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Firenze contro Roma: un cattolicesimo in stato di disagio

Perché
a Firenze e in Toscana la Chiesa è più spenta e divisa che nel resto
d’Italia? Una "Lettera" di protesta contro le posizioni del papa e
della conferenza episcopale. E il commento di uno studioso fiorentino,
Pietro De Marco

di Sandro Magister ROMA, 25 giugno 2007 – Benedetto XVI ha terminato da poco di incontrare
a uno a uno i vescovi delle 226 diocesi italiane, recatisi da lui in
visita "ad limina".

Dai colloqui ha ricavato la conferma che in Italia la Chiesa
cattolica è saldamente presente e vitale. Oggi più di ieri, per alcuni
aspetti.

Ma non è ovunque così. Un caso emblematico di cattolicesimo in
stato di sofferenza è rappresentato da Firenze e dalla Toscana: una
città e una regione tra le più conosciute e ammirate al mondo.

* * *

Firenze e la Toscana, nell’Italia dell’ultimo secolo, sono state la
culla di una cattolicità straordinariamente viva e multiforme, con
personalità di forte spicco.

Era di Firenze lo scrittore Giovanni Papini, un convertito, autore
di una celebre vita di Gesù citata da Benedetto XVI nella prefazione
del suo "Gesù di Nazaret".

Ha vissuto a Firenze Giorgio La Pira, sindaco della città negli
anni Cinquanta e Sessanta, instancabile profeta di pace messianica tra
le nazioni e le religioni, di cui è in corso il processo di
beatificazione.

Apparteneva alla diocesi di Firenze il prete Lorenzo Milani,
parroco e maestro in una scuola da lui ideata e creata in un piccolo
paese di montagna, Barbiana, autore nel 1967 di un libro, "Lettera a
una professoressa", accolto in tutto il mondo come una rivoluzione
educativa.

Sono legati a Firenze i nomi di due grandi poeti cristiani: Mario
Luzi, più volte candidato al premio Nobel, e David Maria Turoldo.

Fu legato a Firenze anche uno dei più geniali architetti del
Novecento, Giovanni Michelucci, autore di chiese che a loro volta
esprimevano una visione teologica: di Chiesa non trionfante ma umile
pellegrina sulle vie del mondo.

Apparteneva alla diocesi di Firenze il sacerdote Giulio Facibeni,
indimenticato apostolo della carità, anch’egli in via di
beatificazione.

Era toscano don Divo Barsotti, fondatore della Comunità dei Figli di Dio, uno dei più grandi mistici della Chiesa contemporanea.

Era toscano padre Ernesto Balducci, teologo e antropologo dei più
ammirati, animatore di una rivista, "Testimonianze", divenuta con il
Concilio Vaticano II rivista-guida di una riforma della Chiesa in
chiave progressista.

Era fiorentino Mario Gozzini, autore nel 1964, assieme a Giampaolo
Meucci e ad altri pensatori cattolici e marxisti, di un libro dal
titolo emblematico: "Il dialogo alla prova", poi eletto in parlamento
nelle file della sinistra.

Erano di Firenze, del quartiere dell’Isolotto, la comunità e il
parroco, Enzo Mazzi, che furono protagonisti, nel 1968, del più
clamoroso atto di "dissenso" cattolico dopoconciliare.

* * *

Eppure, nonostante questa esuberante fioritura di personalità e di
carismi cristiani, Firenze e la Toscana sono oggi una città e una
regione nelle quali il cattolicesimo appare più spento e diviso,
rispetto al resto d’Italia.

La Pira e Balducci, da posizioni diverse, hanno avuto molti
discepoli. Ma. di questi, la gran parte spendono oggi il loro
patrimonio ideale sul solo terreno della milizia politica, con i
partiti della sinistra. E lo stesso è avvenuto per la rivista
"Testimonianze".

Anche gli indicatori classici dell’appartenenza alla Chiesa sono più bassi a Firenze e in Toscana che nel resto d’Italia.

È così per la partecipazione alla messa domenicale, per i matrimoni
religiosi, per il sostegno economico alla Chiesa, per la frequenza
all’ora di religione nelle scuole.

Perché è avvenuto questo? Per ragioni solo esterne o anche interne
alla Chiesa? Risponde a queste domande – di seguito in questa pagina –
un cattolico anche lui fiorentino, Pietro De Marco, professore di
sociologia della religione all’Università di Firenze e alla Facoltà
teologica dell’Italia Centrale.

In parte, l’analisi del professor De Marco è già apparsa su
"Toscana Oggi", il settimanale delle diocesi della Toscana, dove è
divenuta oggetto di discussione.

