amoris laetitia ha insegnato che, date certe circostanze precise e fatto un certo percorso, il fedele potrebbe accostarsi all’eucaristia senza impegnarsi alla continenza? Ci sono vescovi che hanno insegnato che si può. Per una semplice questione di logica, si deve allora anche insegnare che l’adulterio non è in sé e per sé male. Non è pertinente appellarsi all’ignoranza o all’errore a riguardo dell’indissolubilità del matrimonio: un fatto purtroppo molto diffuso. Questo appello ha un valore interpretativo, non orientativo. Deve essere usato come metodo per discernere l’imputabilità delle azioni già compiute, ma non può essere principio per le azioni da compiere. Il sacerdote – dice il cardinale – ha il dovere di illuminare l’ignorante e correggere l’errante”.

“Ciò che invece Amoris laetitia ha portato di nuovo su tale questione, è il richiamo ai pastori d’anime di non accontentarsi di rispondere No (non accontentarsi però non significa rispondere Sì), ma di prendere per mano la persona e aiutarla a crescere fino al punto che essa capisca che si trova in una condizione tale da non poter ricevere l’eucaristia, se non cessa dalle intimità proprie degli sposi. Ma non è che il sacerdote possa dire ‘aiuto il suo cammino dandogli anche i sacramenti’. Ed è su questo che nella nota n. 351 il testo è ambiguo. Se io dico alla persona che non può avere rapporti sessuali con colui che non è suo marito o sua moglie, però per intanto, visto che fa tanto fatica, può averne… solo uno anziché tre alla settimana, non ha senso; e non uso misericordia verso questa persona. Perché per porre fine a un comportamento abituale – un habitus, direbbero i teologi – occorre che ci sia il deciso proposito di non compiere più nessun atto proprio di quel comportamento. Nel bene c’è un progresso, ma fra il lasciare il male e iniziare a compiere il bene, c’è una scelta istantanea, anche se lungamente preparata. Per un certo periodo Agostino pregava: ‘Signore, dammi la castità, ma non subito’”. A scorrere i dubia, pare di comprendere che in gioco, forse più di Familiaris consortio, ci sia Veritatis splendor. E’ così?

“Sì”, risponde Carlo Caffarra. “Qui è in questione ciò che insegna Veritatis splendor. Questa enciclica (6 agosto 1993) è un documento altamente dottrinale, nelle intenzioni del Papa san Giovanni Paolo II, al punto che – cosa eccezionale ormai nelle encicliche – è indirizzata solo ai vescovi in quanto responsabili della fede che si deve credere e vivere (cfr. n° 5). A essi, alla fine, il Papa raccomanda di essere vigilanti circa le dottrine condannate o insegnate dall’enciclica stessa. Le une perché non si diffondano nelle comunità cristiane, le altre perché siano insegnate (cfr. n° 116). Uno degli insegnamenti fondamentali del documento è che esistono atti i quali possono per se stessi ed in se stessi, a prescindere dalle circostanze in cui sono compiuti e dallo scopo che l’agente si propone, essere qualificati disonesti. E aggiunge che negare questo fatto può comportare di negare senso al martirio (cfr. nn. 90-94). Ogni martire infatti – sottolinea l’arcivescovo emerito di Bologna – avrebbe potuto dire: ‘Ma io mi trovo in una circostanza… in tali situazioni per cui il dovere grave di professare la mia fede, o di affermare l’intangibilità di un bene morale, non mi obbliga più’. Si pensi alle difficoltà che la moglie di Tommaso Moro faceva a suo marito già condannato in prigione: ‘Hai doveri verso la famiglia, verso i figli’. Non è, quindi, solo un discorso di fede. Anche se uso la sola retta ragione, vedo che negando l’esistenza di atti intrinsecamente disonesti, nego che esista un confine oltre il quale i potenti di questo mondo non possono e non devono andare. Socrate è stato il primo in occidente a comprendere questo. La questione dunque è grave, e su questo non si possono lasciare incertezze. Per questo ci siamo permessi di chiedere al Papa di fare chiarezza, poiché ci sono vescovi che sembrano negare tale fatto, richiamandosi ad Amoris laetitia. L’adulterio infatti è sempre rientrato negli atti intrinsecamente cattivi. Basta leggere quanto dice Gesù al riguardo, san Paolo e i comandamenti dati a Mosè dal Signore”. Ma c’è ancora spazio, oggi, per gli atti cosiddetti “intrinsecamente cattivi”. O, forse, è tempo di guardare più all’altro lato della bilancia, al fatto che tutto, dinanzi a Dio, può essere perdonato?

Attenzione, dice Caffarra: “Qui si fa una grande confusione. Tutti i peccati e le scelte intrinsecamente disoneste possono essere perdonate. Dunque ‘intrinsecamente disonesti’ non significa ‘imperdonabili’. Gesù tuttavia non si accontenta di dire all’adultera: ‘Neanch’io ti condanno’. Le dice anche: ‘Va’ e d’ora in poi non peccare più’ (Gv. 8,10). San Tommaso, ispirandosi a sant’Agostino, fa un commento bellissimo, quando scrive che ‘Avrebbe potuto dire: va’ e vivi come vuoi e sii certa del mio perdono. Nonostante tutti i tuoi peccati, io ti libererò dai tormenti dell’inferno. Ma il Signore che non ama la colpa e non favorisce il peccato, condanna la colpa… dicendo: e d’ora in poi non peccare più. Appare così quanto sia tenero il Signore nella sua misericordia e giusto nella sua Verità’ (cfr. Comm. a Gv. 1139). Noi siamo veramente, non per modo di dire, liberi davanti al Signore. E quindi il Signore non ci butta dietro il suo perdono. Ci deve essere un mirabile e misterioso matrimonio tra l’infinita misericordia di Dio e la libertà dell’uomo, il quale deve convertirsi se vuole essere perdonato”.

Chiediamo al cardinale Caffarra se una certa confusione non derivi anche dalla convinzione, radicata pure tra tanti pastori, che la coscienza sia una facoltà per decidere autonomamente riguardo ciò che è bene e ciò che è male, e che in ultima istanza la parola decisiva spetti alla coscienza del singolo. “Ritengo che questo sia il punto più importante di tutti”, risponde. “E’ il luogo dove ci incontriamo e scontriamo con la colonna portante della modernità. Cominciamo col chiarire il linguaggio. La coscienza non decide, perché essa è un atto della ragione; la decisione è un atto della libertà, della volontà. La coscienza è un giudizio in cui il soggetto della proposizione che lo esprime è la scelta che sto per compiere o che ho già compiuto, e il predicato è la qualificazione morale della scelta. E’ dunque un giudizio, non una decisione. Naturalmente, ogni giudizio ragionevole si esercita alla luce di criteri, altrimenti non è un giudizio, ma qualcosa d’altro. Criterio è ciò in base a cui io affermo ciò che affermo e nego ciò che nego. A questo punto risulta particolarmente illuminante un passaggio del Trattato sulla coscienza morale del beato Rosmini: ‘C’è una luce che è nell’uomo e c’è una luce che è l’uomo. La luce che è nell’uomo è la legge di Verità e la grazia. La luce che è l’uomo è la retta coscienza, poiché l’uomo diventa luce quando partecipa alla luce della legge di Verità mediante la coscienza a quella luce confermata’. Ora, di fronte a questa concezione della coscienza morale si oppone la concezione che erige come tribunale inappellabile della bontà o malizia delle proprie scelte la propria soggettività. Qui, per me – dice il porporato – c’è lo scontro decisivo tra la visione della vita che è propria della Chiesa (perché è propria della Rivelazione divina) e la concezione della coscienza propria della modernità”.

“Chi ha visto questo in maniera lucidissima – aggiunge – è stato il beato Newman. Nella famosa Lettera al duca di Norfolk, dice: ‘La coscienza è un vicario aborigeno del Cristo. Un profeta nelle sue informazioni, un monarca nei suoi ordini, un sacerdote nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi. Per il gran mondo della filosofia di oggi, queste parole non sono che verbosità vane e sterili, prive di un significato concreto. Al tempo nostro ferve una guerra accanita, direi quasi una specie di cospirazione contro i diritti della coscienza’. Più avanti aggiunge che ‘nel nome della coscienza si distrugge la vera coscienza’. Ecco perché fra i cinque dubia il dubbio numero cinque è il più importante. C’è un passaggio di Amoris laetitia, al n° 303, che non è chiaro; sembra – ripeto: sembra – ammettere la possibilità che ci sia un giudizio vero della coscienza (non invincibilmente erroneo; questo è sempre stato ammesso dalla Chiesa) in contraddizione con ciò che la Chiesa insegna come attinente al deposito della divina Rivelazione. Sembra. E perciò abbiamo posto il dubbio al Papa”.

“Newman – ricorda Caffarra – dice che ‘se il Papa parlasse contro la coscienza presa nel vero significato della parola, commetterebbe un vero suicidio, si scaverebbe la fossa sotto i piedi’. Sono cose di una gravità sconvolgente. Si eleverebbe il giudizio privato a criterio ultimo della verità morale. Non dire mai a una persona: ‘Segui sempre la tua coscienza’, senza aggiungere sempre e subito: ‘Ama e cerca la verità circa il bene’. Gli metteresti nelle mani l’arma più distruttiva della sua umanità”.

