(Avvenire) Sudan, ecatombe «imbavagliata»

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Avvenire 11-5-2003

Nel silenzio o nell’indifferenza dei mass media e dell’opinione pubblica si consuma un massacro di cui sono vittime soprattutto le popolazioni civili del Sudan. L’islamizzazione forzata, i bombardamenti e le ripetute violazioni dei diritti civili

Il vescovo Gassis: il grido inascoltato dei cristiani vittime della persecuzione

Da Milano Gianni Santamaria
«La guerra in Iraq? Giorno e notte i giornali e le televisioni hanno riversato nelle case di tutto il mondo occidentale ore e ore di trasmissioni. Ma chi ha parlato dei due milioni di morti del Sudan e dei suoi cinque milioni di profughi? Chi conosce lo sterminio e la violazione di diritti umani che nel mio Paese va avanti ormai da anni?». Usa parole severe, il vescovo Macram Max Gassis, pastore in esilio di El Obeid, sui Monti Nuba. È a Milano per l’incontro che i Centri culturali ambrosiani hanno organizzato per il 40° della Pacem in terris. E coglie l’occasione per andare dritto alla coscienza di un Occidente spesso superficiale, se non ipocrita, che fa valere la vita di un iracheno, più di quella altrettanto preziosa di un sudanese. «È proprio vero che l’interesse dell’opinione pubblica è legato solo alla questione della ricchezza?», incalza il vescovo. In un mondo sempre più villaggio globale, possono esistere «persone di serie A e di serie B?». Snocciola orrori da far rabbrividire: denuncia con nomi e luoghi precisi episodi di crocifissioni, parrocchie bombardate, bambini venduti schiavi.
Tutte cose di cui nessuno parla.
Come se lo spiega questo silenzio?
I motivi sono vari. Il primo è la furbizia del regime di Khartoum. Quando arrivano i giornalisti gli fanno vedere quello che vogliono loro. Non li lasciano entrare nelle zone dove davvero si soffre. E poi anche il mondo cristiano non ha il coraggio di dire che ci sono davvero dei fondamentalisti islamici che perseguitano dei cristiani. A differenza di altre situazioni.
Quali?
Noi cristiani abbiamo levato la voce per difendere i dritti dei curdi, dei kossovari. Ma per il Sudan no. Non c’è stato un massiccio movimento per venire a vedere. Da noi, sui Monti Nuba, le persone sono venute con il contagocce. Vanno magari a parlare con altri. Mentre la Chiesa, presente con i suoi sacerdoti o catechisti, non viene avvicinata da alcuno. La mia porta è aperta per qualsiasi delegazio ne del mondo della comunicazione: venite a vedere la situazione. È vero, adesso è un po’ migliorata dopo il cessate-il-fuoco firmato a Ginevra nel gennaio 2002. C’è più apertura. Meno paura di essere bombardati o aggrediti da terra. Ma ci sono voluti cinque anni di appelli inascoltati alla Commissione diritti umani dell’Onu a Ginevra.
L’Occidente non parla di Sudan, anche perché ha la coscienza sporca, per esempio riguardo al petrolio?
Il petrolio è un problema che viene dopo. Sono entrati i canadesi, poi anche gli americani che hanno lasciato perché hanno visto che era un petrolio «maledetto». Intanto il regime del Nord si arma con i soldi che vengono dal petrolio del Sud.
Lei vive per lunghi periodi negli Stati Uniti e in Europa. Ciò non la facilita nel far conoscere la causa del suo popolo? O davvero si scontra con un “razzismo mediatico” per il quale le vicende del Sudan non importano a nessuno?
Ho la mia base a Nairobi, ma sono un po’ un globetrotter. E ho formato dei gruppi, soprattutto, in America, composti da avvocati specializzati nei diritti umani, per continuare la mia opera, mentre io sono in giro. C’è indifferenza. La Scrittura dice: poiché non sei né caldo né freddo, ma tiepido, ti ho vomitato. Mi pare che i media cerchino solo il sensazionalismo. Tanti morti in Burundi, tutti preziosi davanti agli occhi di Dio. Ma quanti sono morti in Sudan: due milioni e mezzo dall’89. E nessuno dice niente? Cinque milioni di profughi. Siamo diventati un peso per i Paesi vicini: Uganda, Kenya, Etiopia. E anche in Inghilterra. E nessuno dice niente?
Cosa si aspetta dall’Occidente?
Ho parlato anche con Magdaleine Albright e Colin Powell. A quest’ultimo ho detto che la pace a ogni costo significa fare un’ingiustizia alla gente che soffre. Adesso sono in corso i negoziati di pace. E io spero che l’Italia, che vi partecipa come gli Usa e la Norvegia, mantenga la sua posizione e contribuisca a far progredire la pace.
Da a fricano, secondo lei che Occidente è quello che dimentica una parte così sofferente dell’umanità?
L’ho detto, in Occidente giro Paesi dove è comune dirsi cristiani. Ci vuole più coraggio nel condividere il cammino di questi fratelli che percorrono la Via Crucis. Di farsi cirenei. Quello che noi vogliamo è solo pace e giustizia. Oggi si parla tanto di pace, ma non di quella che nasce dalla giustizia. Dovrebbe essere messo anche sulle bandiere appese ai balconi: pace e giustizia.