Per un’altra parte, De Marco commenta invece una recente "Lettera
alla Chiesa Fiorentina" diffusa da cattolici d’area progressista che
protestano contro le posizioni assunte dalla Chiesa di Benedetto XVI e
del cardinale Camillo Ruini: lettera firmata tra gli altri da Renzo
Bonaiuti, Bruno D’Avanzo, Bruna Bocchini, Pier Giorgio Camaiani, Enzo
Mazzi, Wilma Occhipinti Gozzini, tutti eredi di quella effervescenza
cattolica sopra descritta.

1. Una cattolicità volutamente assente dalla sfera pubblica

di Pietro De Marco

Franco Garelli è forse il sociologo della religione che ha offerto,
nell’ultimo quarto di secolo, le letture del cattolicesimo italiano
meno ipotecate da conformistiche prognosi di declino.

In un suo saggio del 2006, "L’Italia cattolica nell’epoca del
pluralismo", edito dal Mulino, egli ha scritto che nella svolta
culturale impressa all’Italia da Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI e
dal cardinale Camillo Ruini hanno un posto centrale “il forte richiamo
identitario e la scelta di far leva su quella parte della società che
più avverte l’esigenza di riattualizzare nel tempo presente i valori
della fede cristiana e i riferimenti etici che da essa derivano”.

Questo slancio, che mobilita minoranze ed è destinato alla “più ampia società”, avrebbe già ottenuto almeno questo effetto:

“L’attuale stagione della Chiesa e del cattolicesimo italiano è
profondamente segnata dal richiamo all’identità cristiana e
dall’impegno sui valori irrinunciabili”.

Mi chiedo: quanto di ciò è applicabile alle comunità e alle culture
cattoliche toscane? Quanto vi è, nella Toscana cattolica, di questa
vitalità, di queste effervescenze?

Rispondo: ben poco. Certamente vi sono dei valori nella Toscana
cattolica: spiritualità, volontariati, duttilità pastorale. Ma
sicuramente non “richiamo identitario”, che è passione solo di
minoranze. Azzardo questa opinione sulla scorta di ricerche particolari
e di una riflessione personale. E la giustifico con alcune tesi, da
verificare.

Una prima tesi. Nelle comunità toscane l’esistenza cattolica –
fuori dalle cerchie familiari e parrocchiali o dai numerosi cenacoli
spirituali e intellettuali nonché dalle visibilità circoscritte della
messa domenicale e dell’attività assistenziale – è prevalentemente una
paradossale visibilità dell’assenza.

Tale prevalente assenza è assenza da ciò che si chiama sfera
pubblica. Una dominante invisibilità cattolica non può essere surrogata
dalle mille attività, pur importanti e generose, nel sociale e nei
cosiddetti mondi vitali quotidiani. La sfera pubblica è altra cosa. La
dimensione civile del “riattualizzare nel tempo presente i valori della
fede cristiana e i riferimenti etici che da essa derivano” (Garelli)
non si realizza nelle piccole cose.

Una seconda tesi. Questa sindrome toscana di un’esistenza cattolica
pubblicamente assente si traduce spesso in una presenza dei singoli
nella sfera intellettuale o politica. Una presenza che è mimetica. Che
significa? Si dà presenza mimetica se si agisce imitando e adottando
l’abito e il ruolo di attori già sperimentati e graditi nella sfera
pubblica.

Così il cattolico è di volta in volta il tollerante mediatore, il
pacifista, il narratore delle glorie fiorentine del Novecento, il
critico dell’istituzione ecclesiastica, il difensore a oltranza della
Costituzione, il dirigente politico dalla parte del cittadino, il prete
dei diseredati (gli altri preti suscitano diffidenza), il volontario
per ragioni strettamente umanitarie, il teologo che si presenta come
intellettuale di sinistra, ecc. Presenza mimetica, si badi, più spesso
per convinzione che per pratica nicodemitica, cioè rivolta a
dissimulare la propria identità.

Una terza tesi. Questa invisibilità effettiva fatta di presenza
mimetica comporta l’obiettiva separatezza della fede del singolo e
della comunità ecclesiale dalla sfera pubblica. Ma nello stesso tempo
convive con la ricorrente invocazione ad abbattere gli “storici
steccati” tra Chiesa e società civile. Se questa contraddizione è
vissuta come pacifica è perché l’invisibilità cattolica toscana e i
suoi popolari teoremi hanno un retroterra di teologia debole, che rende
spontaneo il far coincidere la condizione del laico cristiano con la
laicità dei moderni.