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I ”dubia” di un parroco

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 «Le forme di convivenza more uxorio, al di fuori di un matrimonio religioso valido, contraddicono o no la volontà di Dio?».
Il parroco che mi pone la domanda non nasconde di trovarsi in una situazione complicata. Si arrovella, ma è come in un labirinto. Dopo «Amoris laetitia», gli riesce difficile dare risposte univoche e chiare ad alcune domande di importanza fondamentale sia per la salvezza delle anime sia per la coerenza interna della dottrina cattolica.
Si parla molto, e a ragione, dei dubia espressi su «Amoris laetitia» dai cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner, ma tanti sono anche i dubia, per niente teorici, nei quali si dibattono i preti in cura d’anime.

«Il vescovo mi dice che nulla è cambiato e di stare sereno, ma la verità – racconta il sacerdote – è che la confusione è grande in questo momento. Sembra che ognuno possa esprimere la propria valutazione, decidendo di conseguenza, senza che ci sia più un punto fermo al quale agganciarsi. Chi si appella alle norme precedenti ad “Amoris laetitia”, che non sono state revocate,  è spesso guardato con sospetto se non con aperta ostilità, come se fosse un ottuso dottore della legge, incapace di amore e misericordia. Chi invece vuole aderire ad “Amoris laetitia” si trova a confrontarsi con un appello al “discernimento” che, alla fine, risulta generico. Mi chiedo: la più alta forma di misericordia non è forse quella di indicare certezze circa un chiaro cammino di santificazione, specie in questo nostro tempo di totale sbandamento morale?».

L’elenco dei dubia espressi dal parroco coincide con quelli dei quattro cardinali che hanno scritto al papa ed è segnato dalla stessa preoccupazione.
«Nella “Familiaris consortio” di san Giovanni Paolo II leggiamo:  “Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni”. È un passo che Francesco riprende, ma qual è la verità? Sta nella dottrina che la Chiesa ha sempre affermato o sta, come sembra emergere da “Amoris laetitia”, nel modo in cui le persone vivono, in coscienza, una data situazione?».

«Le cosiddette unioni irregolari possono esprimere in qualche misura il bene del matrimonio cristiano, oppure lo contraddicono? Costituiscono o no una condotta di vita peccaminosa? E in una unione irregolare si può scorgere una realizzazione, sia pure parziale e graduale, della legge divina?».

Il parroco spiega che tra i preti ci sono sempre state diverse linee di condotta, tanto è vero che le persone che non ottenevano il via libera verso la comunione in una parrocchia potevano ottenerlo in un’altra. Ma adesso sembra che la Chiesa stessa, attraverso la via del caso per caso, giustifichi e legittimi questa che è a tutti gli effetti un’ambiguità che rischia di togliere credibilità tanto alla dottrina quanto alla pastorale.

«Quanta importanza si deve dare alla coscienza individuale? Può essere considerata la sorgente del bene e del male? Capisco – dice il parroco – che viviamo in una società secolarizzata e dobbiamo fare i conti, come raccomanda il papa, con la realtà per quella che è, senza rifugiarci in un mondo che trova riscontro solo sulla carta, ma l’indissolubilità del vincolo matrimoniale va considerata come un ideale verso cui tendere o come verità da vivere e testimoniare?».

Il parroco si interroga con passione e anche sofferenza. Per lui queste domande non sono teoria: hanno il volto di persone con le quali si confronta direttamente e che da lui si aspettano risposte. Ma quali?

«La fedeltà alla nuova unione può in qualche misura “compensare” lo scioglimento del vincolo matrimoniale fino al punto da considerare la nuova unione come non peccaminosa? E che cosa significa che i divorziati civilmente risposati sono membra vive della Chiesa? Vuol dire che non si trovano in situazione oggettiva di peccato? Ma se non si trovano in situazione di peccato vuol dire che il matrimonio non è indissolubile?».

E poi: in che cosa deve consistere, concretamente, il discernimento che è al centro della proposta di «Amoris laetitia»? A che cosa deve tendere? Il discernimento pastorale, per esempio, può spingersi fino a ritenere che la nuova unione, vissuta nella fedeltà e nell’amore sincero, è più santa della prima, nonostante sia stata infranta l’indissolubilità?

Domande su domande. «I divorziati risposati possono essere considerati in  stato di grazia? Possono dunque ricevere l’assoluzione e accostarsi all’eucaristia anche se non rinunciano alla nuova unione e anche se non la vivono nella castità? Non dico che prima di “Amoris laetitia” fosse facile affrontare certi argomenti, ma adesso sembra diventato impossibile, perché il documento è confuso».

«Se lei mi chiede se il processo di discernimento può arrivare a sostenere l’ammissione all’eucaristia, in virtù della presenza di circostanze attenuanti, per i divorziati civilmente risposati che vivono more uxorio, io le devo dire che, a questo punto, sinceramente non lo so».

E che dire del soggettivismo che sembra essersi intrufolato nel documento? «Il fatto che una persona sia soggettivamente convinta, in coscienza, dell’invalidità del matrimonio è sufficiente per giustificare il secondo matrimonio, concedere l’assoluzione e ammettere all’eucaristia? Dopo “Amoris laetitia”, come faccio a giustificare l’impossibilità di dare la comunione a persone civilmente risposate che vivono more uxorio nella fedeltà? Il documento, anche se formalmente mi lascia libero di discernere, di fatto mi spinge a dare la comunione».

«Più leggo il testo e meno mi si chiariscono le idee. Dopo “Amoris laetitia” e la sua proposta di valutare caso per caso, come faccio a sostenere l’universalità della legge divina? Il vescovo mi dice che non sono io a dover discernere per decidere chi può e chi non può accostarsi alla comunione eucaristica: il mio ruolo deve essere quello di aiutare le persone a prendere coscienza dello stato in cui si trovano, davanti a Dio e alla Chiesa. Sono belle parole, ma, con tutto il rispetto, non tengono conto della realtà. Le persone vogliono risposte chiare. Anche le più disponibili e comprensive, che sono la maggioranza, a un certo punto chiedono di approdare a qualche risultato. E comunque non manca chi ha un atteggiamento rivendicativo: il papa ha dato il permesso, quindi lei, caro signor parroco, deve adeguarsi!».

Le domande si accumulano, le risposte si allontanano. «L’ultima volta che l’ho incontrato, il vescovo mi ha confidato: “Io tra poco me ne andrò in pensione e sono molto contento di andarci; non invidio voi che restate in prima fila, in mezzo a questa confusione”. Per lo meno è stato sincero. Resta il fatto che io mi sento a corto di risposte».
Viene in mente Bob Dylan, fresco premio Nobel: «The answer, my friend, is blowin’ in the wind». «La risposta, amico mio, soffia nel vento».
Ma è il vento dello Spirito?

di Aldo Maria Valli, da http://www.aldomariavalli.it/2016/12/24/amoria-laetitia-i-dubia-di-un-parroco-e-una-risposta-blowin-in-the-wind/

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Vescovi coraggiosi: Sulmona

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 Il vescovo di Sulmona-Valva ultima vittima del “gender diktat”

Il gender diktat ha fatto una nuova vittima illustre. E’ ora infatti il turno del vescovo di Sulmona-Valva, don Angelo Spina, il quale si trova, suo malgrado, al centro di una furiosa polemica a causa di alcune sue dichiarazioni “politically uncorrect,” rilasciate in un’intervista apparsa sul sito web “La Fede Quotidiana”.

L’intervista “incriminata”

L’unica colpa del vescovo molisano è stata quella di aver espresso le proprie considerazioni, anche in virtù del suo ruolo di pastore della Chiesa cattolica, riguardo l’indiscutibile profonda crisi nella quale versa oggi l’istituto della famiglia.

Interrogato a tale riguardo, don Spina ha puntato il dito contro due responsabili principali:

«Direi che i problemi sono due e interagiscono. Politica e clima culturale ostile remano contro la famiglia naturale fatta da uomo e donna. Partiamo dalla politica. Penso che non le attribuisca la cura che merita. In quanto al clima culturale è negativo e spesso addirittura ostile».

In particolare, ciò che ha fatto sobbalzare i paladini del verbo LGBT sono state le sue parole di denuncia nei confronti dell’asfissiante clima culturale odierno, monopolizzato da una potente e danaruta lobby, interessata ad imporre il proprio diktat ideologico con il decisivo supporto di media e stampa compiacenti:

«Oggi il mondo è impregnato da una ideologia che spaccia per diritti quelli che in realtà sono arbitrio. La stessa politica in Italia ne ha dato prova correndo per approvare la legge sulle unioni civili che certamente non erano la priorità, ma sono figlie di potenti e ricche lobby. Io non discuto i diritti individuali, ma non è possibile accostare come è stato fatto, la famiglia naturale composta da uomo e donna aperti alla vita con altri tipi di unione. Spiacevolmente anche la stampa e i media spesso danno una pessima informazione, orientata a far credere che tutto sia lecito e permesso nel nome di una falsa libertà».

Parole evidentemente scomode e troppo “forti” per la comunità LGBT+ che non ha perso tempo a scagliarsi contro don Spina, capitanata dalla stessa parlamentare PD Monica Cirinnà, che ha subito commentato così, sulla sua pagina Facebook, le esternazioni del Vescovo:

“Giorni fa ho fatto due assemblee nella sua diocesi, sale gremite da chi vuole il rispetto dell’art. 3 Cost., è uguaglianza non libero arbitrio”.

L’onorevole Cirinnà, che si vanta di aver riempito due sale in Molise per fare propaganda riguardo la legge da lei voluta sulle “unioni civili”, farebbe bene a sapere e a raccontare anche che l’intera provincia di Campobasso detiene il primato nazionale di non aver chiesto nemmeno una unione da quando la legge è entrata in vigore.

Solidarietà dai propri fedeli

In mezzo a tale pesante clima di persecuzione mediatica, monsignor Spina ha ricevuto l’appoggio e la solidarietà dei propri fedeli della concattedrale di San Bartolomeo a Bojano dove don Angelo è popolare ed amatissimo. I cittadini del piccolo comune molisano stanno utilizzando la rete Internet per cercare di far sentire il più possibile la propria voce in difesa del loro pastore attaccato ingiustamente.

Di seguito riportiamo uno dei numerosi messaggi di sostegno apparsi in rete :

“Il Vescovo di Sulmona-Valva, mons. Angelo Spina sta subendo, in queste ore, un feroce attacco mediatico ad opera di UAAR, truppe cammellate LGBT e Cirinná solo per aver ribadito il valore della famiglia naturale e tradizionale! Sosteniamolo!”.

L’UNICA VERITA? NESSUNA VERITA’

Il vergognoso attacco che sta subendo il vescovo di Sulmona-Valva rivela ancora una volta il carattere totalitario ed intollerante dell’odierno diktat etico. La dittatura LGBT+ arriva addirittura a pretendere che le proprie folli idee siano propagate ed imposte urbi et orbi con il silenzio/assenso della stessa Chiesa cattolica.

Si assiste così ad curioso e già visto paradosso, per il quale, la Cirinnà e i sostenitori di ogni tipologia di diritto, in nome del principio di non-discriminazione, negano ai rappresentanti cattolici il diritto a professare il proprio credo religioso.

Un’evidente e macroscopica contraddizione che mette in luce come il clima culturale odierno, opportunamente condannato da don Angelo Spina, sia quello di non poter proclamare alcuna verità al di fuori dell’unica verità accettata e praticabile: il non avere nessuna verità.

 

Rodolfo de Mattei, per https://www.osservatoriogender.it/il-vescovo-di-sulmona-valva-ultima-vittima-del-gender-diktat/

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Galantino divorzia dal popolo cattolico?

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 La gerarchia ecclesiastica italiana sembra ormai aver definitivamente divorziato dal popolo cattolico.

È l’impressione netta che si ricava dalle reazioni alla formazione del nuovo governo, e in particolare, per la nomina della senatrice PD Valeria Fedeli al ministero dell’Istruzione. Chi sia la senatrice Fedeli è noto, così come le sue crociate pro-gender nella scuola (noi ne abbiamo parlato ieri). E infatti dal momento dell’annuncio del nuovo governo si è creata una immediata agitazione nel mondo delle associazioni che hanno dato vita ai Family Day e tra i genitori già impegnati ad evitare che le scuole siano trasformate in campi di rieducazione, per usare un’espressione di papa Francesco.

«Questa scelta – ha detto per esempio Massimo Gandolfini, presidente del Comitato Difendiamo i Nostri Figli – ha chiaramente i toni della provocazione, se non della vendetta, verso le Famiglie del Comitato per il No, colpevoli di aver vinto il referendum». Gandolfini «assicura collaborazione per iniziative contro ogni forma di odiosa discriminazione, violenza o bullismo», ma consapevole di cosa significhi la Fedeli al Miur assicura allo stesso modo anche battaglia contro «qualsiasi tentativo di trasformare i nostri figli in cavie di sperimentazioni ideologiche». 

Che a una battaglia più aspra per la libertà di educazione e per difendere i figli bisogna prepararsi (come prima e più di prima) è chiaro anche ai parlamentari che hanno già sperimentato il “metodo Renzi-Boschi”. La deputata Eugenia Roccella, di Idea, ha parlato ad esempio – e sempre riferendosi alla scelta della Fedeli – di «stesso marchio di fabbrica del precedente sui temi etici e antropologici».

Si potrebbe continuare, ma a fare più notizia in effetti è il silenzio dei vescovi italiani, o per essere più precisi della Conferenza episcopale italiana che, per statuto, si occupa dei rapporti tra Chiesa cattolica e Stato italiano. Nulla da dire sul neo-ministro. Come interpretare questo silenzio? Sorpresa? Costernazione? Tentativo di riordinare le idee dopo un duro colpo?

Niente di tutto questo: pura e semplice connivenza con questo governo e con questa maggioranza parlamentare che – come abbiamo dimostrato nei giorni scorsi – è la più laicista e anti-famiglia della storia repubblicana. Per capire basta prendere in mano la surreale edizione di ieri del quotidiano Avvenire, organo ufficiale della CEI. Il caso Fedeli non è neanche menzionato, per Avvenire è un semplice avvicendamento che non merita più di tre parole.

In compenso l’editoriale del direttore Tarquinio, dietro al solito linguaggio clericale, esprime pieno appoggio al governo di un Gentiloni dallo «stile misurato e consapevole» (tradotto in linguaggio corrente vuol dire “siamo tutti con te”). “Il governo dei doveri” viene definito, ma invano cerchereste tra i doveri elencati dal direttore di Avvenire un pur qualche riferimento alla famiglia (peraltro scomparsa dall’orizzonte dei ministeri) o alla libertà di educazione. 

Ricordiamolo quando alla prossima occasione il direttore di Avvenire cercherà di accreditare il suo giornale in prima linea nella battaglia contro l’indottrinamento gender nella scuola o a difesa della famiglia. Balle, sono ben altre le preoccupazioni che albergano da quelle parti. Né si pensi che si tratta di una scelta autonoma del direttore. Soprattutto su certi temi a decidere è l’editore nella persona di monsignor Nunzio Galantino, segretario della CEI e plenipotenziario per i media legati alla Conferenza episcopale.

La controprova? L’altrettanto surreale comunicato dell’altra creatura affidata alle soffocanti mani di monsignor Galantino: il Forum delle Famiglie. Nessuna preoccupazione emerge dal comunicato stampa che riporta le dichiarazioni del vice-presidente del Forum Maria Grazia Colombo, solo ringraziamenti al ministro uscente Stefania Giannini (quella che “la teoria gender non esiste e se lo dite ancora vi denuncio”) e grande spirito di collaborazione con il ministro Fedeli da cui ci si attende una scuola che valorizzi tutte le sue componenti. Per concludere che «siamo a sua disposizione e le auguriamo buon lavoro». Stesi a tappetino.

La gerarchia ecclesiastica dunque va per la sua strada, ci diranno che loro non fanno muri ma costruiscono ponti. La realtà è ben diversa, questa è la strada dei mercanteggiamenti politici, dell'opzione preferenziale per il PD, degli scambi per salvare l’Otto per Mille: questa gerarchia pensa evidentemente che a salvare la presenza della Chiesa in Italia siano i soldi dello Stato e non la fede e la missione. E per questo abbandona il suo popolo che invece, seppur ridotto a minoranza, intende testimoniare nella società anche difendendo la dignità umana. Come è stato per i Family Day, ad accompagnare in questo cammino ci sono almeno singoli vescovi che non abdicano al loro ruolo, ma è ben triste constatare la diserzione dei vertici e come coloro che hanno sempre sulle labbra i poveri e il popolo sono poi quelli più pronti a sostenere il potere. 

 

Riccardo Cascioli, per http://www.lanuovabq.it/it/articoli-i-vescovi-divorziano-dal-popolo-cattolico-18364.htm

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La Chiesa della misericordia e i quattro cardinali

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 La Chiesa della misericordia di fronte ai Dubia dei cardinali:
si riscopre tribunale dell'Inquisizione

Li hanno dipinti come “vecchi rincoglioniti”, quattro cardinali isolati e fuori dal mondo, rimasuglio di una Chiesa ormai superata che vede solo la rigidità della dottrina e non capisce la Misericordia che entra nelle pieghe della vita. Insomma, uno scarto della Chiesa, un’appendice marginale neanche degna di un “sì” o un “no” alle loro domande.

Eppure devono averne una gran paura se da giorni stiamo assistendo a un crescendo di insulti e accuse pesanti, ormai un vero e proprio linciaggio mediatico, contro i quattro cardinali – Raymond Burke, Walter Brandmuller, Carlo Caffarra e Joachim Meisner – rei di aver resi pubblici cinque “Dubia” già presentati a papa Francesco riguardo all'esortazone apostolica Amoris Laetitia. Addirittura siamo arrivati a richieste di dimissioni dal collegio cardinalizio o, in alternativa, suggerimenti al Papa di togliere loro la berretta cardinalizia.