Non mi stupisco. allora, quando vedo la progressiva riduzione dei
contenuti di dottrina nella catechesi impartita nelle parrochie, o
quando assisto alla manipolazione filantropica e solidaristica delle
parole del dogma e della liturgia.

Né mi stupisco della percentuale degli iscritti all’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole toscane, i valori percentuali
più bassi a livello nazionale, a Firenze addirittura disastrosi. La
partecipazione all’ora di religione è responsabilità cattolica
pubblica. Ma per l’ethos toscano la presenza cattolica nella scuola è
illegittima, comunque mal sopportata. E così anche molte famiglie
cattoliche si conformano all’opinione corrente e scelgono quell’assenza
pubblica che le rende socialmente accettabili.

Nella stessa logica, come la Toscana esibisce i più elevati
standard di esonero dall’insegnamento della religione (attorno al 17
per cento nell’ultimo anno scolastico, ma a Firenze con punte dell’80
per cento nelle medie superiori), così questa regione esibì nel 2005 le
percentuali di votanti più alte in Italia (quasi il 40 per cento,
contro il 25 della media nazionale) in occasione dei falliti referendum
per la fecondazione eterologa e per l’utilizzo degli embrioni: quando
l’indicazione dei vescovi italiani era di non votare. Un’indagine in
una storica organizzazione del volontariato cattolico fiorentino, le
Misericordie, accertò che un associato su tre si era recato alle urne.

Così tutto appare più semplice: il laico senza fede positiva né
cittadinanza religiosa non abita, forse, con bella naturalezza la sfera
pubblica delle società moderne? Ma questo avviene perché egli l’ha
realizzata a propria immagine. Il cristiano, cattolico in particolare,
vi abita invece con insuperabile problematicità, poiché la “neutralità”
della sfera pubblica agisce come la ben nota “bussola impazzita” e
sfida la responsabilità che la "Città di Dio" ha sul fine ultimo della
politica. La sfida avviene non su terreni declamatorii, ma su soglie
critiche come la vita o la famiglia. Per affrontarle non vi sono
modelli laici da imitare, ruoli "corretti" da rivestire. Il cristiano,
sia esso prete o comune fedele, deve operare allo scoperto.

Quanta percezione di questa criticità di ogni giorno e di questo
dovere vi è nella Toscana cattolica? L’agire prevalente mi pare
inconsapevole. E come può un debole sentimento cattolico, senza
dottrina, confrontarsi con l’orizzonte delle istituzioni politiche? Il
sociologo non è così sprovveduto da ricondurre tutto ciò alla
“secolarizzazione”. Sappiamo di numerose minoranze, nel clero e nel
laicato, che hanno una posizione critica verso questa Toscana
cattolica. E vi si oppongono come possono, con l’organizzazione e lo
studio, magari abbonando circoli e parrocchie a qualche periodico di
battaglia antimoderna come "Il Timone" o "Radici Cristiane".

E avviene che dove si cerca una visione più rigorosamente e
realisticamente cristiana – se necessario conflittuale – dell’agire
cattolico pubblico, lì si realizzi anche un più attento sapere della
fede.

2. E a proposito della "Lettera alla Chiesa Fiorentina"…

di Pietro De Marco

La remissività cattolica di fronte alla disapprovazione laica – la
remissività che sopra ho descritto nel suo esprimersi mimetico – si
ritrova nella "Lettera alla Chiesa Fiorentina" che alcuni cattolici,
anche miei amici, hanno scritto e diffuso nei mesi scorsi.

Quale disagio ha indotto questi cattolici a esprimere nella
"Lettera" la loro protesta? Sicuramente la difficoltà a giustificarsi
come membri della Chiesa di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e del
cardinale Camillo Ruini di fronte al giudizio ostile degli ambienti di
appartenenza e dell’opinione pubblica laica. Un’opinione pubblica che
in alcune aree dell’Italia crea l’impressione di essere dominante e con
ciò rappresentativa tout court dell’uomo contemporaneo. Un’opinione
laica che è da decenni in collisione, su libri e giornali, con il
magistero della Chiesa romana.

In effetti l’ansia che questi cattolici denotano di fronte
all’istanza giudicante laica è così forte che in nessuna riga della
"Lettera" affiora l’idea che i fedeli abbiano anzitutto il dovere di
intendere le ragioni e le decisioni dei loro pastori.