I protagonisti sono i più vari: vescovi che hanno da regolare conti personali, ex filosofi che rinnegano il principio di non contraddizione, cardinali amici di papa Francesco che malgrado l’età non hanno abbandonato i sogni rivoluzionari, intellettuali e giornalisti che si considerano “guardiani della rivoluzione”, e l’immancabile padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e vera eminenza grigia di questo pontificato, tanto da essere conosciuto a Roma come il vice-Papa. Quest’ultimo poi, come un adolescente qualsiasi, si è reso protagonista di bravate sui social che lasciano esterrefatti: dapprima con un tweet ha apostrofato il cardinale Burke paragonandolo al “verme idiota” del Signore degli anelli (tweet poi cancellato); quindi si è messo a rilanciare tweet offensivi nei confronti dei quattro cardinali partiti dall’account “Habla Francisco” (Parla Francesco), che si è scoperto ieri riportare all’indirizzo e-mail di padre Spadaro alla Civiltà Cattolica. E poi l’immancabile Alberto Melloni, punto di riferimento della Scuola di Bologna che lavora per una riforma della Chiesa fondata sullo “spirito” del Concilio Vaticano II.

È un vero e proprio nuovo tribunale dell’Inquisizione che, colpendo i quattro, intende intimidire chiunque abbia l’intenzione di esprimere anche semplici domande, figurarsi chi volesse esternare delle perplessità.

È un atteggiamento inquietante, una difesa del Papa quanto meno sospetta da parte di chi ha apertamente contestato i predecessori di papa Francesco. E solo per aver posto delle semplici domande di chiarimento a proposito dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia che, come chiunque può constatare, ha dato origine a interpretazioni opposte e sicuramente non conciliabili. Al proposito bisogna ricordare che i “Dubia” sono uno strumento molto utilizzato nel rapporto tra vescovi e Congregazione per la Dottrina della Fede (e attraverso questa con il Papa). La novità in questo caso è semplicemente nell’aver resi pubblici questi Dubia, ma dopo ben due mesi di vana attesa di una risposta, che i quattro cardinali hanno legittimamente interpretato come un invito a proseguire la discussione.

Eppure per Melloni si tratta di «un atto sottilmente eversivo, parte di un gioco potenzialmente devastante, con ignoti mandanti, condotto sul filo di una storia medievale». Atto eversivo, spiegherà Melloni in un’altra intervista, perché fare domande significa mettere il Papa sotto accusa, un metodo da inquisizione. Cose da non credere: chiedere chiarimenti è diventata un’attività eversiva, da Inquisizione. E gli «ignoti mandanti» poi: accuse vaghe, scenari fantasiosi ma che devono dare l’impressione di una cospirazione da fronteggiare con decisione. E infatti ecco il passaggio successivo: «Chi porta attacchi come questo (…) è qualcuno che punta a dividere la Chiesa», dice. E quindi ecco le conseguenze auspicate: «…nel diritto canonico è un crimine, punibile».

Addirittura criminali, dunque, perché vogliono dividere la Chiesa. Poco importa se la realtà è esattamente opposta: la spinta a rivolgere delle domande al Papa nasce proprio dalla constatazione della divisione nella Chiesa che si è palesata con le opposte interpretazioni di Amoris Laetitia.

C’è proprio puzza di maoismo nella Chiesa, rumore di Guardie Rosse e di avanguardie rivoluzionarie; ci mancano solo i campi di rieducazione. Anzi no, pare che già ci siano anche quelli, almeno stando al solito Melloni. Infatti, ci spiega il perché papa Francesco non abbia usato nei confronti di monsignor Lucio Vallejo Balda – nelle carceri vaticane per lo scandalo Vatileaks – quella clemenza che ha invece invocato per i carcerati nei vari paesi del mondo: «A fine Giubileo si capisce il perché: papa Francesco non vedeva in quel processo una procedura penale, ma un gesto pedagogico verso gli avversari» che ora «rischiano molto». Insomma, colpirne uno per educarne cento.

Si tratta di una lettura davvero inquietante, a maggior ragione se si pensa che quanti oggi si scatenano a difesa del Papa per delle semplici domande di chiarimento che dovrebbero essere normali, fino a ieri contestavano apertamente i predecessori di papa Francesco. Anzi, vedono oggi in papa Francesco la possibilità di cancellare quanto sulla famiglia hanno insegnato Paolo VI e Giovanni Paolo II. L’enciclica Humanae Vitae (Paolo VI) e l’esortazione apostolica Familiaris Consortio (Giovanni Paolo II) sono state nel mirino di vari episcopati europei (Austria, Germania, Svizzera, Belgio) anche nel recente doppio Sinodo sulla famiglia.

E chi di costoro si è scandalizzato quando il cardinale Carlo Maria Martini ha scritto chiaro e tondo (Conversazioni notturne a Gerusalemme) che l’Humanae Vitae ha prodotto «un grave danno» col divieto della contraccezione cosicché «molte persone si sono allontanate dalla Chiesa e la Chiesa dalle persone»? E ha auspicato un nuovo documento pontificio che la superi, soprattutto dopo che Giovanni Paolo II seguì «la via di una rigorosa applicazione» della Humanae Vitae? Certamente nessuno, perché ciò che conta non è l’oggettività del Magistero (il cui riferimento è la Rivelazione di Dio), ma il progetto ideologico di queste avanguardie sedicenti interpreti della volontà popolare.

E allora c’è un’intima coerenza nel fatto che i papisti di oggi siano i ribelli di ieri. Sì, ribelli. Perché da Paolo VI in poi, questi vescovi e intellettuali, questi maestri di obbedienza al Papa, hanno dichiarato guerra al Magistero in quanto non recepiva lo spirito del Vaticano II; hanno firmato manifesti, documenti e appelli in cui contestavano apertamente il Papa regnante, fosse Paolo VI, Giovanni Paolo II o Benedetto XVI. Ricordiamo almeno il pesante documento del noto moralista tedesco Bernard Haring nel 1988 contro Giovanni Paolo II che tanto sostegno ricevette in tutta Europa, subito seguito dalla Dichiarazione di Colonia, nel 1989, dello stesso tenore, firmata da numerosi e influenti teologi tedeschi, austriaci, olandesi e svizzeri. E in Italia subito accolta con favore, tra gli altri, da quel Giovanni Gennari  che oggi fa il quotidiano custode dell’ortodossia dalle colonne di Avvenire.

Ma nello stesso anno in Italia arriva anche il Documento dei 63 teologi, una Lettera ai cristiani pubblicata sulle colonne de Il Regno, in cui si contesta apertamente il magistero di Giovanni Paolo II. E nell’elenco dei firmatari ci troviamo nomi noti che hanno imperversato in seminari e atenei pontifici negli ultimi decenni, realizzando un vero e proprio magistero parallelo di cui oggi vediamo gli amari frutti. Facevano le vittime, ma tutti hanno fatto brillanti carriere, qualcuno è anche diventato vescovo come quel monsignor Franco Giulio Brambilla, attualmente vescovo di Novara e in corsa per succedere al cardinale Angelo Scola a Milano. Ma guarda caso, tra le firme troviamo l’immancabile Alberto Melloni, con i suoi colleghi della Scuola di Bologna (Giuseppe Alberigo in testa), il priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi, Dario Antiseri, Attilio Agnoletto.

Sono gli stessi che hanno continuato ad attaccare pubblicamente Benedetto XVI, anche con palesi prese in giro, riguardo alla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II che Melloni, Bianchi e co. hanno sempre visto come svolta radicale e irreversibile «nella comprensione della fede ecclesiale», contro l’ermeneutica della riforma nella continuità spiegata da papa Ratzinger. E come non ricordare le vesti stracciate per la scomunica tolta ai lefevriani mentre ora neanche un sospiro si è levato di fronte alle aperture unilaterali di papa Francesco.

Sono questi i personaggi che oggi pretendono di giudicare cardinali, vescovi e laici preoccupati della grave confusione che si è creata nella Chiesa. Una banda di ipocriti e sepolcri imbiancati, che perseguono da decenni una loro agenda ecclesiale, che usano il Papa per affermare un loro progetto di Chiesa, e che oggi si permettono l’arroganza di chi pensa di essere al comando di una vincente e gioiosa macchina da guerra. Sono questi i veri fondamentalisti, sostenuti da una stampa compiacente che non vede l’ora di cancellare definitivamente ogni traccia di identità cattolica. Che però, purtroppo per loro, non soccomberà. 

Riccardo Cascioli, per http://www.iltimone.org/35380,News.html

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Referendum, associazioni cattoliche: chi sì e chi no

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 Referendum, i vertici di molte associazioni cattoliche scollati dalla base pro No. Parla Gandolfini

 

Il popolo c’è e si è fatto sentire forte e chiaro. Ora bisogna lavorare ad una grande coalizione che si impegni direttamente sui temi della vita e in difesa della famiglia. Ma non nascerà un nuovo partito. “E io non mi candiderò alle elezioni”. Parla il neurochirurgo Massimo Gandolfini, portavoce del Family Day e coordinatore del comitato Difendiamo i nostri figli, che dice: “C’è un distacco nell’associazionismo cattolico tra i gruppi dirigenti e il loro popolo. Così nei grandi movimenti, Acli, Cl, Azione cattolica. E’ accaduto come al Family Day: la base era in piazza, i leader no”. Ecco la conversazione con Formiche.net.

Professor Gandolfini, quanta parte ha avuto il popolo del Family Day nella vittoria del No?

Crediamo di avere contribuito con quattro, cinque milioni di voti. E’ una valutazione che facciamo in base a quanto ci dicono dal centinaio di circoli del comitato Difendiamo i nostri figli, del migliaio di incontri e conferenze che abbiamo organizzato in tutto il territorio nazionale, anche in collaborazione con il Movimento cristiano lavoratori.

L’esito del voto ha mostrato la distanza tra grandi media e sentimento del Paese.

È la dimostrazione che mentre si dà spazio ai leader dei partiti e ai grandi politologi, non si tiene conto che c’è un voto popolare, educato e informato, che ha preso atto di come questa riforma avrebbe comportato una deriva autoritaria, un accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo. Così si è espresso di conseguenza. Adesso qualcuno comincia a riconoscere che ci sono movimenti popolari che hanno determinato l’esito del voto, anche se non si fanno i nomi.

Nel frastagliato fronte del No vi siete trovati insieme a forze ben lontane dalle vostre posizioni. Vede una patria politica per il popolo del Family Day? Nascerà un partito?

Non c’è un partito che incarni tutti i nostri valori. E non possiamo farne uno nostro, esclusivo sui valori etici, perché non funzionerebbe. Una forza politica deve portare avanti tanti altri temi di cui non ci occupiamo direttamente. Quello che come movimento dobbiamo fare in questa fase è un’azione di pressing sulle forze politiche a noi più vicine, creare una coalizione che si impegni sulla difesa della vita e della famiglia. Ora non c’è, ma questo No è stato storico, ha creato un terremoto di cui le forze politiche dovranno tenere conto.

Ieri la senatrice Cirinnà si domandava via twitter se non stia già trattando una candidatura per il Parlamento. Davvero, anche dopo l’esito del voto, non è tentato da un impegno diretto?

Di candidarmi me lo stanno chiedendo in tanti e da più parti, ma no, non sarò io; Cirinnà può dormire sonni tranquilli: non è un mio obiettivo. Lo farei solo se me lo chiedesse il Papa (sorride, ndr). Il compito della rappresentanza diretta spetta ad altri.

Come vanno i rapporti con Mario Adinolfi?

 Non so per lui, ma per me Mario resta un amico. Tuttavia la sua scelta di creare una lista è stata lacerante e controproducente sul piano politico. Noi cerchiamo di muoverci diversamente, come movimento culturale.

Anche il mondo cattolico ha avuto posizioni poliedriche sul referendum. E all’interno degli stessi movimenti.

C’è un distacco nell’associazionismo cattolico tra i gruppi dirigenti e il loro popolo. Così nei grandi movimenti, Acli, Cl, Azione cattolica. E’ accaduto come al Family Day: la base era in piazza, i leader no.

Perché accade questo?

Credo che ci siano gruppi dirigenti che si fanno condizionare da alcune aree della Cei. Ma il popolo poi fa quanto ritiene giusto e buono. Noi in un certo senso godiamo di un privilegio perché non dobbiamo rendere contro a nessuno; ci interessa solo servire.

Sembra prevalere nei movimenti laicali cattolici una sorta di preferenza per l’opzione religiosa. Più testimonianza e meno militanza.

La testimonianza è il primo punto della comunicazione dell’esperienza cristiana. Ma serve anche l’altro polmone, non si può confidare solo nella provvidenza, siamo chiamati a fare la nostra parte. E’ il ruolo profetico che ci ha assegnato il Concilio Vaticano II. Spetta ai laici entrare nelle cose del mondo.

L’episcopato ufficialmente non si è espresso.

In generale ha dominato la prudenza, forse eccessiva rispetto a quanto accaduto in passato. Anche se poi alcuni vescovi hanno fatto di più. Ma trovo significativo che il presidente Cei, Angelo Bagnasco, a fine settembre abbia invitato i cattolici ad andare alle urne bene informati. Ci ho letto una preoccupazione, un invito a guardarsi dai pericoli della riforma.

Riuscirà a perdonare Matteo Renzi per le unioni civili?

Il nostro non è stato un voto di ripicca. Abbiamo detto No perché con quella riforma qualsiasi forza al governo sarebbe stata pericolosamente autoritaria. Ed è stato la logica conseguenza davanti ad un governo che ha portato avanti a colpi di fiducia leggi contro la vita e la famiglia che riscrivono l’antropologia. Avremmo fatto lo stesso con altri, e faremo lo stesso in futuro con chi sceglie di non servire i nostri principi. Detto questo, che Renzi provenga da un’esperienza nell’associazionismo cattolico è un valore aggiunto, ma al di là della memoria, di quello che è stato, dobbiamo stare al presente, a quanto accaduto. Non si è neppure confrontato con noi, nonostante lo avesse promesso.

Dialogo impossibile?

Siamo due cristiani. Possiamo e dobbiamo parlare, ma noi non arretriamo di un passo. Lui è disponibile a rivedere le sue posizioni sulle istanze che provengono dal suo partito su adozioni per tutti, l’educazione gender nelle scuole, la legalizzazione della cannabis, l’eutanasia e tutto il resto?

Gandolfini, di fronte all’enormità dei problemi economici perché insistere così tanto su questi valori?

Forse sembriamo dei don Chisciotte che lottano contro i mulini a vento. Io però dico: meno male che ci siamo, che abbiamo assunto questo compito, che abbiamo preso in mano la bandiera di questi temi. Ad impegnarsi di problemi economici sono già in tanti, mentre si assottiglia l’attenzione ai valori della vita. E noi di questo siamo chiamati ad occuparci.

 

di Andrea Mainardi per http://formiche.net/2016/12/07/gandolfini-referendum-i-vertici-di-molte-associazioni-cattoliche-scollati-dalla-base-pro-no/

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Attivisti gay entrano nei piani pastorali

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 I vescovi italiani non hanno dubbi: gli attivisti gay entrano nei piani pastorali

 Se sulla esortazione apostolica Amoris Laetitia quattro cardinali hanno espresso cinque “Dubia” (dubbi), vale a dire delle domande di chiarimento che vanno al cuore della fede cattolica, chi non ha assolutamente dubbi è la CEI, la Conferenza episcopale italiana.
Lo scorso fine settimana ha radunato ad Assisi oltre 500 responsabili diocesani di pastorale familiare per riflettere sulla Amoris Laetitia e individuare le linee pastorali in materia.
In realtà per i convenuti c’era ben poco da riflettere, solo prendere atto di ciò che i responsabili Cei avevano già deciso. E dietro tanti discorsi fumosi – così almeno appaiono dal resoconto della tre giorni pubblicato ieri da Avvenire – è chiaro che gli obiettivi sono due, i soliti: comunione ai divorziati risposati e promozione dell’omosessualità.

Per capire l’antifona bastano le poche citazioni riportare da Avvenire. Si deve passare dalla Familiaris Consortio alla Amoris Laetitia, dice ad esempio un poetico don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio famiglia della Cei: «Con le stesse note è stata scritta una musica completamente nuova». Tradotto vuol dire: scordatevi san Giovanni Paolo II. Monsignor Vincenzo Paglia, neo presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere dell’Istituto Giovanni Paolo II sulla famiglia cade invece in un umorismo involontario quando dice – lui che ha ancora qualche guaio con le procure – che «non siamo più schiavi della legge ma figli della libertà della Grazia».

E poi c’è il teologo moralista Basilio Petrà secondo cui la «tradizionale posizione cattolica» non consiste nel «compiere sempre la norma come si dà oggettivamente», ma nel «fare ogni momento il bene che appare possibile e doveroso in coscienza»; così si «rimane in grazia di Dio, anche se oggettivamente non ci fosse coincidenza con la norma». Traduciamo in immagini: il comandamento dice “non commettere adulterio”, ma se in un dato momento non mi trattengo e mi concedo un’avventura o un’altra relazione resto comunque in grazia di Dio se ritengo che questo sia il massimo che riesco a fare. E lo stesso dovrebbe valere per il furto, l’omicidio e via dicendo. Una concezione che così espressa potrebbe creare qualche problema perfino ai protestanti, e che sicuramente scandalizzerebbe qualsiasi buon cattolico che abbia studiato appena un po’ di catechismo; ma per il professor Petrà questa è la tradizionale posizione cattolica. Complimenti.

Ma la questione più scottante riguarda l’omosessualità, ovvero la presentazione di testimonianze e linee pastorali di accoglienza che vanno nella esclusiva direzione dell’accettazione non delle singole persone, ma dell’omosessualità come tale, vissuta in realtà di coppia. E guarda caso a fare da mattatore insieme ad altri “testimoni” – di cui meglio riferisce Repubblica – c’era ancora quel padre Pino Piva, gesuita, già protagonista di una trasmissione alcuni mesi fa su Tv2000 che aveva scandalizzato molte persone per i suoi contenuti sfacciatamente pro-omosessualità e a favore di relazioni omosessuali di coppia. Qualcuno, benevolo o ingenuo, aveva detto che quel programma all’insegna di «l’importante è l’amore» era probabilmente un incidente, un errore di qualche redattore poco avvertito. Balle, il convegno CEI di Assisi dimostra che la strada che si vuole percorrere è proprio quella di legittimare i rapporti omosessuali come tali, una semplice variante della natura umana. E del resto, non è lo stesso Avvenire che per mesi – discutendo la legge Cirinnà – ha chiesto il riconoscimento delle unioni omosessuali basta che non siano parificate alla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna?