Ne hanno d’altronde l’opportunità. Ma quanti leggono e hanno letto
– da anni, da decenni – gli atti del magistero della Chiesa, spesso
notevolissimi, nella loro interezza e non nei lanci frammentari dei
giornali laici? Chi lo facesse non potrebbe supinamente accettare il
dispregio che anche tanti “cattolici critici” rivolgono al magistero
antropologico di Giovanni Paolo II o al richiamo al Logos e al diritto
naturale di Benedetto XVI.

E quanti, tra i firmatari della "Lettera" che siano anche
catechisti nelle parrocchie, colgono l’opportunità di formarsi con
l’"Introduzione al Cristianesimo" di Joseph Ratzinger?

Si badi: la fecondità dell’ascoltare la Chiesa – quella Chiesa che
continua a riflettere ed operare secondo responsabilità – vale anche
per i casi disciplinari. Ma quanti dei cattolici che si dicono “in
stato di disagio” si sono preoccupati di capire i motivi della
decisione del vicariato di Roma di negare i funerali religiosi a
Piergiorgio Welby, l’uomo gravemente ammalato che lo scorso inverno
volle e ottenne di porre fine anticipatamente alla propria vita?
Qualcuno ricorda che esiste una distinzione tra foro interno e foro
esterno, e una peculiare gerarchia tra giustizia e carità? Sarebbe
stata una buona occasione per apprendere. E non si ricava questo
necessario sapere dai giornali d’opinione che traducono a loro modo i
documenti romani.

Non risulta che qualcuno impedisca al laicato cattolico di parlare.
Il punto è che i cattolici della protesta hanno poco da dire, e quel
poco è di ostacolo a un autonomo, adeguato giudicare cattolico.

Poco ha da dire anche questa "Lettera", un testo che – salvo un
paio di riferimenti all’oggi – avrebbe potuto essere scritto
indifferentemente dieci, venti, trenta anni fa. Da decenni le citazioni
del Concilio Vaticano II sono sempre le stesse, immancabilmente
appaiate agli insegnamenti dei "maestri laici". A Firenze, inoltre, si
riascoltano di continuo le tesi di padre Ernesto Balducci, approdato
alla fine a un vero e proprio culto dell’uomo moderno. Chiedo: si può
davvero credere che la retorica sull’uomo moderno, retorica
costitutivamente ostile a ogni Chiesa che eserciti mandato e potestà di
guida, sia all’altezza della svolta del terzo millennio, dopo che la
visione novecentesca e progressista della modernità è stata travolta? A
parte il fatto che l’uomo moderno è stato e resta, nel discorso
progressista, un paradigma di comodo. Lo si può esaltare e scagliare
contro la Chiesa docente, a uso interno; e rigettarlo poi come feticcio
dell’Occidente, se si parla dell’Altro e del sud del mondo.

Per i cattolici della "Lettera" la Chiesa è "autentica" quando
riconosce il “genuinamente umano”, quando accetta le libertà dei
moderni come dato indiscusso, quando esibisce la propria incompetenza
nell’ordine morale-sociale. Una Chiesa disseminata, microcomunitaria,
coscienziale. A questa visione oppongo ancora due notazioni.

La prima. Se alcuni cristiani non sanno affrontare la
disapprovazione dell’intelligencija laica, lascino questo confronto a
chi ne ha la forza e il mandato, senza pretendere di frenarne l’azione.
A mio avviso, oggi, l’opposizione della Chiesa alla modernità non
ricaverebbe alcun aiuto da procedure di tipo sinodale. Né in linea di
dottrina, né secondo la logica dell’agire carismatico l’esercizio
dell’autorità dei pastori può essere ridotto a registrazione di un
punto d’equilibrio tra gruppi ecclesiali di opinione e pressione. La
"sacra potestas" non è pratica notarile.

La seconda. Se il cattolicesimo non è riducibile a una morale, come
legittimamente sostiene la "Lettera", ha però una morale. È uno
straordinario ordinatore umano-divino del senso del nostro operare.
Quindi è più che mai necessario proporre pubblicamente i comandamenti
della legge cristiana. Essi celebrano il Dio creatore e proteggono la
creatura. Il cosiddetto uomo contemporaneo non ha bisogno, e non
chiede, di essere blandito o confermato, ma di essere avvertito,
frenato, ostacolato, nelle proprie derive. Questo è esercizio di
"agape" ed è il compito originario e non modificabile della "Città di
Dio".

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La "Lettera" discussa da Pietro De Marco, con l’elenco dei cattolici che l’hanno firmata:

> Lettera alla Chiesa Fiorentina

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Il settimanale delle diocesi della Toscana sul quale De Marco ha anticipato alcune tesi qui sviluppate:

> Toscana Oggi