Sia ben chiaro: qui non è in discussione l’accoglienza per la persona con tendenze omosessuali, che nella Chiesa – checché ne dica Avvenire e qualche papavero CEI – c’è sempre stata (chiedere ai tanti preti che passano ore e ore in confessionale). Ciò che prima non era accettata come normale e proponibile è l’omosessualità in quanto tale. E invece oggi è proprio questo che sta proponendo la CEI, e in tante diocesi ormai c’è una pastorale che consiste nell’incoraggiamento della associazioni Lgbt cristiane, che poi chiamano accompagnamento. Ma in questo modo si fa solo attivismo gay, non certo il bene delle persone con tendenze omosessuali. Tanto è vero che la CEI si guarda bene dall’invitare a incontri come quello di Assisi quelle esperienze di accompagnamento – vedi Courage o l’Associazione Lot di Luca di Tolve – che propongono percorsi che partono dal riconoscimento della sofferenza insita nella condizione di omosessualità, in sintonia con quanto anche si trova nel Catechismo. Ma figurarsi se di questi tempi può essere proponibile il Catechismo: direbbe monsignor Paglia che «non siamo più schiavi della legge».

(Riccardo Cascioli per http://www.lanuovabq.it/it/articoli-i-vescovi-italiani-non-hanno-dubbigli-attivisti-gay-entrano-nei-piani-pastorali-18066.htm )

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Padre Manelli: archiviate le accuse

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Il PM, terminate le indagini e non avendo ritenuto sussistenti gli elementi per esercitare l’azione penale, ha chiesto l'archiviazione del procedimento a carico del fondatore dei Frati Francescani dell'Immacolata. Ottima notizia.

Attendiamo ora la decisione del GIP e speriamo che accolga la richiesta dell'Ufficio del Procuratore per vedere definitivamente prosciolto p. Manelli.

E' stato scritto a proposito:
"Il castello di accuse contro Padre Manelli era assurdo ed inverosimile. 
Paradossale, incongruente e perciò falso. 
Tuttavia è stato difeso da pochi, e dentro la Chiesa nessuna parola si è alzata da un solo Vescovo a sua difesa, almeno per chiedere verità e giustizia.
 Appariva agli occhi del clericalismo dominante un reietto.  
E' stato difeso dal Signore e dalla Madre di Dio, l'Immacolata che il padre Manelli immensamente ama, che hanno istillato nei loro figli, fedeli cattolici di tutto il mondo, laici e semplici religiosi e sacerdoti, la difesa del verità e della giustizia e la riconoscenza verso la Congregazione a cui ha dato vita.
A volte è sembrata una causa persa, di fronte alla macchina da guerra ordita contro di lui ed i FFI. 

Bisognerà riflettere su chi e cosa … ha ordito questa macchinazione e perché".

Quando finirà la persecuzione contro i frati dell'Immacolata?  
Preghiamo per " I veri sacerdoti – P.Manelli lo è – che sono malvisti e di peso nell'attuale temperie storica, nella Chiesa invasa, in punti chiave, dai modernisti e da chi ha fatto e intende portare avanti il compromesso col mondo e con i suoi poteri forti ". 

"Non vorrei mai che alcuno pagasse per le calunnie e per il dolore inferto a P.Manelli, ai Frati e alle Suore Francescani dell'Immacolata : vorrei che se ne pentisse, ad maiorem Dei gloriam, non a gloria di Padre Manelli" 

AC

PADRE MANELLI: ARCHIVIATE LE ACCUSE CONTRO IL FONDATORE DEI FRANCESCANI DELL’IMMACOLATA 

di Marco Tosatti 
 
 

Archiviate le accuse contro padre Stefano Manelli, il fondatore dei Frati Francescani dell’Immacolata. 

Dopo circa un anno di indagini, il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Avellino, Sost. Dott. A. Del Bene, ha chiesto l’archiviazione del
procedimento nei confronti del religioso, il cui ordine é ancora commissariato, senza che sia stata data dopo anni, una motivazione valida da parte della Congregazione per i religiosi. 
 
Padre Stefano Manelli, nel recente passato era stato oggetto di una campagna di stampa particolarmente virulenta, e che sembrava in realtà mossa e ispirata da qualcuno all’interno del suo ordine religioso.
 
Accuse a effetto, dichiarazioni scandalistiche di ex suore, perfino il sospetto di un assassinio; la saga dei Francescani dell’Immacolata non si era fatta mancare nulla, e c’era stato nei mass media chi aveva seguito forse con troppo entusiasmo e senza grande spirito critico la marea interessata delle accuse. 
 
Adesso che la magistratura, con la richiesta di archiviazione, fa giustizia della campagna che potrebbe essere giudicata diffamatoria, emerge che il fondatore dell’Istituto dei Frati Francescani dell’Immacolata, è stato ingiustamente accusato di aver leso l’integrità fisica e morale delle suore del convento di Frigento compiendo atti di violenza sessuale e di maltrattamenti nei confronti delle stesse. 
 
Le persone a lui vicine commentano che “L’esito delle indagini ha fatto chiarezza sulle “ipotesi di accusa” restituendo giustizia e dignità a Padre Stefano Mannelli da tempo oggetto di calunniosi e diffamatori attacchi amplificati dagli organi di stampa”. 
 
E ora che la magistratura si è espressa, che sembra che padre Manelli non abbia stuprato, maltrattato e ucciso nessuno, torna la domanda, da porre alla Congregazione per i religiosi, al suo Prefetto, e al suo Segretario: che cosa ha fatto padre Manelli; e che cosa hanno fatto i Francescani dell’mmacolata per essere trattati con tanta durezza? 
 

La cronaca, nella sua ironia, ha voluto che la notizia dell’archiviazione giungesse proprio alla it.)fine dell’anno della Misericordia… 

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Amoris laetitia: nuovo appello di 4 cardinali

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 Quattro cardinali hanno inviato, il 19 settembre, a papa Francesco e al cardinale Gerhard Müller, prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede, una serie di questioni, nella forma canonica dei "dubia", relative all'Esortazione Apostolica Amoris Laetitia.

Riportiamo il testo integrale, firmato dai cardinali Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna, Raymond Burke, patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta, Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato di Scienze Storiche e Card. Joachim Meisner, Arcivescovo emerito di Colonia.

L'appello non ha ancora ricevuto risposta.
 

Fare chiarezza.

Nodi irrisolti di "Amoris laetitia" – Un appello

 

1. Una premessa necessaria

L’invio della lettera al Santo Padre Francesco da parte di quattro cardinali nasce da una profonda preoccupazione pastorale.

Abbiamo constatato un grave smarrimento di molti fedeli e una grande confusione, in merito a questioni assai importanti per la vita della Chiesa. Abbiamo notato che anche all’interno del collegio episcopale si danno interpretazioni contrastanti del capitolo ottavo di "Amoris laetitia".

La grande Tradizione della Chiesa ci insegna che la via d’uscita da situazioni come questa è il ricorso al Santo Padre, chiedendo alla Sede Apostolica di risolvere quei dubbi che sono la causa di smarrimento e confusione.

Il nostro è dunque un atto di giustizia e di carità.

Di giustizia: colla nostra iniziativa professiamo che il ministero petrino è il ministero dell’unità, e che a Pietro, al Papa, compete il servizio di confermare nella fede.

Di carità: vogliamo aiutare il Papa a prevenire nella Chiesa divisioni e contrapposizioni, chiedendogli di dissipare ogni ambiguità.

Abbiamo anche compiuto un preciso dovere. Secondo il Codice di diritto canonico (cann. 349) è affidato ai cardinali, anche singolarmente presi, il compito di aiutare il Papa nella cura della Chiesa universale.

Il Santo Padre ha deciso di non rispondere. Abbiamo interpretato questa sua sovrana decisione come un invito a continuare la riflessione e la discussione, pacata e rispettosa.

E pertanto informiamo della nostra iniziativa l’intero popolo di Dio, offrendo tutta la documentazione.

Vogliamo sperare che nessuno interpreti il fatto secondo lo schema “progressisti-conservatori”: sarebbe totalmente fuori strada. Siamo profondamente preoccupati del vero bene delle anime, suprema legge della Chiesa, e non di far progredire nella Chiesa una qualche forma di politica.

Vogliamo sperare che nessuno ci giudichi, ingiustamente, avversari del Santo Padre e gente priva di misericordia. Ciò che abbiamo fatto e stiamo facendo nasce dalla profonda affezione collegiale che ci unisce al Papa, e dall’appassionata preoccupazione per il bene dei fedeli.

Card. Walter Brandmüller

Card. Raymond L. Burke

Card. Carlo Caffarra

Card. Joachim Meisner

*

2. La lettera dei quattro cardinali al papa

Al Santo Padre Francesco

e per conoscenza a Sua Eminenza il Cardinale Gerhard L. Müller

Beatissimo Padre,

a seguito della pubblicazione della Vostra Esortazione Apostolica "Amoris laetitia" sono state proposte da parte di teologi e studiosi interpretazioni non solo divergenti, ma anche contrastanti, soprattutto in merito al cap. VIII. Inoltre i mezzi di comunicazione hanno enfatizzato questa diatriba, provocando in tal modo incertezza, confusione e smarrimento tra molti fedeli.

Per questo, a noi sottoscritti ma anche a molti Vescovi e Presbiteri, sono pervenute numerose richieste da parte di fedeli di vari ceti sociali sulla corretta interpretazione da dare al cap. VIII dell’Esortazione.

Ora, spinti in coscienza dalla nostra responsabilità pastorale e desiderando mettere sempre più in atto quella sinodalità alla quale Vostra Santità ci esorta, con profondo rispetto, ci permettiamo di chiedere a Lei, Santo Padre, quale supremo Maestro della fede chiamato dal Risorto a confermare i suoi fratelli nella fede, di dirimere le incertezze e fare chiarezza, dando benevolmente risposta ai "Dubia" che ci permettiamo allegare alla presente.

Voglia la Santità Vostra benedirci, mentre Le promettiamo un ricordo costante nella preghiera.

Card. Walter Brandmüller

Card. Raymond L. Burke

Card. Carlo Caffarra

Card. Joachim Meisner

Roma, 19 settembre 2016

*

3. I "Dubia"

1. Si chiede se, a seguito di quanto affermato in "Amoris laetitia" nn. 300-305, sia divenuto ora possibile concedere l’assoluzione nel sacramento della Penitenza e quindi ammettere alla Santa Eucaristia una persona che, essendo legata da vincolo matrimoniale valido, convive "more uxorio" con un’altra, senza che siano adempiute le condizioni previste da "Familiaris consortio" n. 84 e poi ribadite da "Reconciliatio et paenitentia" n. 34 e da "Sacramentum caritatis" n. 29. L’espressione "in certi casi" della nota 351 (n. 305) dell’esortazione "Amoris laetitia" può essere applicata a divorziati in nuova unione, che continuano a vivere "more uxorio"?

2. Continua ad essere valido, dopo l’esortazione postsinodale "Amoris laetitia" (cfr. n. 304), l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 79, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, circa l’esistenza di norme morali assolute, valide senza eccezioni, che proibiscono atti intrinsecamente cattivi?

3. Dopo "Amoris laetitia" n. 301 è ancora possibile affermare che una persona che vive abitualmente in contraddizione con un comandamento della legge di Dio, come ad esempio quello che proibisce l’adulterio (cfr. Mt 19, 3-9), si trova in situazione oggettiva di peccato grave abituale (cfr. Pontificio consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000)?

4. Dopo le affermazioni di "Amoris laetitia" n. 302 sulle "circostanze attenuanti la responsabilità morale", si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 81, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, secondo cui: "le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta"?

5. Dopo "Amoris laetitia" n. 303 si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 56, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, che esclude un’interpretazione creativa del ruolo della coscienza e afferma che la coscienza non è mai autorizzata a legittimare eccezioni alle norme morali assolute che proibiscono azioni intrinsecamente cattive per il loro oggetto?

*

4. Nota esplicativa a cura dei quattro cardinali

IL CONTESTO

I "dubia" (dal latino: "dubbi") sono questioni formali poste al Papa e alla Congregazione per la Dottrina della Fede chiedendo chiarificazioni circa particolari temi concernenti la dottrina o la pratica.

Ciò che è particolare a riguardo di queste richieste è che esse sono formulate in modo da richiedere come risposta "sì" o "no", senza argomentazione teologica. Non è nostra invenzione questa modalità di rivolgersi alla Sede Apostolica; è una prassi secolare.

Veniamo alla concreta posta in gioco.

Dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica postsinodale "Amoris laetitia" sull’amore nella famiglia, si è sollevato un ampio dibattito, in particolare attorno al capitolo ottavo. Nello specifico, i paragrafi 300-305 sono stati oggetto di divergenti interpretazioni.

Per molti – vescovi, parroci, fedeli – questi paragrafi alludono o anche esplicitamente insegnano un cambio nella disciplina della Chiesa rispetto ai divorziati che vivono in una nuova unione, mentre altri, ammettendo la mancanza di chiarezza o anche l’ambiguità dei passaggi in questione, nondimeno argomentano che queste stesse pagine possono essere lette in continuità col precedente magistero e non contengono una modifica nella pratica e nell’insegnamento della Chiesa.

Animati da una preoccupazione pastorale per i fedeli, quattro cardinali hanno inviato una lettera al Santo Padre sotto forma di "dubia", sperando di ricevere chiarezza, dato che il dubbio e l’incertezza sono sempre altamente detrimenti alla cura pastorale.

Il fatto che gli interpreti giungano a differenti conclusioni è dovuto anche a divergenti vie di comprendere la vita cristiana. In questo senso, ciò che è in gioco in "Amoris laetitia" non è solo la questione se i divorziati che sono entrati in una nuova unione – sotto certe circostanze – possano o meno essere riammessi ai sacramenti.

Piuttosto, l’interpretazione del documento implica anche differenti, contrastanti approcci allo stile di vita cristiano.

Così, mentre la prima questione dei "dubia" concerne un tema pratico riguardante i divorziati risposati civilmente, le altre quattro questioni riguardano temi fondamentali della vita cristiana.

LE DOMANDE

Dubbio numero 1:

Si chiede se, a seguito di quanto affermato in "Amoris laetitia" nn. 300-305, sia divenuto ora possibile concedere l’assoluzione nel sacramento della Penitenza e quindi ammettere alla Santa Eucaristia una persona che, essendo legata da vincolo matrimoniale valido, convive "more uxorio" con un’altra, senza che siano adempiute le condizioni previste da "Familiaris consortio" n. 84 e poi ribadite da "Reconciliatio et paenitentia" n. 34 e da "Sacramentum caritatis" n. 29. L’espressione "in certi casi" della nota 351 (n. 305) dell’esortazione "Amoris laetitia" può essere applicata a divorziati in nuova unione, che continuano a vivere "more uxorio"?

La prima domanda fa particolare riferimento ad "Amoris laetitia" n. 305 e alla nota 351 a piè di pagina. La nota 351, mentre parla specificatamente dei sacramenti della penitenza e della comunione, non menziona i divorziati risposati civilmente in questo contesto e neppure lo fa il testo principale.

Il n. 84 dell’esortazione apostolica "Familiaris consortio" di Papa Giovanni Paolo II contemplava già la possibilità di ammettere i divorziati risposati civilmente ai sacramenti. Esso menziona tre condizioni:

– Le persone interessate non possono separarsi senza commettere una nuova ingiustizia (per esempio, essi potrebbero essere responsabili per l’educazione dei loro figli);

– Essi prendono l’impegno di vivere secondo la verità della loro situazione, cessando di vivere insieme come se fossero marito e moglie ("more uxorio"), astenendosi dagli atti che sono propri degli sposi;

– Essi evitano di dare scandalo (cioè, essi evitano l’apparenza del peccato per evitare il rischio di guidare altri a peccare).

Le condizioni menzionate da "Familiaris consortio" n. 84 e dai successivi documenti richiamati appariranno immediatamente ragionevoli una volta che si ricorda che l’unione coniugale non è basata solo sulla mutua affezione e che gli atti sessuali non sono solo un’attività tra le altre che la coppia compie.

Le relazioni sessuali sono per l’amore coniugale. Esse sono qualcosa di così importante, così buono e così prezioso, da richiedere un particolare contesto: il contesto dell’amore coniugale. Quindi, non solo i divorziati che vivono in una nuova unione devono astenersi, ma anche chiunque non è sposato. Per la Chiesa, il sesto comandamento "non commettere adulterio" ha sempre coperto ogni esercizio della sessualità umana che non sia coniugale, cioè, ogni tipo di atto sessuale al di fuori di quello compiuto col proprio legittimo sposo.

Sembra che, se ammettesse alla comunione i fedeli che si sono separati o divorziati dal proprio legittimo coniuge e che sono entrati in una nuova unione nella quale vivono come se fossero marito e moglie, la Chiesa insegnerebbe, tramite questa pratica di ammissione, una delle seguenti affermazioni riguardo il matrimonio, la sessualità umana e la natura dei sacramenti:

– Un divorzio non dissolve il vincolo matrimoniale, e i partner della nuova unione non sono sposati. Tuttavia, le persone che non sono sposate possono, a certe condizioni, compiere legittimamente atti di intimità sessuale.

– Un divorzio dissolve il vincolo matrimoniale. Le persone che non sono sposate non possono realizzare legittimamente atti sessuali. I divorziati e risposati sono legittimamente sposi e i loro atti sessuali sono lecitamente atti coniugali.

– Un divorzio non dissolve il vincolo matrimoniale, e i partner della nuova unione non sono sposati. Le persone che non sono sposate non possono compiere atti sessuali. Perciò i divorziati risposati civilmente vivono in una situazione di peccato abituale, pubblico, oggettivo e grave. Tuttavia, ammettere persone all’Eucarestia non significa per la Chiesa approvare il loro stato di vita pubblico; il fedele può accostarsi alla mensa eucaristica anche con la coscienza di peccato grave. Per ricevere l’assoluzione nel sacramento della penitenza non è sempre necessario il proposito di cambiare la vita. I sacramenti, quindi, sono staccati dalla vita: i riti cristiani e il culto sono in una sfera differente rispetto alla vita morale cristiana.

*

Dubbio numero 2:

Continua ad essere valido, dopo l’esortazione postsinodale "Amoris laetitia" (cfr. n. 304), l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 79, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, circa l’esistenza di norme morali assolute, valide senza eccezioni, che proibiscono atti intrinsecamente cattivi?

La seconda domanda riguarda l’esistenza dei così detti atti intrinsecamente cattivi. Il n. 79 dell’enciclica "Veritatis splendor" di Giovanni Paolo sostiene che è possibile "qualificare come moralmente cattiva secondo la sua specie […] la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati prescindendo dall’intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell’atto per tutte le persone interessate".

Così, l’enciclica insegna che ci sono atti che sono sempre cattivi, che sono vietati dalle norme morali che obbligano senza eccezione ("assoluti morali"). Questi assoluti morali sono sempre negativi, cioè, essi ci dicono che cosa non dovremmo fare. "Non uccidere". "Non commettere adulterio". Solo norme negative possono obbligare senza eccezione.

Secondo "Veritatis splendor", nel caso di atti intrinsecamente cattivi nessun discernimento delle circostanze o intenzioni è necessario. Anche se un agente segreto potesse strappare delle informazioni preziose dalla moglie del terrorista commettendo con essa un adulterio, così da salvare la patria (ciò che suona come un esempio tratto da un film di James Bond è stato già contemplato da San Tommaso d’Aquino nel "De Malo", q. 15, a. 1). Giovanni Paolo II sostiene che l’intenzione (qui "salvare la patria") non cambia la specie dell’atto ("commettere adulterio") e che è sufficiente sapere la specie dell’atto ("adulterio") per sapere che non va fatto.

*

Dubbio numero 3:

Dopo "Amoris laetitia" n. 301 è ancora possibile affermare che una persona che vive abitualmente in contraddizione con un comandamento della legge di Dio, come ad esempio quello che proibisce l’adulterio (cfr. Mt 19, 3-9), si trova in situazione oggettiva di peccato grave abituale (cfr. Pontificio consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000)?

Nel paragrafo 301 "Amoris laetitia" ricorda che "la Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti". E conclude che "per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta ‘irregolare’ vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante".

Nella Dichiarazione del 24 giugno del 2000 il Pontificio consiglio per i testi legislativi mirava a chiarire il canone 915 del Codice di Diritto Canonico, che afferma che quanti "ostinatamente persistono in peccato grave manifesto, non devono essere ammessi alla Santa Comunione". La Dichiarazione del Pontificio consiglio afferma che questo canone è applicabile anche ai fedeli che sono divorziati e risposati civilmente. Essa chiarisce che il "peccato grave" dev’essere compreso oggettivamente, dato che il ministro dell’Eucarestia non ha mezzi per giudicare l’imputabilità soggettiva della persona.

Così, per la Dichiarazione, la questione dell’ammissione ai sacramenti riguarda il giudizio della situazione di vita oggettiva della persona e non il giudizio che questa persona si trova in stato di peccato mortale. Infatti soggettivamente potrebbe non essere pienamente imputabile, o non esserlo per nulla.

Lungo la stessa linea, nella sua enciclica "Ecclesia de Eucharistia", n. 37, San Giovanni Paolo II ricorda che "il giudizio sullo stato di grazia di una persona riguarda ovviamente solo la persona coinvolta, dal momento che è questione di esaminare la coscienza". Quindi, la distinzione riferita da "Amoris laetitia" tra la situazione soggettiva di peccato mortale e la situazione oggettiva di peccato grave è ben stabilita nell’insegnamento della Chiesa.

Giovanni Paolo II, tuttavia, continua a insistere che "in caso di condotta pubblica che è seriamente, chiaramente e stabilmente contraria alla norma morale, la Chiesa, nella sua preoccupazione pastorale per il buon ordine della comunità e per il rispetto dei sacramenti, non può fallire nel sentirsi direttamente implicata". Egli così riafferma l’insegnamento del canone 915 sopra menzionato.

La questione 3 dei "dubia" vorrebbe così chiarire se, anche dopo "Amoris laetitia", è ancora possibile dire che le persone che abitualmente vivono in contraddizione al comandamento della legge di Dio vivono in oggettiva situazione di grave peccato abituale, anche se, per qualche ragione, non è certo che essi siano soggettivamente imputabili per la loro abituale trasgressione.

*

Dubbio numero 4:

Dopo le affermazioni di "Amoris laetitia" n. 302 sulle "circostanze attenuanti la responsabilità morale", si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 81, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, secondo cui: "le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta"?

Nel paragrafo 302 "Amoris laetitia" sottolinea che "un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta". I "dubia" fanno riferimento all’insegnamento così come espresso da Giovanni Paolo II in "Veritatis splendor", secondo cui circostanze o buone intenzioni non cambiano mai un atto intrinsecamente cattivo in un atto scusabile o anche buono.

La questione è se "Amoris laetitia" concorda nel dire che ogni atto che trasgredisce i comandamenti di Dio, come l’adulterio, il furto, lo spergiuro, non può mai, considerate le circostanze che mitigano la responsabilità personale, diventare scusabile o anche buono.

Questi atti, che la Tradizione della Chiesa ha chiamato peccati gravi e cattivi in sé, continuano a essere distruttivi e dannosi per chiunque li commetta, in qualunque stato soggettivo di responsabilità morale egli si trovi?

O possono questi atti, dipendendo dallo stato soggettivo della persona e dalle circostanze e dalle intenzioni, cessare di essere dannosi e divenire lodevoli o almeno scusabili?

*

Dubbio numero 5:

Dopo "Amoris laetitia" n. 303 si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II "Veritatis splendor" n. 56, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, che esclude un’interpretazione creativa del ruolo della coscienza e afferma che la coscienza non è mai autorizzata a legittimare eccezioni alle norme morali assolute che proibiscono azioni intrinsecamente cattive per il loro oggetto?

"Amoris laetitia" n. 303 afferma che "la coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio". I "dubia" chiedono una chiarificazione di queste affermazioni, dato che essi sono suscettibili di divergenti interpretazioni.

Per quanti propongono l’idea di coscienza creativa, i precetti della legge di Dio e la norma della coscienza individuale possono essere in tensione o anche in opposizione, mentre la parola finale dovrebbe sempre andare alla coscienza, che ultimamente decide a riguardo del bene e del male. Secondo "Veritatis splendor" n. 56, "su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette 'pastorali' contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un’ermeneutica 'creatrice', secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare".

In questa prospettiva, non sarà mai sufficiente per la coscienza morale sapere che "questo è adulterio", "questo è omicidio" per sapere se si tratta di qualcosa che non può e non deve essere fatto.

Piuttosto, si dovrebbe anche guardare alle circostanze e alle intenzioni per sapere se questo atto non potrebbe, dopo tutto, essere scusabile o anche obbligatorio (cfr. la domanda 4 dei "dubia"). Per queste teorie, la coscienza potrebbe infatti legittimamente decidere che, in un certo caso, la volontà di Dio per me consiste in un atto in cui io trasgredisco uno dei suoi comandamenti. "Non commettere adulterio" sarebbe visto appena come una norma generale. Qua e ora, e date le mie buone intenzioni, commettere adulterio sarebbe ciò che Dio realmente richiede da me. In questi termini, casi di adulterio virtuoso, di omicidio legale e di spergiuro obbligatorio sarebbero quanto meno ipotizzabili.

Questo significherebbe concepire la coscienza come una facoltà per decidere autonomamente a riguardo del bene e del male e la legge di Dio come un fardello che è arbitrariamente imposto e che potrebbe a un certo punto essere opposto alla nostra vera felicità.

Però, la coscienza non decide del bene e del male. L’idea di "decisione di coscienza" è ingannevole. L’atto proprio della coscienza è di giudicare e non di decidere. Essa dice, "questo è bene", "questo è cattivo". Questa bontà o cattiveria non dipende da essa. Essa accetta e riconosce la bontà o cattiveria di un’azione e per fare ciò, cioè per giudicare, la coscienza necessita di criteri; essa è interamente dipendente dalla verità.

I comandamenti di Dio sono un gradito aiuto offerto alla coscienza per cogliere la verità e così giudicare secondo verità. I comandamenti di Dio sono espressione della verità sul bene, sul nostro essere più profondo, dischiudendo qualcosa di cruciale a riguardo di come vivere bene.

Anche Papa Francesco si esprime negli stessi termini in "Amoris laetitia" n. 295: "Anche la legge è dono di Dio che indica la strada, dono per tutti senza eccezione".

 

da: Corrispondenza Romana del 14/11/2016 http://www.corrispondenzaromana.it/nodi-irrisolti-di-amoris-laetitia-un-appello/

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